Punto di vista

Alessio e Morrone esagerano, San Giovanni in Fiore (Cs) non ha mafia né l’avra mai - di Domenico Barberio

lunedì 24 novembre 2008.
 

Saverio Alessio ormai diversi giorni fa sulla VdF raccontava in suo articolo la rabbia e l’insofferenza per un episodio di cui è stato, suo malgrado, protagonista a San Giovanni in Fiore.

Cammina tranquillo per strada Saverio e incrocia un piccolo capannello di persone,sono in tre, li conosce naturalmente tutti, e uno dei tre se ne esce con un pesante insulto nei suoi confronti. In molti hanno portato la giusta solidarietà a Saverio, tra questi anch’io in uno dei tanti post seguiti al suo pezzo. Avanzavo però, in quello stesso post, dei dubbi circa il modo in cui Saverio descriveva, apostrofava, i tre personaggi :per lui erano dei “lombrichi” indegni di essere considerati appartenenti alla specie umana. Mi sembrava, in alcuni suoi passaggi, molto aggressivo e decisamente violento il linguaggio utilizzato.

E’ seguita alle mie parole una replica di Saverio e poi una di Emiliano. Ritengo l’argomento serio e importante e racchiudere le mie considerazioni di nuovo in un post, per velocità e stringatezza che lo contraddistinguono,non sarebbe utile.Allora cerco un pò più di spazio per dire compiutamente quello che penso e per alcune riflessioni che scaturiscono da questa vicenda, ad essa sono strettamente legata, e vanno oltre. Suddivido il mio ragionamento,spero il più sensato possibile, in due punti: 1)La violenza. Penso che usare un linguaggio violento significa anticipare un comportamento violento. Utilizzare una retorica carica di disprezzo dove l’avversario, l’antagonista è considerato non alla stregua di uomo ma di animale, e quindi in quanto animale portatore delle peggiori qualità e potenzialmente artefice delle più infime azioni, crea le condizioni perché si concretizzino atti di violenza. Dicendo questo evidentemente non mi riferisco in maniera specifica alle parole di Saverio. Le mie sono considerazioni più ampie,tese a chiarire la mia idea su violenza e nonviolenza,proprio perché si è banalizzato un pò troppo quando è stato detto che “non si tratta di chiudersi nella forma”, “che non è una questione di fini e mezzi”, “che nella lotta per la legalità contro i poteri illeciti parlare di questo significa irretirsi in astratte disquisizioni”, “che è solo da benpensanti farsi urtare da un certo tipo di linguaggio” e via di questo passo.

Interrogarsi sul valore della nonviolenza significa innanzitutto cogliere le sue enormi potenzialità ,la sua capacita di farsi prassi concreta nella risoluzone dei conflitti, la sua ricchezza in quanto teoria che cerca di spiegare la realtà senza fermarsi però a verità scontate.Bisognerebbe, quando si ha a che fare con la nonviolenza, riconoscere,o meglio conoscere, la grandezza di Capitini(quarant’anni dalla sua morte proprio in questo ottobre), la sua originale elaborazione del concetto ghandiano di “satyagraha”(forza dell’essere, forza della verità) che adatta e declina in Italia nella “triade” nonviolenza(tutt’attaccato, una sola parola), non menzogna, non collaborazione. Capisco che non è questo il “contenitore” adatto per soffermarsi e approfondire tale argomento ma è opportuno prestarvi almeno attenzione anche perchè la storia italiana ci offre esempi luminosi di lotta nonviolenta, anche in contesti cosiddetti difficili.

Mi riferisco a Danilo Dolci e alle sue grandi battaglie in Sicilia a partire dagli anni ’50 contro la mafia, la politica con essa collusa, l’ignavia cosciente e responsabile del potere democristiano. Danilo Dolci è stato originale interprete della nonviolenza dimostrandone, con tutti i suoi limiti, validità ed efficacia. Ricordare Capitini e Dolci significa fare i conti con le vicende italiane e meridionali di questi ultimi sessant’anni, e seppur questo paese è stato troppe volte il palcoscenico dove hanno svolto un ruolo da indegni protagonisti massoni, pidduisti, terroristi di ogni risma, bancarottieri, imprenditori senza scrupoli, mafiosi di assoluta ferocia, politici di assoluta mediocrità, possiamo rincuorarci perchè fortunatamente ad interrompere la farsa tragica ci hanno pensato tanti uomini e tante donne dalla cristallina dignità morale. Fra queste persone (ce ne sono tante e qui faccio un torto alla verità e pecco di assoluta incompletezza) metto un solo nome, porto un solo esempio, forse perchè lo sento vicino come ci si sente vicini ad un familiare,forse perchè ho avuto la fortuna di conoscerlo,forse perchè ha avuto la bontà di pubblicare alcuni miei articoli sulla sua rivista “Lo Straniero”, o forse perchè è davvero straordinario: si tratta di Goffredo Fofi. Non spendo io parole su di lui, ma lascio quelle di Roberto Saviano, molto più meritevoli d’attenzione delle mie, che su un numero di “Nuovi Argomenti” di un paio di anni fa dedicato ad Enzo Siciliano (all’epoca da poco scomparso) scrive, e vado a memoria non ricordando con esattezza le parole ”...in Italia sono pochi i punti di riferimento, coloro che possono essere presi come esempio, uno è Enzo Siciliano l’altro è Goffredo Fofi”. Un breve inciso: è notizia di questo periodo che Fofi sta per lanciare un nuovo progetto editoriale le “Edizioni dell’Asino” e che nel 2009 tra le le prime pubblicazioni ci sarà un lungo libro inchiesta sull’Italia curato fra gli altri dallo stesso Saviano e da Pino Corrias.

2)Calabria,’ndrangheta e oltre. Saverio ed Emiliano con il loro libro “La Società Sparente” hanno aperto un vivace dibattito sull’attuale situazione calabrese, a quanto pare più meritevole d’interesse fuori dalla regione. Su “la Società sparente” ho un’idea piuttosto chiara. Il libro è interessante, ben scritto, a volte scivola un pò troppo nell’autocitazionismo,ma finalmente vede dei calabresi impegnati a raccontare la Calabria, visto che ormai nei campi più disparati, dalla letteratura al giornalismo, dal cinema al teatro, la Calabria non solo non sembra incuriosire il parterre affollato degli intellettuali italiani ma, peggio ancora,sembra l’ultimo dei pensieri, sepolto chissà dove, per chi in quel parterre “parra lu calabrese”. Trovo “La Società sparente” molto più interessante nella sua fase di “analisi antropologica” che in quella di “denuncia”.

Se ad una prima lettura sembra un pò confusionario, nell’affastellarsi di capitoli l’uno dietro l’altro senza un’apparente logica,è significativo trovare, in alcuni di essi, un’analisi lucida e spietata di quello che oggi vuol dire vivere in Calabria e di come il potere politico abbia fatto tutto quello che c’era da fare per arrivare sull’orlo del baratro.

Più che un’inchiesta giornalistica è un’analisi che permette di ritovare alcune delle dinamiche più incisive della società calabrese. Il libro si muove su due fronti, parte da San Giovanni in Fiore (emblema per certi aspetti della Calabria) e si allarga all’intero contesto regionale per poi ritornare al luogo iniziale della ricerca. San Giovanni in Fiore è il punto di snodo da cui fluiscono le riflessioni a volte acute e brillanti,a volte troppo esasperate e autoreferenziali di Emiliano e Saverio che forse nella foga di voler dire tutto e subito(ma l’esigenza e l’urgenza di raccontare non riesce, nelle menti più libere e lucide,ad avere barriere) hanno mancato il segno.

Precipita infatti il discorso,in determinati passi della “Società sparente”, in delle vere e proprie esagerazioni. In particolare la tesi netta quanto apodittica “a San Giovanni in Fiore c’è la mafia”. Da sangiovannese, conscio di quello che è rimasto del nostro amato paese, non posso essere d’accordo con questa idea forte ribadita in diversi passaggi del libro, non posso condividere la convinzione di Emiliano e Saverio che San Giovanni è Platì, San Luca , Isola ,Cutro, Paola, Filadelfia, Melito Porto Salvo,Lametia, Cirò ecc. ecc. ecc.

Nell’accurata geografia ‘ndranghetista elaborata in “Fratelli di sangue” da Nicola Gratteri e Antonio Nicaso (Pellegrini Editore, Cosenza)non compare San Giovanni in Fiore, così come non esistono,non sono esistite, e mai esisteranno penso, famiglie che utilizzano metodi criminali per il controllo di quel territorio e la creazione di ricchezza e predominio attraverso affari leciti e illeciti. San Giovanni in Fiore non è l’esempio da prendere in considerazione per spiegare l’invadenza e la potenza della ‘ndrangheta, è invece, senza dubbio alcuno, il simbolo della sconfitta del potere politico nel meridione, dell’incapacità di fare dell’intervento pubblico un vettore di sviluppo economico virtuoso, della inerzia della società civile quando si riduce a mera appendice della politica.

Se poi si vuole dicutere dicendo, come più volte è stato ribadito, che la mafia esiste anche se non uccide e spara, che è anche un atteggiamento e un modo di pensare, allora si crea confusione e si pecca molto di precisione.

Ma il libro, come dicevo prima, ha diversi meriti come ad esempio il porre l’accento sulla forza destrutturante dell’emigrazione, il sottolineare come l’emigrazione è ancora oggi elemento decisamente negativo nella vita calabrese. E proprio Saviano, in un articolo scritto su “l’Espresso” in cui recensisce tra altri testi anche “La Società sparente” , riesce in questo senso a trovare una delle giuste chiavi di lettura del libro. La sua arguzia, il suo spiccato senso critico sottolineano il valore dello scritto di Emiliano e Saverio quando presta la sua attenzione alla stretta correlazione esistente fra continua emigrazione (e quindi abbandono delle forze migliori, più sane e positive del territorio) e predominio ’ndranghetista (e quindi sopraffazione delle forze criminali capaci di inquinare il normale deflusso della vita democratica).

Bisognerebbe leggere attentamente poi i capitoli dedicati a quel gran numero di calabresi dalla cultura media e alta (e fra questi moltissimi laureati), rimasti in Calabria che per continuare a sperare in qualcosa e non sparire del tutto hanno dovuto abbassare il capo e non guardare allo sfacelo che gli si parava innanzi, o magari guardarlo ma con freddo e distaccato interesse in un vorticoso disincanto che ha succhiato via le energie migliori.

Domenico Barberio


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