Chiesa anestetizzata dal fascismo
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 4 giugno 2013)
Il rapporto fra Chiesa e fascismo è questione storica di ovvia importanza. Appassiona i professionisti del mestiere così come lo studio delle relazioni tra cattolicesimo e Terzo Reich, ortodossia e Urss, clero e franchismo, o tra episcopati e giunte militari dell’America Latina.
Tuttavia nel rapporto Chiesa-fascismo del periodo 1921-1945 c’è qualcosa di più: perché ciò che si consuma riverbera nella storia italiana ben oltre la parabola della dittatura. Quasi che il cattolicesimo romano abbia allora acquisito mentalità che perdurano nell’Italia della guerra e in quella repubblicana, in quella democristiana e in quella postdemocristiana. Una cultura del nemico, una presunzione d’astuzia nel giudicare le situazioni, un agnosticismo istituzionale e costituzionale che si fida di interlocutori improbabili: purché capaci d’interpretare gli «interessi superiori» della Santa Sede, così come appaiono al fallibilissimo giudizio di chi se ne fa custode.
È per questo, a mio avviso, che non sbaglia chi dietro ai grandi disastri antichi e recenti della storia nazionale postula una qualche responsabilità ecclesiastica: mai univoca (il cattolicesimo porta sempre in sé gli anticorpi della riformabilità); mai generalizzabile (le opzioni sconfitte lasciano spesso le tracce di un possibile riscatto); mai priva di compensazioni (il lavoro di formazione delle coscienze fatto negli anni del «Du-ce, Du-ce» ha alimentato per decenni le scorte morali del Paese). Eppure una responsabilità reale: che dipende dalle posture politiche apprese durante il fascismo e con le quali la Chiesa italiana non si è mai misurata con la limpidità d’altri.
I vescovi tedeschi, all’indomani della sconfitta, avviarono edizioni e studi organici sul rapporto col nazismo; i vescovi argentini, per prendere un caso diverso ed ora a tutti noto, hanno accolto l’appello alla purificazione di Wojtyla e hanno fatto solenne ammenda della loro tiepidezza e complicità davanti alle sparizioni.
Il cattolicesimo italiano non ha fatto né l’uno né l’altro. Associatasi in nome di Pio XII defensor urbis al riscatto resistenziale, rigenerata nella sua credibilità politica dalla Dc di Dossetti e De Gasperi, la Chiesa ha rinviato, derubricandola a propaganda ostile, la domanda di fondo: perché un mondo capace di vedere i mali del regime, di elencarli nero su bianco, ne subisce la propaganda e la seduzione? E la ricerca storica, che quarant’anni fa aveva iniziato una riflessione su questo problema, s’è poi frantumata in molte analisi specialistiche tutte di pregio, ma di scarso costrutto.
Oggi le cose sono cambiate: l’apertura delle carte di Pio XI permette di progettare un «progetto culturale» degno di questo nome per rispondere alla domanda sul cattolicesimo; e la mancanza di un quadro rigoroso d’insieme è stata colmata dal ricchissimo volume di Lucia Ceci L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini (pp. 338, 22), in libreria per i tipi di Laterza.
A Lucia Ceci, punta di lancia dell’Università di Roma Tor Vergata, si dovevano già scoperte documentarie fondamentali su quell’assioma - il Papa non deve parlare - che poi deflagrerà durante la Seconda guerra mondiale e la Shoah.
In questa sua nuova fatica ripercorre invece i rapporti Chiesa-fascismo nella loro interezza, quasi a riprendere il filo d’un discorso lasciato interrotto da Pietro Scoppola quarant’anni fa: riconnette con intelligenza in una visione di insieme quasi tutti gli studi che avevano trovato, capito o equivocato, singoli episodi. L’opera è seria e profonda: ma insieme ha una leggibilità di tipo anglosassone (quanto mai apprezzabile in una storiografia come la nostra, che ritiene sgradevole rendersi comprensibili o, peggio che mai, interessanti) e si presta, se avrà le traduzioni che merita, a far conoscere fuori dall’orto italico lo spessore di una ricerca di cui è un frutto alto.
Nel concreto L’interesse superiore fa capire che la grande anestesia del cattolicesimo, davanti a un regime di cui volta a volta qualche voce riconosce la pericolosità e la bestialità liberticida, è la somma di una infinità di microanestesie locali: la paura dei rossi, il sogno di una restaurata cristianità, il trascinamento della predicazione del disprezzo antiebraico, l’anticomunismo, la dottrina del matrimonio, si mescolano e fin dalla prima apparizione di Mussolini sulla scena pubblica convincono i grandi opinion leader della Santa Sede a comparare costi e benefici.
Un sistema di cui alla fine della vita Pio XI percepisce la perversione: ma il tardivo pianto (quando pronuncia la frase sul «siamo tutti spiritualmente semiti», Papa Ratti piange) non muta l’atteggiamento di fondo.
Pio XII, nota giustamente Lucia Ceci, arriva a far sparire il discorso del predecessore sul Concordato non perché questo fosse particolarmente puntuto: ma solo perché avrebbe ridotto le capacità di interlocuzione che durano nel tempo, fino a poche ore dalla fucilazione di Dongo.
In questo volume appaiono le figure di questa interlocuzione: da quella meschina e viscida di Pietro Tacchi Venturi a quella contraddittoria di Ildefonso Schuster. Emergono i percorsi, da quello degli allucinati difensori del razzismo cattolico (quello «sano», che non offendeva gli ebrei convertiti) fino a quello dei Montini e dei De Gasperi.
Mentre viene mostrato il progressivo soffocamento dell’antifascismo alle origini del regime - oggetto di un non meno importante studio di Alberto Guasco in uscita dal Mulino - la riemersione di una ostilità al regime non viene censita con la stessa metodicità: e per un motivo ragionevole. È proprio la cultura della sottrazione - quella che pensa che la verità storica si ottenga sottraendo gli eroismi dei singoli agli errori delle istituzioni - che L’interesse superiore rifiuta: e in questa opzione mostra cosa sia stato, alla luce di una ricerca vasta ma prima d’ora dispersa, il rapporto fra la Chiesa e il regime, nel suo tempo e forse anche un po’ dopo.