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CALABRIA. Dedicare l’ 8 marzo a Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola e Lea Garofalo, donne coraggiose che si sono opposte alla criminalità, arrivando a denunciare anche i propri cari e pagando prezzi altissimi, in due casi anche con la vita.

IL SIMBOLO DELL’ 8 MARZO 2012: TRE DONNE CORAGGIOSE. Iniziativa del Quotidiano della Calabria, lanciata il 13 febbraio dal direttore, Matteo Cosenza. Il suo editoriale - a c. di Federico La Sala

(...) guai a voltarsi dall’altra parte e a digerire anche queste storie come un normale tran tran quotidiano. Facciamole diventare l’immagine di una Calabria combattiva e positiva, di quella bella Calabria che tutti vorremmo e che purtroppo non c’è se non nel panorama
sabato 31 marzo 2012 di Federico La Sala
[...] l’8 marzo, una festa che rischia di essere tale solo per vendere un po’ di mimose e scambiarsi qualche regalo o cena, ma che poi di tanto in tanto recupera la sua carica vitale. Ebbene, quest’anno ogni mimosa sia accompagnata dai volti di Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Alla ’ndrangheta militare e a quella in doppiopetto (“che sta in mezzo a noi, purtroppo”), facciamo sapere da che parte stiamo. E questa sia solo una tappa di un cammino collettivo, fatto di piccoli e (...)

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> IL SIMBOLO DELL’ 8 MARZO 2012: TRE DONNE CORAGGIOSE. --- Soprattutto nella mafia, se ci sarà una rivoluzione, a farla saranno proprio le donne (di Carlo Lucarelli - Ragazze antimafia).

giovedì 8 marzo 2012

Ragazze antimafia

di Carlo Lucarelli (l’Unità, 08.03.2012)

Dalle mie parti, cioè in Romagna ma anche nel resto d’Italia -, nelle famiglie contadine più tradizionali c’erano le azdore, in dialetto, le reggitrici, perché reggevano la famiglia. A decidere era sempre l’uomo, ma le azdore che spesso avevano studiato di più, riflettuto e pensato di più erano quelle che conoscevano le storie della famiglia.

Le azdore conoscevano le tradizioni e anche le leggende, i valori e lo spirito delle cose, quelle che educavano i figli e che la notte, poco prima di addormentarsi, sussurravano al marito il loro parere, in una «moral suasion», si direbbe adesso, che al mattino poi lasciava i suoi segni. Ecco, fatte le dovute differenze, è ovvio, le famiglie mafiose non sono meno tradizionali e al loro interno il ruolo della donna, dell’azdora comunque si dica in calabrese, siciliano, campano, pugliese o in uno dei dialetti del nord in cui le mafie si sono ormai radicate non è meno importante.

Sono le donne ad educare i figli e quando si tratta di una famiglia mafiosa i valori di cui si nutre il figlio del boss, dell’affiliato o del picciotto sono quelli di Cosa Nostra, della Camorra o della ’ndrangheta. Valori difesi con determinata ostinazione, come accade alla madre di Rita Atria, che distrugge a martellate la lapide sulla tomba della figlia collaboratrice di giustizia. E quando l’uomo, il boss, finisce dentro, impacciato dal 41bis, sono sempre più spesso le donne a prenderne il posto, a fargli da portavoce come Rosetta Cutolo col fratello Raffaele o a dirigerne in reggenza gli affari, come accade da un po’ di tempo nella ’ndrangheta.

Sono importanti le donne, anche nella mafia. La mafia lo sa e ne ha paura. Perché quando succede che le donne si ribellino, la forza e la loro capacità di scardinarli dall’interno quei valori, di rinnegarli e di combatterli, è enorme e dirompente. Perché succede che una madre capisca all’improvviso che i figli faranno la stessa fine dei padri, assassini e ammazzati, che non potranno fare la vita degli altri ragazzi per esempio innamorarsi e sposare qualcuno che non sia di un’altra famiglia di ’ndrangheta succede che veda il figlio ricevere fino da bambino gli omaggi degli affiliati come il boss che necessariamente diventerà. E allora le donne, le madri e le sorelle, si «pentono», ma sul serio, e collaborano con la giustizia raccontando non solo i segreti e i fatti della mafia, ma anche lo spirito, gli umori e i costumi. Oppure succede che le donne, sempre le madri soprattutto, diventino loro stesse antimafia, punti di riferimento per intere generazioni, in grado di dare coraggio e forza, come la signora Felicia, la mamma di Peppino Impastato.

Non è una cosa facile. La mafia lo sa e quando capisce che sta accadendo reagisce duramente. Opprime al punto di portare al suicidio, come succede a Maria Concetta Cacciola, ammazza e scioglie nell’acido, come Lea Garofalo, due donne che si sono ribellate alla ’ndrangheta e ne hanno pagato il prezzo. Ma è proprio chi vive le cose dall’interno, nell’intimità più quotidiana che è in grado di capire quello che è sbagliato e fare a proprio modo la sua importantissima «moral suasion». Soprattutto nella mafia, se ci sarà una rivoluzione, a farla saranno proprio le donne.


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