E’ morto Lucio Dalla, addio a un poeta
A Montreux il suo ultimo concerto
Lo ha stroncato un infarto
durante il tour in Svizzera
"Ieri sera era felice e in forma"
La sua casa era sull’Etna *
Choc nel mondo della musica e dello spettacolo. E’ morto Lucio Dalla. Era nato a Bologna, come aveva scritto in una delle sue canzoni più belle, il 4 marzo 1943.
Lo ha stroncato un attacco cardiaco a Montreaux, in Svizzera, dove si trovava per una serie di concerti. Il 4 marzo avrebbe compiuto 69 anni.
Il cantante bolognese sembrava fino a ieri in buone condizioni: infatti ieri sera aveva regolarmente tenuto il concerto che era in programma. L’ultima apparizione sugli schermi televisivi è stata al Festival di Sanremo presentato da Gianni Morandi. Sul palco dell’Ariston il cantautore si è esibito con il giovane Perdavide Carone che cantava «Nanì» accompagnandolo e dirigendo l’orchestra.
«L’ho sentito ieri sera, è vivissimo», continuava a ripetere al telefono poco fa Roberto Serra, bolognese amico storico di Lucio Dalla e fotoreporter di professione, che non voleva credere alle notizie che arrivano da Montreux. «Non è possibile, mi ha telefonato ieri sera, stava benissimo, ed era felice, tranquillo, divertito e in pace con se stesso».«Era contento per un’intervista che gli avevano fatto - ha cambiato verbo Serra quando è stato chiaro che l’amico fosse scomparso per un attacco cardiaco - e per il tour europeo che aveva appena cominciato. Diceva che era emozionante ritrovare i luoghi di un analogo tour di trent’anni fa e di trovare, pur nella diversità delle situazioni, la stessa positiva risposta di pubblico di allora. Era a Zurigo, Stava andando a Montreux, era felice». Il suo ultimo viaggio.
Dopo il festival di Sanremo, Lucio Dalla era impegnato da pochi giorni in un tour internazionale che avrebbe concluso il 30 marzo a Berlino. La tournee era cominciata a Lucerna il 27 ed era proseguita la sera successiva a Zurigo. Dopo la tappa di Montreux, in programma ieri sera, il tour prevedeva altre date tra cui Basilea, Berna, Ginevra, Lugano, Parigi, Dusseldorf, Amburgo, Brema, Francoforte, Lussemburgo, Stoccarda e Monaco, fino al tappa conclusiva a Berlino. In scena sempre.
Il tour seguiva la recente pubblicazione di ’Questo è Amorè, doppio cd contenente alcune perle nascoste della sua sterminata discografia, e la produzione e realizzazione di ’Nani« e altri racconti....’, il nuovo album di Pierdavide Carone. Il tour europeo era una consuetudine che si ripeteva dai primi anni ’80 a intervalli regolari e che poneva il cantautore tra gli artisti meglio radicati tra le preferenze delle platee europee più attente. Nei concerti Dalla interpretava i più grandi successi che l’hanno reso famoso in tutto il mondo e inserito a pieno titolo nella storia della musica italiana contemporanea: da ’Carusò a ’04/03/’43’, da ’Come è profondo il marè a ’Balla balla ballerinò, da ’L’anno che verra» a ’Futurà e ’Piazza Grandè. Dalla era accompagnato da una band composta da Fabio Coppini alle tastiere, Bruno Mariani alle chitarre, Gionata Colaprisca alla batteria e percussioni, Roberto Costa al basso, Marco Alemanno nella doppia veste di attore e di vocalist insieme ad Emanuela Cortesi.
Da oltre un decennio Luicio Dalla aveva preso casa sull’Etna, a Milo, e sulle pendici del vulcano il cantautore bolognese produceva un vino, in rosso e in bianco. Lo aveva battezzato «Lo Stronzetto dell’Etna» e gli era valso qualche riconoscimento della critica enologica. Lo scorso 4 agosto Dalla, davanti al «Castagno dei Cento Cavalli», albero tra i più antichi d’Europa, aveva tenuto una «lectio magistralis», su «Mito e leggenda tra passato e presente; la funzione pedagogica e sociale dell’immaginario fantastico». Introdotto dal poeta Angelo Scandurra, il cantante era stato accompagnato alla tastiera dall’artista Marco Alemanno che ha letto brani tratti da «Viaggio in Sicilia e a Malta» di J.Houel, «Ricordi del viaggio In Sicilia» di E. De Amicis, «Viaggio in Italia» di J. W. Goethe ed il «Polifemo innamorato» di Santo Calì. Dalla aveva concluso la serata con due ’mitichè canzoni del suo vasto repertorio musicale, «Itaca» e «4 Marzo 1943».
* La Stampa, 01/03/2012
4 MARZO 1943
di Lucio Dalla *
“Dice che era un bell’uomo e veniva
veniva dal mare
parlava un’altra lingua
però sapeva amare
e quel giorno lui prese a mia madre
sopra un bel prato
l’ora più dolce
prima di essere ammazzato
Così lei restò sola nella stanza
la stanza sul porto
con l’unico vestito ogni giorno più corto
e benché non sapesse il nome
e neppure il paese
mi aspettò come un dono d’amore
fin dal primo mese
Compiva sedici anni quel giorno la mia mamma
le strofe di taverna le cantò a ninna nanna
e stringendomi al petto che sapeva
sapeva di mare
giocava a fare la donna con il bimbo da fasciare.
E forse fu per gioco o forse per amore
che mi volle chiamare come nostro Signore
della sua breve vita è il ricordo più grosso
è tutto in questo nome
io mi porto addosso
E ancora adesso che gioco a carte e bevo vino
per la gente del porto
mi chiamo Gesù bambino
e ancora adesso che gioco a carte e bevo vino
per la gente del porto
mi chiamo Gesù bambino
e ancora adesso che gioco a carte e bevo vino
per la gente del porto
mi chiamo Gesù Bambino...”.
*
Lucio Dalla, 4 marzo 1943 - 3:40
Album: Storie di casa mia (1971)
Funeral party
di MASSIMO GRAMELLINI (LA Stampa, 3/3/2012)
La Cei ha espresso l’auspicio che ai funerali di Lucio Dalla non risuonino le canzoni di Lucio Dalla. Neanche quelle di De Gregori, in questo i vescovi sono stati assolutamente equanimi. Altro che i gorgheggi pagani (e struggenti) di Elton John alle esequie di Lady Diana. Nessuna «canzonetta» deve distrarre i fedeli dall’incontro con la morte che si celebra nel rito: salutare il feretro sulle note di «Futura» sarebbe una rimozione del problema. Mi infastidiscono gli applausi ai funerali: li ritengo una scorciatoia emotiva per non penetrare il mistero, scaricando fuori di noi l’angoscia che il suono del silenzio ci provoca dentro. Ma la bella musica non è un applauso e Dalla è Dalla, un poeta, un cuore pulsante, che poi è quanto di più sacro io riesca a immaginare.
Certo, nessuno pensa di mettere un juke-box sull’altare di San Petronio o una pianola nel confessionale. Però fatico a comprendere quale danno produrrebbe alla dimensione spirituale dell’evento la presenza di un violinista che accogliesse l’ingresso della bara con gli accordi di «4 marzo 1943». E che ne direste, eminenze, se il coro dei bambini dell’Antoniano la cantasse tutta, quella canzone, che poi è la preghiera di un credente, quale Dalla era? La rigidità dei principi rimane un dono finché non si trasforma nell’incapacità di sintonizzarsi sul sentimento comune, su quella voce d’angelo che per sempre ci canterà «aspettiamo che ritorni la luce - di sentire una voce - aspettiamo senza avere paura domani».
Oggi i funerali di Lucio Dalla
In migliaia per l’ultimo saluto
Ieri folla alla camera ardente.
Alle 14,30 ci saranno le esequie *
BOLOGNA Fino a notte fonda hanno continuato la processione in Piazza Maggiore per portare l’ultimo saluto al "Lupo". Alle sette di ieri erano in trentamila e per i funerali di oggi ne sono attesi altrettanti. E chi non è riuscito a passare prima della chiusura, si è ripresentato questa mattina alle 7 nel cortile d’onore di Palazzo D’Accursio. Bastano questi numeri per capire "l’affetto straordinario" dei bolognesi per Lucio Dalla, stroncato giovedì scorso da un infarto durante il tour in Svizzera. Oggi i funerali alle 14,30. Lo hanno incoronato Re, lo hanno paragonato a una delle Due Torri, per l’ultimo saluto gli hanno aperto il cortile d’onore del palazzo comunale e la basilica di San Petronio. C’è chi lo considera l’ambasciatore della musica italiana all’estero e chi, per un giorno, lo promuove a capitano della squadra di basket e di calcio. Per tutti i bolognesi l’infarto di giovedì scorso non ha colpito soltanto Lucio Dalla, ma un pezzo di cuore di tutta la città. Il feretro di Lucio Dalla è stato portato in corteo dal compagno Marco Alemanno, da Ron e dai suoi collaboratori. Nel cortile di Palazzo D’Accursio è stato collocato su un piccolo palchetto, con un fondale nero sul quale è stato appeso un quadro dell’Ultima Cena, un’opera del giovane fotografo Stefano Cantaroni; sulla bara una sigaretta (una "paglia" come avrebbe detto lui), un cornetto rosso portafortuna e una rosa.
A fine giornata si contavano decine di mazzi di fiori, bigliettini, la maglia ufficiale della Virtus con dedica "Grazie Lucio per averci regalato la tua musica e la tua passione". Per tutta la giornata si sono ripetute dieci delle sue più famose canzoni, da "Cara" a "Caruso". E’ una "manifestazione d’affetto impressionante" secondo Romano Prodi che ha visitato la camera ardente ieri in mattinata assieme alla moglie Flavia. Per il ministro al Turismo, il bolognese Piero Gnudi, Dalla è stato un "uomo straordinario" e "con lui se ne va un pezzo di Bologna". Pierferdinando Casini "essere qui senza di lui è come essere qui senza la Torre degli Asinelli o la Garisenda". Gianni Morandi, che lo ha visto sul palco dell’Ariston qualche settimana fa, è così colpito dal dolore che non riesce nemmeno a pensare quale tipo di tributo si possa organizzare nei prossimi mesi: "Questa volta ci ha fatto proprio un brutto scherzo". Quello che ha lasciato in eredità, secondo Ron, è la sua leggerezza nel prendere la vita ma anche la morte: "Non si è mai arrabbiato per qualcosa, ha vissuto la vita in maniera leggera e se ne è andato in leggerezza". Per Marco Masini, invece, "è stato un Re e lo è ancora". Caterina Caselli ricorda gli inizi "quando cantavamo insieme" e "il suo ultimo messaggio" qualche giorno fa a Sanremo: "Sei sveglia?". Andrea Mingardi non si toglie dalla testa la stessa scena vista "per 50 anni" tutte le domeniche: "Lui che passa con la pelliccia di pelo di cane e dice ’Oggi vinciamo o perdiamo? forse pareggiamo’".
In Comune, tra la gente, sono arrivati anche Luca Cordero di Montezemolo, Corrado Augias, Fabio Roversi Monaco, Samuele Bersani, Isabella Ferrari, Bobo Craxi, la vedova Pavarotti Nicoletta Mantovani, il produttore Bibi Ballandi, i giornalisti Travaglio e Gabbanelli. Anche la Curia ha ceduto alla popolarità del Lupo: i funerali saranno nella Basilica di San Petronio, che fu aperta soltanto per le esequie di don Dossetti: canterà il coro di San Domenico, il compagno di Lucio leggerà alla fine della messa le parole della canzone "Le rondini"; non sarà presente il cardinale Caffarra, ma un suo sostituto. La camera ardente ha riaperto questa mattina. Ieri ha superato la fila soltanto Ines, la fan più anziana e fedele di tutti, che aveva sempre il primo biglietto in prima fila a tutti i concerti: "Ho portato una foto con la neve sui tetti. Una volta a pranzo gli ho detto ’Ti ruberò un verso di una tua canzone per il mio funerale; tu accosterai l’orecchi alla mia bara e mi sentirai cantare’. Purtroppo non è andata così".
* La Stampa, 04/03/2012
Il poeta di piazza Grande Grande come lui
di Romano Prodi (Il Sole-24 Ore, 2 nmarzo 2012)
Negli ultimi anni Lucio Dalla era diventato molto profondo, quasi meditativo. Da quando sono rientrato a Bologna dopo la fine dell’esperienza di governo ci sentivamo abbastanza spesso. Parlava di Dio, di spiritualità, dell’Italia di oggi.
Di come non amava la volgarità. Soffriva per la mancanza di poesia, nelle cose e nelle persone. E lui era effettivamente un poeta, con le bizzarrie e le profondità. La sua scomparsa mi ha molto colpito. E non solo me. Ieri ho visto piangere delle persone a Bologna. E mi costa scriverne. Forse in questi casi il silenzio sarebbe il modo migliore per onorarlo.
Lucio ha segnato la cultura italiana di questi ultimi quarant’anni come pochi. È stato un grande. E la sua partenza per il cielo lascia un vuoto, non solo per come è avvenuta. Così, all’improvviso. Ma anche per quello che lui e le sue canzoni hanno significato per gli italiani, per tutti noi italiani.
Tutte le nostre vite, in qualche modo, hanno avuto qualche sua canzone come colonna sonora. Cosa sarà. Piazza Grande, Anna e Marco, 4 marzo 1943... Ognuno di noi ha la sua personale chiusa nel cassetto dei ricordi. Quelli più intimi. La mia preferità è ovviamente Piazza Grande, ma anche 4 marzo 1943.
Un altro capitolo che ci accomunava è l’amore per Bologna. Lucio aveva un’apertura da ’uomo-mondo’ ma era bolognese nell’anima. In ricordo di lui molti ieri in città, dopo la notizia della sua morte, hanno deposto fiori sotto la sua casa, in via D’Azeglio, e in piazza Grande. Grande come lui.
Hanno saputo cantare la mancanza di pietà nella storia
Pasolini-Roversi-Dalla la poesia dei valori antichi *
Il cantante Lucio Dalla e il poeta Roberto Roversi formarono uno dei più straordinari sodalizi tra poesia e canzone. Dalla un cantante, bisognoso di platee, festival, pubblico. Roversi un poeta che condannava la vendita come nemica dell’arte. Lui faceva libri, ma rifiutava di farli stampare dagli editori. Preferiva stamparseli al ciclostile, nella sua libreria antiquaria Palmaverde, e mandarli gratis a chi glieli chiedeva. Roversi non maneggiava denaro, viveva e vive parcamente. Ricordo un pranzo in cui mi offrì mezza pizza, cioè una in due.
Un’altra persona mi offrì mezza pizza, ed è il parroco della Chiesa dei Sassi a Matera (c’era appena stato Mel Gibson, a girare The Passion: mezza pizza anche a lui). Con tanti ho mangiato una pizza intera, e non li ricordo. Con questi, mezza pizza, e non li dimentico. Regalando i suoi libri di poesia, Roversi boicottava il mercato. La poesia doveva circolare come dono dall’amico all’amico. Era possibile? Molti gli dicevano di no, compreso chi scrive queste righe. C’è un monito per l’autore: «Tu hai un’idea, e la scrivi; se l’idea arriva a destinazione, è merito suo; se non arriva, è colpa tua». Ma Roversi era (è) un puro, troppo puro per la nostra epoca, un ’monaco laico’. In tutt’e due, Roversi e Dalla, c’era una fede nella bontà dell’uomo, che era il residuo velato o palese di un originario cristianesimo. Più palese in Dalla, più velato in Roversi. Dalla era un fedele di Padre Pio. Ho detto «in tutt’e due», ma c’è un terzo personaggio, che non c’entra con Dalla, ma nel quale la scrittura era satura di cristianesimo, ed era Franco Fortini. Pasolini sarebbe stato il quarto, ma era perduto nella capitale. Il sodalizio Dalla-Roversi nacque con infinite cautele. Ciascuno sospettava dell’altro.
Ma (stranamente) funzionò. Roversi incontrava, nell’inconscio di Dalla, l’idea comune che il «male della nostra storia» consiste nella perdita della civiltà contadina, e nell’arrivo della civiltà industriale. Roversi intendeva, e Dalla accettò, come civiltà delle macchine, la civiltà delle auto.
Sembrava una concezione riduttiva, invece era portentosa. Nella mente di Roversi c’era il concetto che la civiltà delle automobili sacrifica l’uomo che le usa: è l’automobilismo che si serve di Nuvolari. L’industria non ha pietà. La mancanza di pietà nella storia è una costante in Pasolini-Roversi-Dalla. Ma la mancanza di pietà è, in Roversi-Dalla, la forza della civiltà industriale, lo strumento con il quale avanza.
Sui campi di battaglia dove si fa la storia restano morti e feriti: sono gli operai. C’è una ’pietà operaia’ in Roversi e Dalla, come c’è una ’pietà contadina’ in Pasolini. La sconfitta della civiltà contadina e operaia è la sconfitta dei padri, rinnegati dai figli. In quegli anni Dalla-Roversi crearono tre raccolte di poesie-canzoni (Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa, Automobili) sulla condanna delle macchine e sul rimpianto della terra, che è lo stesso discrimine su cui lavorava Pasolini, con più marcata nostalgia: diceva «darei tutta la Montedison per una lucciola», perché le industrie hanno sterminato le lucciole.
Non l’ho mai detto al mio amico-padre Roversi (che oggi leggerà questo articolo, e verso il quale ho la soggezione del figlio verso il padre), quando veniva a trovarmi con la sua Volkswagen Maggiolino verde. Non l’ho detto a Lucio Dalla, quando venne a casa mia, così giovane ed energico (io sempre sul divano, lui sempre sul tappeto) che sono costretto a domandarvi: «Ma siete sicuri che sia morto?». E non l’ho detto a Pasolini, che fu tre volte mio padre, prefatore del mio primo romanzo, delle mie prime poesie, e autore di uno scritto corsaro sul mio primo libro di critica. La maledizione all’industria marciava a tutto spiano, e in Pasolini-Roversi-Dalla dava risultati poetici grandiosi. Ma la mia obiezione era: sì, il passaggio dalla civiltà contadina alla civiltà industriale ha fatto tabula rasa dei valori morali (naturali-cristiani) dentro di noi, ma non era resistibile, aveva il fascino maligno della Medusa. Ce l’ha ancora. «Africa, mia sola alternativa», dice un verso di Pasolini. «Europa, nostra unica speranza», dicono gli africani venendo qui.
Ferdinando Camon
* Avvenire, 4 marzo 2012
Le insegne e l’esistenza
di Mirella Camera (“a latere...”, 5 marzo 2012)
Mi hanno molto colpito, in questi giorni di sorprendente lutto collettivo, le parole di alcune persone che sono state vicine a Lucio Dalla, soprattutto quelle di Enzo Bianchi su la Repubblica di oggi e di Vito Mancuso a Che tempo che fa di sabato scorso.
Pagata la tara di quel po’ di inevitabile celebrazione che tocca a ogni persona pubblica e al fatto normalissimo che quando ci si raduna a salutare per sempre una persona cara, la si ricorda per le cose belle che ci ha lasciato e non certo per palesarne ombre o difetti, quello che sempre e comunque è saltato fuori è il ritratto di un uomo mite, profondo, buono, in ricerca, amante dell’amore.
Ma soprattutto testimone “a sua insaputa” di questi valori che - a detta di tutti quelli che l’hanno conosciuto da vicino - pur hanno dato forma e colore alla sua esistenza.
A sua insaputa non vuol dire che non ne fosse consapevole, anzi: li inseguiva con testardaggine e delicatezza, sapendo che l’unico modo per avvicinarli e “dirli” era sfiorarli un attimo, con la musica e la poesia. Questo lo sappiamo bene tutti noi, coinvolti a nostra volta in questo gioco (serissimo), ogni volta che siamo stati toccati per caso dal potere illuminante di qualche sua canzone.
Ma a lui non sembrava importasse proprio nulla di esserne un dichiarato testimone: lui era così, viveva così. E basta.
Ecco, che bello sarebbe se ogni testimonianza, soprattutto quella della fede, fosse così. Tanto testarda e appassionata quanto rispettosa e delicata, incarnata nelle mille cose di tutti i giorni senza proclami e segni di riconoscimento, presa molto più dalla ricerca e dalla sete delle sue profondità che dall’affermazione identitaria e dalle sue formule sbandierate e inoppugnabili.
Una fede a cui poco importano le insegne, e a cui molto importa l’esistenza.
La Chiesa e Dalla il muro abbattuto
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 7 marzo 2012)
Alla fine resta il simbolo potente dei funerali di Dalla, che segnano il crollo del muro tenacemente difeso dalla Chiesa per anni e anni nei confronti dell’omosessualità. La Chiesa cattolica vive di simboli. E ora un solo segno rimane scolpito nella memoria collettiva: la curia arcivescovile di Bologna non ha avuto il coraggio di impedire solenni esequie cristiane ad un gay praticante. Non ha avuto la forza di negare il discorso funebre - praticamente a pochi metri dall’altare - al suo compagno innamorato. Non ha nemmeno potuto usare l’omelia per censurare il “peccatore” affidato alla “misericordia” dell’Aldilà. Il Muro di Berlino si è sbriciolato quando i dirigenti della Ddr hanno ammesso che non c’erano più armi per tenerlo in piedi.
Così è successo a Bologna. Dinanzi al corpo di un credente discreto si sono frantumate le tortuose distinzioni, solitamente invocate, tra il rispetto per l’essere umano e la condanna inappellabile del “grave disordine morale” rappresentato (per il catechismo ratzingeriano) dalla condotta omosessuale. Da oggi in ogni diocesi i familiari e i compagni o le compagne di un cristiano gay rivendicheranno il diritto ad avere esequie eguali.
Per capire l’impatto dell’evento va ricordato che se Milano nei decenni trascorsi è stata con i suoi cardinali Martini e Tettamanzi la capitale di un cattolicesimo che voleva respirare oltre i dogmi dottrinali, Bologna all’opposto è stata la casamatta di una interpretazione regressiva della dottrina. Ancora poche settimane fa il cardinale Caffarra chiedeva il ritiro delle associazioni cattoliche dalla consulta familiare cittadina, perché il Comune si era permesso di invitarvi una rappresentanza gay.
Domenica le barricate anti-gay ecclesiastiche si sono liquefatte nella constatazione che, rispetto al percorso spirituale di Dalla, le sue relazioni e il suo orientamento sessuale erano totalmente nonrilevanti. Anzi, nel susseguirsi di testimonianze commosse sul mondo interiore di Lucio - da parte di francescani, domenicani e di un monaco pensatore come Enzo Bianchi - è apparsa ancora più siderale la distanza tra il sentire reale dei cattolici italiani e l’irrigidirsi inutile (e muto) della gerarchia ecclesiastica.
Su Avvenire la lettrice Nerella Buggio scrive che le scelte di Dalla non riguardano nessuno “perché siamo liberi e ognuno è libero di fare le scelte più opportune; se si tratta di un cattolico sarà eventualmente un problema suo, se la vedrà con il suo confessore e con Dio, non spetta certo a noi giudicarlo...”. Il terreno su cui si incrociano in Italia laicità e cattolicesimo profondo è questo.
Lo stesso cardinale Bagnasco, rovesciando la linea tenuta da Ruini sul caso Welby, lo rende evidente quando dichiara che “di fronte ai morti preghiamo gli uni per gli altri, sempre”. Ora il punto non è passare il tempo a discutere dell’ipocrisia della Chiesa istituzionale o del perché gli italiani siano abituati a gestire senza outing i propri affari personali.
La questione da affrontare è un’altra. Se persino i vertici ecclesiastici avvertono l’insostenibilità della pubblica riprovazione di una vita gay, non si comprende perché lo Stato italiano tardi ancora a varare una legge che riconosca a due partner omosessuali di stringere pubblicamente un patto di vita in comune.
L’accordo trasversale per un contratto tipo Pacs era già pronto in Parlamento nel 2004 (convergenti Franco Grillini per il centrosinistra e Dario Rivolta di Forza Italia). La maggioranza del Paese era d’accordo. Poi il cardinale Ruini bloccò tutto. Si allinearono supini Berlusconi e co. e quegli eterni segmenti di centro-sinistra, che confondono fede e subalternità al Vaticano. Il Parlamento resterà inerte oggi in un’Italia ancora più evoluta? Sarebbe notevole se un centinaio di parlamentari bipartisan, dando un senso al 4 marzo, rilanciassero una legge per le coppie di fatto. Pier Ferdinando Casini, che ha assistito ai funerali non certo con l’imbarazzo di pregare per una persona “contro-natura”, potrebbe firmare anche lui in nome del futuro Partito della Nazione.
"Che errore contrapporre Chiesa e gay
l’omosessualità è anche tra preti e vescovi"
intervista a Vito Mancuso
a cura di Valerio Varesi (la Repubblica” - Bologna, 7 marzo 2012)
Anziché il silenzio rispettoso per la morte, quale strascico del funerale di Lucio Dalla, arriva il bailamme della polemica. Da una parte i gay, memori delle processioni mariane deviate per non sfilare davanti alla loro sede al Cassero di Porta Saragozza, che accusano la Chiesa bolognese di ipocrisia. Dall’altra padre Bernardo Boschi, il confessore dell’artista, che controbatte gridando alla vendetta. In mezzo la memoria del cantautore sulla quale in troppi vogliono appiccicare un ’etichetta. Vito Mancuso, teologo e amico di Dalla, che lo ospitò in autunno nella sua casa di via D ’Azeglio, fugge dalle contrapposizioni e dai giochi di fazione: «Se non usciamo dalla logica degli schieramenti non ne verremo mai fuori. È un vizio tipicamente italiano quello di cercare sempre la contrapposizione mettendosi da una parte contro un’altra senza considerare la singola umanità. Bisogna rifiutare questo gioco» spiega.
Secondo lei è giustificata l’accusa di ipocrisia lanciata nei confronti della Chiesa?
«Intanto interroghiamoci su cos’è la Chiesa. Credo che sia tante cose. È l’arcivescovo Carlo Caffarra che non si presenta, ma anche Enzo Bianchi che parte dal profondo Piemonte e scende fino a Bologna per salutare il suo amico. La Chiesa è anche i francescani che sono stati presenti con un messaggio del loro massimo rappresentante e con due padri venuti da Assisi».
Stiamo parlando della Chiesa bolognese. Di padre Boschi che autorizza implicitamente a pensare agli schieramenti quando parla di vendetta del mondo gay...
«E secondo me ha fatto male. Io non avrei mai detto quelle parole perché in questo modo commette lo stesso errore di chi cerca la contrapposizione. E poi anche il mondo gay si dice in molti modi. Un conto sono le accuse a Dalla di Aldo Busi, un conto la vicinanza di Benedetto Zacchiroli. Rifiuto ogni strumentalizzazione dei casi umani per portare avanti la propria battaglia. Considero tutto ciò un modo violento di stare nel mondo. Su questa falsariga non si incontreranno mai gli altri».
Quindi c’è stata strumentalizzazione anche in questo caso?
«Dalla, nella sua singolarità, ha fatto saltare tutti gli schieramenti perché non ha mai accettato di presentarsi al mondo riducendosi tutto alla sessualità. Per questo fa esplodere la logica di coloro che non pensano al singolo, ma alla parte o alla lobby».
Come considera l’assenza di Caffarra?
«Sono a Bologna da poco e ho incontrato il cardinale in una occasione rimanendo colpito dalla sua umanità. Ma proprio in virtù di questa umanità mi sarei aspettato la sua presenza in San Petronio a salutare un grande figlio di Bologna e un credente come Dalla. Però non conosco la sua agenda e la sua assenza sarà certo giustificata. Dico solo che sarebbe stato bello se ci fosse stato il sommo pastore della Chiesa bolognese».
Anche lo svolgimento della funzione ha creato qualche polemica. In particolare quel richiamo al corretto comportamento prima dell’Eucarestia. Cosa ne pensa?
«Mi ha dato molto fastidio perché lo considero un tradimento dottrinale. Non è vero che non si possa fare la Comunione in presenza di peccato. Se la coscienza sente sinceramente di poterlo fare, giurando a se stessa di confessarsi in un secondo tempo, la partecipazione all’Eucarestia è possibile. Anche perché la proibizione chiude il soffio della Grazia. Oltretutto non si capirebbe perché Gesù stigmatizzava i Farisei che si consideravano motu proprio degni della Comunione. Siamo tutti indegni di fronte alla purezza di Dio e chi si ritiene degno è lui stesso indegno. Per il resto il rito è stato complessivamente positivo».
Non trova che, in generale, ci sia ambiguità nell’atteggiamento della Chiesa verso l ’omosessualità?
«Una certa incoerenza è sempre presente a seconda che prevalga l’aspetto etico-dottrinario o laconsiderazione umana. Alla fine sono le decisioni dei singoli a spuntarla. A Mario Cal, suicida o a Versace omosessuale non sono state rifiutate le esequie».
A Piero Welby sì...
«Quella fu una decisione del cardinal Camillo Ruini di sapore politico. Il cardinal Martini non avrebbe mai compiuto un simile atto. Ma torniamo all’inizio: sono i singoli a decidere a seconda che si guardi alla dottrina o all’umano. Il pluralismo è la caratteristica e la bellezza del Cristianesimo e non a caso la Bibbia è un corpus di 73 libri. Anche i Vangeli sono quattro e talvolta in contraddizione».
Un gay dichiarato privo della fama di Dalla, sarebbe stato accettato in Chiesa?
«Io credo di sì. La Chiesa non condanna l’omosessualità in quanto tale, ma i comportamenti attivi in tal senso. Del resto l’omosessualità è interna alla Chiesa visto che ci sono parroci e vescovi che hanno questo orientamento».
Il mio coetaneo poeta che voleva capire l’amore
di Enzo Bianchi (la Repubblica, 5 marzo 2012)
Di una cosa era certissimo: che c’è l’al di là, l’oltre la morte, "il secondo tempo", la vita per sempre. Ancora recentemente mi aveva ripetuto: "Questa vita è solo l’anticamera, il bello deve venire!". Ho conosciuto Lucio una sera a Bologna nel 1971, giovani della medesima età (uno nato appena ventiquattr’ore prima dell’altro), e siamo subito diventati amici. Da allora incontri, conversazioni, telefonate, discorsi a tavola, mie visite a casa sua e ultimamente anche sue venute a Bose... Lucio era amabile perché umanissimo: nei rapporti con le persone, certo, ma anche nel suo pensare, nel suo poetare, nel suo abitare il tempo della vita per trovare in esso ciò che davvero conta, ciò che rimane, ciò che è eterno: perché "è eterno anche un minuto, ogni bacio ricevuto dalla gente che ho amato".
Tante volte assieme abbiamo parlato dell’Amore e Lucio ha voluto che fossi io a presentare a Torino nel dicembre scorso il suo ultimo album: "Questo è amore". "Cos’è l’amore?", mi chiedeva in un modo che pareva ossessivo. Non che non lo sapesse, ma voleva sempre mettersi alla prova, interrogarsi per verificare se i suoi rapporti, i suoi amori erano Amore. "Vorrei capire che cos’è l’amore, dov’è che si prende, dov’è che si dà": non sono versi frivoli, non sono parole leggere, sono invece l’espressione della sua appassionata ricerca dell’amore.
Ci sono persone che per tutta la vita cercano solo l’amore, fino a essere vittime dell’amore che inseguono in modi a volte incomprensibili per gli altri. Lucio era una di queste persone: cercava l’amore, ma soprattutto credeva all’amore. Quando avevo qualche conferenza a Bologna lui, se era in città, non mancava mai, leggeva i miei libri, mi mandava messaggi per commentarli e sempre il cuore del discorso tornava a questa sua fede nell’amore. Gli piaceva sentirsi ripetere che "l’amore vince la morte", che nel cristianesimo proprio questo è il fondamento della fede: la morte, infatti, resta per tutti un enigma ed esige di essere vinta. Ma da chi? Dall’amore.
E nel ricordare Lucio vorrei aggiungere anche una parola sulla sua fede: mi raccontava che da ragazzo aveva avuto come confessore padre Pio e che più tardi, grazie ai domenicani di Bologna aveva potuto accompagnare la sua vita con la fede. Non rinnegava neppure alcune "devozioni", perché la sua era una fede semplice e umile, come quella di un bambino, ma una fede salda, carica di speranza.
Nella mia amicizia con lui, ultimamente c’era anche la presenza cara di Marco Alemanno, l’amico sempre accanto che con la sua "arte" permetteva a Lucio di sperare contro ogni solitudine: "Buonanotte anima mia, adesso spengo la luce e così sia!". Buonanotte, Lucio, dormi, riposa nell’Amore, perché è certo che, come cantavi tu, "se Dio esiste voi, voi vi ritroverete là, là. Amore". Sì, Lucio, ci ritroveremo là, nell’Amore.
Dalla, il compagno in chiesa rompe il velo dell’ipocrisia
di Michele Serra (la Repubblica, 5 marzo 2012)
Con la compostezza, il dolore e la legittimità di un vedovo, il giovane Marco Alemanno ha reso pubblico omaggio al suo uomo e maestro Lucio Dalla in San Petronio, dopo l’eucaristia, se non rompendo almeno scheggiando il monolito di ipocrisia che grava, nell’ufficialità cattolica, sul "disordine etico" nelle sue varie forme, l’omosessualità sopra ogni altra.
È importante prenderne atto. Anche se è altrettanto importante sapere che fuori dalla basilica, nel denso, sconfinato abbraccio che i bolognesi hanno dedicato a Dalla, i suoi costumi privati non costituivano motivo di dibattito. Se non per lodare e rimpiangere la dimestichezza di strada e di osteria che Dalla aveva con "chiunque", il suo promiscuo prendere e dare parole, tempo e compagnia, la sua disponibilità umana. Ma dentro San Petronio la vita privata di Lucio, la sua omosessualità pure così poco ostentata, e mai rivendicata, creava un grumo che Bologna ha provveduto a sciogliere nella sua maniera, che è compromissoria, strutturalmente consociativa. Città rossa e vicecapitale del Papato, massonica e curiale, borghese e comunista. Un consociativismo interpretato al meglio (cioè senza malizia, per pura apertura di spirito) proprio da Dalla, che era amico quasi di tutti, interessato quasi a tutti. Non avere nemici è molto raramente un merito. Nel suo caso lo era.
In ogni modo si capisce che quel grumo, specie per una Curia che da Biffi in poi si è guadagnata una fama piuttosto retriva, non era semplice da gestire. Il vescovo non era presente, il numero due neppure, "altri impegni" incombevano e sarebbe infierire domandarsi quale impegno, ieri, fosse più impellente, per ogni singolo abitante della città di Bologna, di andare a salutare Lucio. L’omelia è stata affidata al padre domenicano Bernardo Boschi, amico personale del cantante, che non avendo zavorre istituzionali sulle spalle ha potuto e saputo essere affettuoso, rispettoso e libero, dunque prossimo alla città e ai suoi sentimenti.
L’ingrato compito di mettere qualche puntino sulle "i", per controbilanciare la quasi sorprendente "normalità" di una cerimonia così solenne, e insieme così semplice, nella quale il solo laico a prendere la parola, a parte il teologo Vito Mancuso, è stato il compagno di Dalla; quel compito ingrato, dicevo, se l’è caricato in spalla il numero tre della Curia, monsignor Cavina, che nel suo breve discorso introduttivo ha voluto ricordare che «chi desidera accostarsi al sacramento dell’Eucarestia non deve trovarsi in uno stato di vita che contraddice il sacramento».
Concetto che, rivolto alla cerchia di amici di Lucio presenti in chiesa, e ai tanti "freaks" che affollavano chiesa e sagrato anche in memoria della dimestichezza che avevano con Dalla, e Dalla con loro, faceva sorridere: più che severo appariva pateticamente inutile, perché dello "stato di vita" delle persone, dell’essere canoniche o non canoniche le loro scelte amorose e affettive, a Lucio non importava un fico secco, né si sarebbe mai sognato, nelle sue recenti e purtroppo finali incursioni nella teologia, di stabilire se a Dio le scelte sessuali interessino quanto interessano a molti preti.
Comunque - e tutto sommato è il classico lieto fine - il breve monito di monsignor Cavina a tutela dell’eucaristia e contro gli "stati di vita che contraddicono quel sacramento" (?!) è passato quasi inosservato e inascoltato. Come un dettaglio burocratico.
Marco Alemanno ha incarnato in una chiesa, e in una cerimonia che più pubblica non si sarebbe potuto, tutta la dignità di un amore tra uomini. Semmai, c’è da domandarsi quanti omosessuali cattolici meno famosi, e meno protetti dal carisma dell’arte, abbiano potuto sentirsi allo stesso modo membri della loro comunità.
L’augurio è che la breve orazione di Marco per Lucio costituisca un precedente. Per gli omosessuali non cattolici, il dettato clericale in materia non costituisce il benché minimo problema: francamente se ne infischiano. Ma per gli omosessuali cattolici lo costituisce, eccome. Ed è a loro, vedendo Marco Alemanno pregare per il suo uomo accanto all’altare, che corre il pensiero di tutte le persone di buona volontà.
LA CARRIERA
Lucio Dalla, canzoni camaleontiche
tra jazz, Caruso e Gesù Bambino
di TIZIANO TONIUTTI *
IL TITOLO vero di quella che tutti chiamano "Gesù bambino" è 4/3/1943, la data di nascita di Lucio Dalla, cantautore, musicista, artista popolare e colto. E diverse sono le canzoni di Dalla che vengono ricordate con altri titoli, L’anno che verrà è per tutti "Caro amico ti scrivo", la straordinaria Caruso è rimasta incisa nella memoria della gente come "Te voglio bene assai". Forse perché Dalla ha sempre saputo, nell’arco di una discografia lunga e variegata, evitare la banalità del prevedibile, dare all’opera e al chorus due valori distinti e ugualmente importanti. E accanto al valore dei testi, curati all’inizio della carriera da Roberto Roversi, nei dischi di Dalla la musica non è mai stata accompagnamento, proveniendo dalla passione per il jazz, sbocciata già da giovanissimo. Prima di incidere dischi, Dalla suona il clarinetto in un ensemble jazz bolognese, quella star-band Rheno Dixieland diventata famosa negli ultimi tempi, quando il grande pubblico ha potuto scoprire che tra i membri c’era anche Pupi Avati.
I brani e i dischi. E’ all’inizio degli anni 60 che Lucio Dalla arriva in studio di registrazione con i Flippers, incide e suona dal vivo con Edoardo Vianello, anche nella notissima "i Watussi". E’ Gino Paoli che poco tempo dopo incoraggia Dalla a proseguire da solo, e nel 1964 arriva il primo singolo scritto da Paoli per la voce di Dalla, "Lei (non è per me)", con il lato b "Ma questa sera". Al Cantagiro di quell’anno il brano non viene accolto bene, ma Dalla prosegue e con la band "gli Idoli" lavora al primo album, "1999", che contiene Paff Bum, portata con gli Yardbirds a Sanremo. Tre anni dopo sempre al Festival, Dalla partecipa con "Bisogna saper perdere", rimasta nelle orecchie dell’Italia intera fino a oggi. Il successo, sotto forma di terzo posto a Sanremo, si inizia a intravedere nel 1971 proprio con 4/3/1943, e l’anno dopo con un altro brano importante eintenso sempre presentato alla kermesse ligure, Piazza Grande. Tra il 1970 e il 75, Dalla incide una manciata di album tanto sperimentali quanto fenomenali, coi testi di Roversi su musiche intricate ma non difficili, imprevedibili eppure leggere. Terre di gaibola, Storie di casa mia e il giorno aveva cinque teste permettono a Dalla di farsi le ossa e definire la voce, il suono delle parole, per arrivare a perle come Anidride solforosa e Automobili, il primo con una "title track" da brividi assoluti, il secondo con un orizzonte sonoro in allungo indeterminato, guidato da Il motore del 2000.
La seconda fase. Ma il vero, enorme successo inizia a definirsi con l’album successivo nel 1977, Come è profondo il mare, prodotto da Alessandro Colombini, figura chiave per il riscontro popolare che Dalla otterrà negli anni a venire. Dalla cambia la scrittura e arrivano le canzoni vere, quelle che durano tempi non calcolabili, di cui inizia a scrivere i testi. Una virata che spiazza i fan raccolti con i lavori più ricercati, che pensano a una ricerca di facile successo. Che arriva, inondante, senza cedere nulla al commercio con l’album autointitolato del 1979, che porta nella storia della musica italiana perle come Anna e Marco, il bolero de L’anno che verrà, le visioni oniriche e il jazz sottopelle di Stella di mare. Un album meraviglioso dall’inizio alla fine, con i pregevoli arrangiamenti di archi di Giampiero Reverberi, che mette in ombra qualunque ipotesi di tradimento commerciale. Nel 1979 esce anche il disco del tour Banana Republic con Francesco de Gregori, un evento epocale per il pop italiano, una navigazione a due in repertori pieni di perle, bissato con sapori e intenzioni differenti nel 2010.
Dove il mare luccica. Gli anni 80 sono ancora occasione di svolta, quasi un disco all’anno. Del 1980 è Dalla, con lo spunto rock di Balla balla ballerino,e la splendida Cara. Nel 1983 c’è 1983 con la bella Camion, e nell’84 Dalla pubblica Viaggi organizzati, con il singolo Washington, quasi modernariato sonoro contemporaneo. Ma il vero capolavoro arriva solo nel 1986 quando il cantautore pubblica Bugie, che contiene Caruso. Il brano, dedicato al tenore Enrico Caruso, diventa quasi un inno nazionale italiano, famosissimo all’estero e probabilmente la canzone identificativa dell’intera carriera. Seguirà il tour e l’album Dalla-Morandi, con la popolarissima Vita scritta da Lavezzi e Mogol.
Attenti a Lucio. Con gli anni 90, c’è un nuovo Lucio Dalla pronto ad emergere dagli studi di registrazione. E’ quello che pubblica un album dal titolo inequivocabile come Cambio, che contiene la celeberrima Attenti al lupo, scritta da Ron, e la fascinosa Apriti cuore. il successo deflagrante del singolo porta l’album in cima alle classifiche per lungo tempo, ma Lucio nel 1993 cambia ancora e pubblica Henna, che si apre con la commovente Ayrton, dedicata al pilota di formuna Uno scomparso in pista. Un album umbratile e passato sottotraccia, non in linea con l’estroversione di quello che lo aveva preceduto, eppure pieno di sentimenti e di ironia, come accade in Merdman. Poi nel 96 tornano le classifiche grazie a Canzone, brano di Samuele Bersani che traina l’album Canzoni. Che porta in dote almeno una gemma, Tu non mi basti mai. L’album che saluta il millennio è Ciao, con la ritmata canzone che intitola il disco e la spaziale Là, che riporta Dalla ai momenti di lirismo popolare più compiuti.
Gli ultimi lavori. Luna Matana è del 2001, Lucio arriva nel 2003, Il contrario di me è del 2007, e poi l’ultimo album, Angoli nel cielo, del 2009. In mezzo a questi raccolte, riproposizioni, riarrangiamenti e riproposte di livello, come in Questo è amore del 2011. Nulla che riporti Dalla ai livelli degli anni 90 come riscontro, ma sono comunque anni che vedono una penna e un pianoforte ancora fertili e pieni di tonalità. Ancora una volta, cangianti, come dalle prime note incise. Nell’arco di oltre mezzo secolo di musica, la discografia di Lucio Dalla presenta un artista dalla tavolozza espressiva di cui è difficile percepire il limite, e che ha dipinto una carriera di cambiamento costante, da camaleonte della musica, capace di assorbire e mescolare i colori del suono in maniera unica.
* la Repubblica, 01 marzo 2012
La nostra colonna sonora
di Massimo Gramellini (La Stampa, 2/3/2012)
La magia della grande musica si scopre quando i grandi cantanti se ne vanno. Ieri milioni di italiani hanno ripercorso in un attimo la propria vita con la colonna sonora di Lucio Dalla, così come avevano fatto alla morte dell’altro Lucio nazionale. Caro amico ti scrivo che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino e se è una femmina si chiamerà Futura...
Ci sono cascato anch’io ed è stato facile, oltre che bellissimo. Il mio Dalla non è quello che avrei conosciuto di persona in anni recenti, e con il quale ho presentato libri, riso, scherzato, persino polemizzato. Il mio Dalla è la notte prima degli esami. Estate 1979, vigilia della maturità, Dalla e De Gregori in concerto con «Banana Republic» allo stadio Comunale di Torino, davanti a casa mia. Durante il giorno coi miei compagni avevamo studiato in cucinino, dove per un curioso gioco di rimbombi si potevano sentire le prove dei musicisti: sembrava che il sax di Dalla fosse in cortile. Ho il ricordo nettissimo di noi che interrompiamo una poesia del Leopardi per affacciarci al balcone e lasciarci trasportare da un suo assolo di jazz. La sera i compagni telefonarono alle mamme per dire che si sarebbero fermati da me a ripassare. Invece andammo allo stadio, confusi fra altri settantamila, ma col cuore che ballava di paura per il giudizio imminente e dei biglietti particolarmente meschini.
Eravamo nel settore più lontano dal palco e ancora non esistevano i maxischermi: De Gregori era un puntino, Dalla la metà di un puntino. Ma appena abbracciava il sax e ci soffiava dentro si trasformava in un gigante.
E poi, e soprattutto, c’erano le sue canzoni sparate nella notte: «Com’è profondo il mare», «Piazza grande», «Stella di mare» («Tuuuu come me», e quell’uuu gli usciva dalla cassa toracica come un’orchestra di cento elementi), «L’anno che verrà». Le sapevo tutte a memoria, a differenza delle poesie del Leopardi. Quando partì «Cosa sarà» («che ci fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento») guardai il cielo sopra lo stadio e giurai alle stelle che non sarei mai stato un ventenne morto, anzi, avrei fatto di tutto per diventare un centenario vivo. Quella frase cantata a squarciagola alla vigilia dell’esame di maturità segnò a tal punto la mia formazione che il giorno in cui, da adulto, conobbi De Gregori gli dissi che era la più bella che avesse mai scritto. De Gregori concordò sulla bellezza della canzone e aggiunse con un sorriso che purtroppo non era sua, ma di Ron e Lucio: lui l’aveva solo cantata. È stato uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita e anche questo lo devo a Dalla.
Chi non lo ha già fatto ieri, può provarci adesso con me. Raccontarsi la vita in un minuto, attraverso le sue canzoni. «4 marzo 1943» (era l’unico cantante di cui tutti sapevamo la data di nascita) e mi rivedo bambino triste e solo davanti alla tv in bianco e nero che trasmette il festival di Sanremo. «Disperato erotico stomp» accompagnò i primi viaggi individuali al centro del sesso, con quella mano che «partiva» e non si sapeva mai bene dove ci avrebbe portato. «Anna e Marco», uno dei lenti-cardine dell’adolescenza, l’importante era tenersi stretti alla ragazza fino a quando Dalla diceva «Anna avrebbe voluto morire, Marco voleva andarsene lontano»: a quel punto si poteva tentare l’affondo. «Balla balla ballerino» e ogni volta che la cantavo mi veniva da piangere, persino adesso, chissà perché. «Futura» vantava un posto d’onore nella Definitiva, la C90 verde in cui avevo condensato le canzoni da infilare nell’autoradio, quando a bordo saliva una certa persona. E ancora un vecchio album, «Il giorno aveva cinque teste», difficile e bellissimo, da ascoltare nei momenti duri, quelli che servono a crescere. «Caruso» è un bagno di notte, un bacio sotto la luna, uno spaghetto divorato sul mare. Chiuderei con «Attenti al lupo», che a trent’anni mi salvò da un principio di depressione: non ho più trovato una canzone capace di trasmettermi tanta incomprensibile allegria.
Pensavo che questo genere di ricordi non potesse estendersi ai più giovani. Poi verso sera mi è arrivata la mail di una ragazza, si chiama Francesca. «Sto piangendo come una fontana per Lucio Dalla. Mi sento come se fosse morto un vecchio amico. Lui sicuramente non sapeva chi fossi. È ovvio. Credo che questo genere di rapporti emotivi a distanza siderale si possa creare solo con i musicisti. Che tu sia triste, felice, stanca, sola, in compagnia, quando loro cantano hai l’impressione che vogliano tirarti su il morale, partecipare alla tua gioia, cullarti prima che tu dorma, farti compagnia. Ti sembra che parlino proprio con te. Magari esagero, ma per me è stato così. Mi mancherà molto». Anche a me.