Cammina tranquillo per strada Saverio e incrocia un piccolo capannello di persone,sono in tre, li conosce naturalmente tutti, e uno dei tre se ne esce con un pesante insulto nei suoi confronti. In molti hanno portato la giusta solidarietà a Saverio, tra questi anch’io in uno dei tanti post seguiti al suo pezzo. Avanzavo però, in quello stesso post, dei dubbi circa il modo in cui Saverio descriveva, apostrofava, i tre personaggi :per lui erano dei “lombrichi” indegni di essere considerati appartenenti alla specie umana. Mi sembrava, in alcuni suoi passaggi, molto aggressivo e decisamente violento il linguaggio utilizzato.
E’ seguita alle mie parole una replica di Saverio e poi una di Emiliano. Ritengo l’argomento serio e importante e racchiudere le mie considerazioni di nuovo in un post, per velocità e stringatezza che lo contraddistinguono,non sarebbe utile.Allora cerco un pò più di spazio per dire compiutamente quello che penso e per alcune riflessioni che scaturiscono da questa vicenda, ad essa sono strettamente legata, e vanno oltre. Suddivido il mio ragionamento,spero il più sensato possibile, in due punti: 1)La violenza. Penso che usare un linguaggio violento significa anticipare un comportamento violento. Utilizzare una retorica carica di disprezzo dove l’avversario, l’antagonista è considerato non alla stregua di uomo ma di animale, e quindi in quanto animale portatore delle peggiori qualità e potenzialmente artefice delle più infime azioni, crea le condizioni perché si concretizzino atti di violenza. Dicendo questo evidentemente non mi riferisco in maniera specifica alle parole di Saverio. Le mie sono considerazioni più ampie,tese a chiarire la mia idea su violenza e nonviolenza,proprio perché si è banalizzato un pò troppo quando è stato detto che “non si tratta di chiudersi nella forma”, “che non è una questione di fini e mezzi”, “che nella lotta per la legalità contro i poteri illeciti parlare di questo significa irretirsi in astratte disquisizioni”, “che è solo da benpensanti farsi urtare da un certo tipo di linguaggio” e via di questo passo.
Interrogarsi sul valore della nonviolenza significa innanzitutto cogliere le sue enormi potenzialità ,la sua capacita di farsi prassi concreta nella risoluzone dei conflitti, la sua ricchezza in quanto teoria che cerca di spiegare la realtà senza fermarsi però a verità scontate.Bisognerebbe, quando si ha a che fare con la nonviolenza, riconoscere,o meglio conoscere, la grandezza di Capitini(quarant’anni dalla sua morte proprio in questo ottobre), la sua originale elaborazione del concetto ghandiano di “satyagraha”(forza dell’essere, forza della verità) che adatta e declina in Italia nella “triade” nonviolenza(tutt’attaccato, una sola parola), non menzogna, non collaborazione. Capisco che non è questo il “contenitore” adatto per soffermarsi e approfondire tale argomento ma è opportuno prestarvi almeno attenzione anche perchè la storia italiana ci offre esempi luminosi di lotta nonviolenta, anche in contesti cosiddetti difficili.
Mi riferisco a Danilo Dolci e alle sue grandi battaglie in Sicilia a partire dagli anni ’50 contro la mafia, la politica con essa collusa, l’ignavia cosciente e responsabile del potere democristiano. Danilo Dolci è stato originale interprete della nonviolenza dimostrandone, con tutti i suoi limiti, validità ed efficacia. Ricordare Capitini e Dolci significa fare i conti con le vicende italiane e meridionali di questi ultimi sessant’anni, e seppur questo paese è stato troppe volte il palcoscenico dove hanno svolto un ruolo da indegni protagonisti massoni, pidduisti, terroristi di ogni risma, bancarottieri, imprenditori senza scrupoli, mafiosi di assoluta ferocia, politici di assoluta mediocrità, possiamo rincuorarci perchè fortunatamente ad interrompere la farsa tragica ci hanno pensato tanti uomini e tante donne dalla cristallina dignità morale. Fra queste persone (ce ne sono tante e qui faccio un torto alla verità e pecco di assoluta incompletezza) metto un solo nome, porto un solo esempio, forse perchè lo sento vicino come ci si sente vicini ad un familiare,forse perchè ho avuto la fortuna di conoscerlo,forse perchè ha avuto la bontà di pubblicare alcuni miei articoli sulla sua rivista “Lo Straniero”, o forse perchè è davvero straordinario: si tratta di Goffredo Fofi. Non spendo io parole su di lui, ma lascio quelle di Roberto Saviano, molto più meritevoli d’attenzione delle mie, che su un numero di “Nuovi Argomenti” di un paio di anni fa dedicato ad Enzo Siciliano (all’epoca da poco scomparso) scrive, e vado a memoria non ricordando con esattezza le parole ”...in Italia sono pochi i punti di riferimento, coloro che possono essere presi come esempio, uno è Enzo Siciliano l’altro è Goffredo Fofi”. Un breve inciso: è notizia di questo periodo che Fofi sta per lanciare un nuovo progetto editoriale le “Edizioni dell’Asino” e che nel 2009 tra le le prime pubblicazioni ci sarà un lungo libro inchiesta sull’Italia curato fra gli altri dallo stesso Saviano e da Pino Corrias.
2)Calabria,’ndrangheta e oltre. Saverio ed Emiliano con il loro libro “La Società Sparente” hanno aperto un vivace dibattito sull’attuale situazione calabrese, a quanto pare più meritevole d’interesse fuori dalla regione. Su “la Società sparente” ho un’idea piuttosto chiara. Il libro è interessante, ben scritto, a volte scivola un pò troppo nell’autocitazionismo,ma finalmente vede dei calabresi impegnati a raccontare la Calabria, visto che ormai nei campi più disparati, dalla letteratura al giornalismo, dal cinema al teatro, la Calabria non solo non sembra incuriosire il parterre affollato degli intellettuali italiani ma, peggio ancora,sembra l’ultimo dei pensieri, sepolto chissà dove, per chi in quel parterre “parra lu calabrese”. Trovo “La Società sparente” molto più interessante nella sua fase di “analisi antropologica” che in quella di “denuncia”.
Se ad una prima lettura sembra un pò confusionario, nell’affastellarsi di capitoli l’uno dietro l’altro senza un’apparente logica,è significativo trovare, in alcuni di essi, un’analisi lucida e spietata di quello che oggi vuol dire vivere in Calabria e di come il potere politico abbia fatto tutto quello che c’era da fare per arrivare sull’orlo del baratro.
Più che un’inchiesta giornalistica è un’analisi che permette di ritovare alcune delle dinamiche più incisive della società calabrese. Il libro si muove su due fronti, parte da San Giovanni in Fiore (emblema per certi aspetti della Calabria) e si allarga all’intero contesto regionale per poi ritornare al luogo iniziale della ricerca. San Giovanni in Fiore è il punto di snodo da cui fluiscono le riflessioni a volte acute e brillanti,a volte troppo esasperate e autoreferenziali di Emiliano e Saverio che forse nella foga di voler dire tutto e subito(ma l’esigenza e l’urgenza di raccontare non riesce, nelle menti più libere e lucide,ad avere barriere) hanno mancato il segno.
Precipita infatti il discorso,in determinati passi della “Società sparente”, in delle vere e proprie esagerazioni. In particolare la tesi netta quanto apodittica “a San Giovanni in Fiore c’è la mafia”. Da sangiovannese, conscio di quello che è rimasto del nostro amato paese, non posso essere d’accordo con questa idea forte ribadita in diversi passaggi del libro, non posso condividere la convinzione di Emiliano e Saverio che San Giovanni è Platì, San Luca , Isola ,Cutro, Paola, Filadelfia, Melito Porto Salvo,Lametia, Cirò ecc. ecc. ecc.
Nell’accurata geografia ‘ndranghetista elaborata in “Fratelli di sangue” da Nicola Gratteri e Antonio Nicaso (Pellegrini Editore, Cosenza)non compare San Giovanni in Fiore, così come non esistono,non sono esistite, e mai esisteranno penso, famiglie che utilizzano metodi criminali per il controllo di quel territorio e la creazione di ricchezza e predominio attraverso affari leciti e illeciti. San Giovanni in Fiore non è l’esempio da prendere in considerazione per spiegare l’invadenza e la potenza della ‘ndrangheta, è invece, senza dubbio alcuno, il simbolo della sconfitta del potere politico nel meridione, dell’incapacità di fare dell’intervento pubblico un vettore di sviluppo economico virtuoso, della inerzia della società civile quando si riduce a mera appendice della politica.
Se poi si vuole dicutere dicendo, come più volte è stato ribadito, che la mafia esiste anche se non uccide e spara, che è anche un atteggiamento e un modo di pensare, allora si crea confusione e si pecca molto di precisione.
Ma il libro, come dicevo prima, ha diversi meriti come ad esempio il porre l’accento sulla forza destrutturante dell’emigrazione, il sottolineare come l’emigrazione è ancora oggi elemento decisamente negativo nella vita calabrese. E proprio Saviano, in un articolo scritto su “l’Espresso” in cui recensisce tra altri testi anche “La Società sparente” , riesce in questo senso a trovare una delle giuste chiavi di lettura del libro. La sua arguzia, il suo spiccato senso critico sottolineano il valore dello scritto di Emiliano e Saverio quando presta la sua attenzione alla stretta correlazione esistente fra continua emigrazione (e quindi abbandono delle forze migliori, più sane e positive del territorio) e predominio ’ndranghetista (e quindi sopraffazione delle forze criminali capaci di inquinare il normale deflusso della vita democratica).
Bisognerebbe leggere attentamente poi i capitoli dedicati a quel gran numero di calabresi dalla cultura media e alta (e fra questi moltissimi laureati), rimasti in Calabria che per continuare a sperare in qualcosa e non sparire del tutto hanno dovuto abbassare il capo e non guardare allo sfacelo che gli si parava innanzi, o magari guardarlo ma con freddo e distaccato interesse in un vorticoso disincanto che ha succhiato via le energie migliori.
Caro Domenico,
al contrario di quanto hai scritto, Saverio e io non abbiamo mai dipinto San Giovanni in Fiore come la nuova Locri. Condividendo le considerazioni di Bartolo, preciso quantro segue. Sono convinto, e l’ho già scritto in varie occasioni, che la mafia abbia a San Giovanni in Fiore altre forme e diversi simboli, rispetto alla locride. Ma è sempre mafia.
Caramente.
emiliano
carissimo Domenico Barberio, mi presento:sono una lettrice della Voce,seguo le vicende dei nostri cari amici Francesco Saverio Alessio ed Emiliano Morrone da un pò,e conosco bene il loro libro La società sparente.Sono una calabrese,nativa di Cosenza,residente nella sua provincia.In stretto contatto con la realtà quotidiana di questi luoghi ,per via dell’attività di mio padre il quale è riuscito a tirare su una piccola impresa,a costo solo del suo duro ed onesto lavoro,avverto da sempre il bisogno ed il dovere,per via dell’educazione da me ricevuta ed a fronte dell’assoluta onestà che contraddistingue me e la mia famiglia,d’interrogarmi sulla natura della società in cui vivo.Ho sentito il bisogno di rispondere al suo articolo giacchè non sono d’accordo su alcune delle cose da lei espresse,in merito tanto all’articolo di Alessio,quanto al libro da lui scritto assieme a Morrone,nonchè in merito a quanto da lei sostenuto sull’assenza della ’ndrangheta nel territorio della Sila e a San Giovanni in Fiore.Anticipo dicendo che io non sono altro che una modestissima cittadina residente in questi luoghi,e non avrò sicuramente la sua cultura e la sua esperienza in campo giornalistico e letterario,quindi la prego di scusarmi se dirò cose inesatte,la mia unica intenzione essendo quella di esprimere il mio pensiero. Tutti abbiamo letto l’articolo di Alessio nel quale si fa riferimento ad un triste episodio in cui il nostro amico s’è trovato coinvolto;io snceramente non ho letto nelle sue parole la violenza di cui lei parla.Non condivisibile,forse,il linguaggio offensivo utilizzato,dato che si menzionavano gli animali,forse più per far riferimento alla loro notoria incapacità di ragionare e dunque ad avere un’autonomia di pensiero,essendo essi guidati dai solo istinto,che non "in quanto portatori delle peggiori qualtà e potenzialmente artefici delle più infime azioni",secondo la sua personale interpretazione data alla parole dell’Alessio.Non penso si possa definire il mite Alessio come una persona avvezza alla violenza,dato che per sfuggire egli stesso ad attacchi contro la sua incolumità ha scelto la fuga,e non di scendere in piazza col fucile.I comportamenti violenti(e lo sa bene chi in certi luoghi ci abita)son ben altra cosa! Non sono poi tanto d’accordo nemmeno con la critica spietata mossa da lei al bellissimo libro dei nostri amici,miei e suoi,perchè lo ritengo ,e come me tanti,un racconto ben dettagliato su quella che è la situazione dei luoghi che sono al centro delle inchieste degli autori.Io sostengo,infatti, che si possa definire una inchiesta giornalistica qualcosa che vada ben al di là del semplice racconto di fatti avvenuti in passato,e quindi facenti parte della storia,basandosi esclusivmente sul racconto di atti giudiziari.Se non fosse così non potremmo definire inchieste molte delle cose coraggiosamente osservate,scritte e studiate da giornalisi quali Ilaria Alpi,per citarne solo una,o la Politkovskaya,per varcare i confini nazionali,che attraverso uno straordinario intuito ed una analisi attenta della realtà sono risalite a verità scottanti,costate la vita ad entrambe. Trovo che dal racconto di Alessio e Morrone si possa trarre spunto per un attenta riflessione sulla pericolosità della tesi,sostenuta anche da lei,secondo la quale a San Giovanni in Fiore non vi sia la ’ndrangheta.Credo che sia ingenuo continuare a pensare che la ’ndrangheta sia un fenomeno rimasto circoscritto solo ad alcune città della calabria,i cui nomi evocano guerre sanguinose tra ’ndrine. La ’ndrangheta ha assunto altre forme,si è modernizzta,anche se i rituali di uccisione sono rimasti uguali,si vedano gli episodi di sparizioni e ritrovamenti di cadaveri orrendamente mutilati avvenuti anche nella stessa San Giovanni in Fiore.Queste non sono parole mie,ma di Gratteri,il quale tiene numerosi convegni sull’argomento in scuole ed università;io personalmente l’ho ascoltato,tra le altre volte,all’università Magna Graecia di Catanzaro dove studio, ed ha affermato che non ci sono zone,centri urbani,città calabresi che non siano direttamente o indirettamente coinvolte con affari di ’ndrangheta!Ha mani ovunque,nell’edilizia come nella sanità,gestisce assunzioni in quasi tutti i settori,servendosi dei legami con la politica;per non parlare del traffico di rifiuti tossici,di cui Morrone ed Alessio parlano nel loro bel libro,affermando che la Sila sia da tempo al centro di un traffico di rifiuti tossici gestito proprio dalla ’ndrangheta,favorita dal fatto che ci sono zone assolutamente non controllate,dove è facile passare inosservati,ed i cui tragici risvolti stanno venendo a galla nelle ultime inchieste giudiziarie su Crotone.Io non posso credere che ancora si pensi che la ’ndrangheta ha delle zone in cui le viene vietato l’accesso,dopo che uomini come Gratteri e molti altri stanno spendendo la propria vita per affermare il contrario e per risvegliare le coscienze,locali e nazionali,affinchè ci si ribeli al pericoloso potere politico- mafioso che soffoca ed uccide la nostra terra,ed all’assoluta mancanza di legalità cui ci stiamo abituando. Non credo,infine, che i due autori del libro La società sparente sarebbero stati costretti a lasciare la Calabria se i fatti che denunciano nel loro libro e da anni dalle pagine di quotidiani nonchè attraverso la costituzione di movimenti e molto altro,non fossero stati veri.Tranne a voler pensare che i due soffrano di manie di persecuzione! Il problema è che (ma questo è un costume tipicamente italiano,non solo locale) fin quando non si toccano le sfere alte del potere si viene elogiati e si ricecono le ovazioni dell’Italia intera;quando,invece,si dice la veità, e cioè che se le mafie esistono è grazie agli intrecci col potere politico,si subisce l’isolamento e la denigrazione,le minacce,le querele e si è costretti a lasciare la propria terra,lasciando che a viverla siano,invece, gli ’ndranghetosi che non sono solo o non sono più quelli che girano con la coppola in testa ed il fucile imbracciato,terrorizzando la gente. ’Ndranghetosi sono tutti coloro che in qualche modo partecipano al sistema,da sempre,da decenni,permettendo che la nostra terra venga avvelenata,che i nostri amici e parenti lascino le loro case in cerca di lavoro e di libertà,che le persone che non abbassano la testa non abbiano alternativa alla fuga dalla propria terra natìa.
cordiali saluti,Anna Rita