Le insegne e l’esistenza
di Mirella Camera (“a latere...”, 5 marzo 2012)
Mi hanno molto colpito, in questi giorni di sorprendente lutto collettivo, le parole di alcune persone che sono state vicine a Lucio Dalla, soprattutto quelle di Enzo Bianchi su la Repubblica di oggi e di Vito Mancuso a Che tempo che fa di sabato scorso.
Pagata la tara di quel po’ di inevitabile celebrazione che tocca a ogni persona pubblica e al fatto normalissimo che quando ci si raduna a salutare per sempre una persona cara, la si ricorda per le cose belle che ci ha lasciato e non certo per palesarne ombre o difetti, quello che sempre e comunque è saltato fuori è il ritratto di un uomo mite, profondo, buono, in ricerca, amante dell’amore.
Ma soprattutto testimone “a sua insaputa” di questi valori che - a detta di tutti quelli che l’hanno conosciuto da vicino - pur hanno dato forma e colore alla sua esistenza.
A sua insaputa non vuol dire che non ne fosse consapevole, anzi: li inseguiva con testardaggine e delicatezza, sapendo che l’unico modo per avvicinarli e “dirli” era sfiorarli un attimo, con la musica e la poesia. Questo lo sappiamo bene tutti noi, coinvolti a nostra volta in questo gioco (serissimo), ogni volta che siamo stati toccati per caso dal potere illuminante di qualche sua canzone.
Ma a lui non sembrava importasse proprio nulla di esserne un dichiarato testimone: lui era così, viveva così. E basta.
Ecco, che bello sarebbe se ogni testimonianza, soprattutto quella della fede, fosse così. Tanto testarda e appassionata quanto rispettosa e delicata, incarnata nelle mille cose di tutti i giorni senza proclami e segni di riconoscimento, presa molto più dalla ricerca e dalla sete delle sue profondità che dall’affermazione identitaria e dalle sue formule sbandierate e inoppugnabili.
Una fede a cui poco importano le insegne, e a cui molto importa l’esistenza.