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CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA

INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: "CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?"! Una nota - di Federico La Sala

Una ’risposta’ e un omaggio a una ragazza napoletana frequentante la classe prima della scuola media, incontrata a Certaldo, in occasione del “Premio Nazionale di Filosofia” (VI Edizione, 20.05.2012), che ha posto la domanda
venerdì 14 settembre 2012
SONNAMBULISMO STATO DI MINORITA’ E FILOSOFIA COME RIMOZIONE DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. Una ’lezione’ di un Enrico Berti, che non ha ancora il coraggio di dire ai nostri giovani che sono cittadini sovrani. Una sua riflessione
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
FOTO ACCANTO AL TITOLO: GIOVANNI BOCCACCIO.
CERTALDO: PREMIO NAZIONALE DI FILOSOFIA (VI EDIZIONE - LE FIGURE DEL (...)

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> INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE --- Pedagogia radicale, coscienza critica e pratica politica. Rileggendo don Milani e Paulo Freire (di Francesco Festa)

sabato 16 maggio 2015

Pedagogia critica: don Milani e Freire

di Francesco Festa (comune info, 15 maggio 2015) *

CONTINUAZIONE - Seconda parte e fine

Davide Bifolco e il fenomeno Gomorra

Nei seguenti esempi abbiamo due tipi di narrazioni essenzializzanti e di formazioni discorsive che abusano di letture antropologiche, trasformando concetti e schemi analitici (usati per la ricerca, in contesti molto rigorosi) in concetti realistici, come se si riferissero a realtà effettive. L’analisi volge a favore di una sola opzione, le altre vengono destituite o catturate nell’economia del discorso dominante.

Il primo esempio è un articolo del Corriere della Sera dell’8 settembre 2014, a firma dello storico meridionalista Paolo Macry14, uscito dopo l’uccisione del diciassettenne Davide Bifolco, nel rione Traiano, alla periferia di Napoli, per mano di un poliziotto dopo un breve inseguimento per un mancato fermo a un posto di blocco.

Liquidata in poche battute la vicenda della morte, Macry sbotta in seguito con rappresentazioni essenzializzanti sulle periferie attraverso uno schema definito: da una parte la legge, dall’altra l’anomia. Tertium non datur: oltre non vi è interpretazione. Non vi sono ipotesi contrapposte, ma l’una e l’altra partecipano della correità: l’anomalia di una periferia preda della criminalità serve a ricucire un potere istituzionale corrivo con la morte del diciassettenne. Diversamente anche la funzione discorsiva dell’articolo perderebbe la sua incisività.

A Napoli esistono i ghetti - scrive Macry - nella Parigi di Victor Hugo o nella Londra di Charles Dickens il confine di classe [...] è lungamente il confine di razza, a Napoli è il confine della legalità. Scampia, Forcella, il Rione Berlingieri, il Rione Luzzatti, costituiscono aree economicamente degradate e urbanisticamente fatiscenti, ma sono anche il luogo di una contrapposizione dei cittadini allo Stato [...] È qui che si nascondono i latitanti, che la gente cerca di resistere con la forza agli arresti della polizia, che i conflitti tra interessi vengono risolti da una giustizia privata e cruenta e le guerre tra bande armate avvengono alla luce del sole [...] Sono insomma ghetti perché riflettono un contesto infernale ma anche perché, in qualche modo, si sentono essi stessi ghetti [...] territori separati dal resto del tessuto urbano, soggetti a codici speciali, abituati a proprie gerarchie di potere, fidelizzati con ricompense di varia natura dalle organizzazioni criminali.

Nelle periferie, dunque, i canoni istituzionali mutano differentemente che in altre parti della metropoli: le tecnologie di governo assumono caratteri straordinari (extra legem); il monopolio della forza adotta una condizione di eccezionalità permanente. D’altronde, lo stesso Macry ammette l’esistenza di una dislocazione dei confini della cittadinanza, di un’asimmetrica di poteri a seconda degli spazi della metropoli, utilizzando una serie di cliché. Da una parte, un classico dell’orientalismo sul Mezzogiorno: l’allusione all’inferno, già immagine pittoresca utilizzata da Croce, Un paradiso abitato da diavoli, a sua volta ripresa da una raffigurazione settecentesca. Dall’altra, una concezione tipica della letteratura sulle classi subalterne e le classi pericolose, allorché afferma che «la reazione della gente del Rione Traiano, l’assalto alle auto delle forze dell’ordine, le dichiarazioni di amici e passanti, il corteo aggressivo segnalano un fenomeno che, pure in momenti di forte e comprensibile emotività, non andrebbe sottovalutato»: con Eric Hobsbawm sappiamo che le rivolte e le sollevazione dei subalterni appaiono come «forme primitive di rivolta sociale», «forme prepolitiche che ancora non sono riuscite a trovare un linguaggio», che non sono state integrate nelle forme politiche e istituzionali borghesi15. Ne consegue che le manifestazioni in certi quartieri di Napoli sono dirette o corrive alle organizzazioni politico-criminali.

Il secondo esempio è la fiction Gomorra. Un successo mondiale tratto dall’omonimo libro di Roberto Saviano. Sia la fiction che il libro si reggono su frusti stereotipi e frame storici neopositivistici, descrizioni morali di una popolazione preda inguaribile dei suoi incubi atavici. I napoletani appaiono come passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e, soprattutto, inabili alla formazione di una cultura razionale, civica, ordinata e privi di senso dello stato. Il contesto sociale risulta sottosviluppato a causa del clientelismo, delle relazioni gerarchiche e patriarcali, e su tali condotte pubbliche s’innervano le varie forme di manifestazione del crimine organizzato e dell’illegalità diffusa. All’interno di questo frame, i camorristi vengono rappresentati come una enorme macchina che fagocita immagini, merci, droga, prestigio e godimento sociale. Per di più, in Gomorra viene riabilitata una carrella di luoghi comuni, annidatasi nel senso comune, grazie all’uso delle presunte verità prodotte dal meccanismo della rappresentazione. Assumono la dimensione realistica proprio quelle immagini cristallizzate nel tempo, sostenute da concetti scientifici utilizzati in ambiti processuali come verità giudiziarie. D’altro canto, come ha notato Foucault, «la misura delle grandezze e delle molteplicità» dei saperi o delle informazioni diviene «istituzione di un ordine» quando designa un «campo di verità», uno «spazio in cui interagiscono due tipi»: da una parte, il bene, la parte sviluppata, e dall’altra il male, l’arretrato. Tanto nella narrativa quanto nella sceneggiatura di Gomorra, questa dicotomia diventa pericolo incombente, senza distinzione territoriale: il degrado meridionale, anziché eccezione, diviene una mostruosa raffigurazione di una linea di tendenza ormai generalizzata a livello nazionale e globale, in un incedere senza soluzione di continuità, dove tutto è criminalità, fagocitato dalle condotte illegali e indolenti dei napoletani. È una rappresentazione intrisa di superficialità e banalità, il cui scopo è quello della denuncia e dello smascheramento, ma privo del “parlar franco”, privo di chi siano i responsabili politici di tale stato di cose.

A dire il vero, la fiction Gomorra ha sortito un effetto contrario: una sorta di colonizzazione dell’immaginario, suscitando nelle classi subalterne un fenomeno emulativo. Ciò che è violentemente reale viene spettacolarizzato e desiderato. L’accumulazione di immagini e di modelli è condizione di prestigio e di un godimento. Infatti, Gomorra pare riscuota un certo successo tra i figli delle classi subalterne, ormai è un vero cult, più incisivo di Scarface di Oliver Stone o de Il Camorrista di Giuseppe Tornatore.

La pedagogia degli oppressi

Una pedagogia radicale deve svelare il senso di queste narrazioni, decostruendo i dispositivi ideologici e le formazioni discorsive che si celano dietro eccellenti operazioni editoriali, utili alla gioia del pubblico pagante e alla società dello spettacolo.

Don Milani insegnava «a esseri umani in carne e ossa», con un «vissuto, un’affettività, una storia, dei bisogni»16. Ebbene, varrebbe la pena di educare all’esercizio della critica attraverso una strategia didattica che tenga conto delle condizioni materiali e del vissuto dei nuovi poveri, dell’offensiva ideologica delle narrazioni tossiche e delle fiction mainstream, della complessità linguistica delle classi subalterne. Occorrerebbe utilizzare una strategia che analizzi i saperi in campo, come l’economia politica criminale, cui i nostri scrittori e anche alcune associazioni che alla fiction hanno compartecipato si guardano bene dall’adoperare. Basterebbe chiedersi se l’immoralità e l’illegalità non siano consustanziali al neoliberismo, a un sistema di accumulazione che si regge su soggettività individualiste, concorrenti e imprenditoriali, prive di regole e leggi se non quelle del profitto e dell’autorità. Occorrerebbe svegliare le coscienze per riscoprire un’umanità emancipata dai beni e dalle rappresentazioni: prendere coscienza del «processo di prescrizione e di disumanizzazione», dell’introiezione di valori esterni, non appartenenti alla propria classe, ma alla classe degli «oppressori», dove la «percezione di cambiamento è intesa nello svoltare da oppresso in oppressore». Sarebbe un tentativo di decolonizzare l’immaginario, di portare alla luce la dimensione materiale delle rappresentazioni, delle formazioni discorsive ormai sedimentate nel senso comune. Sarebbe un modo di rispondere alla domanda su come ci si sente a essere guardati dall’esterno senza dover per forza far proprio quello sguardo ed emulare modelli di vita esterni. Sarebbe un modo per porre fine all’auto-rassegnazione e all’auto-assolvimento dinanzi alle rappresentazioni esterne, dacché lo sguardo non è più esterno. Sarebbe un modo affinché i nuovi poveri non si percepiscano come mancanti di qualcosa.

Dopotutto, la domanda cui rispondere per praticare una pedagogia degli oppressi è sempre la stessa: perché il figlio di poveri o di precari di oggi non dovrebbe adoperare la violenza, lo strumento più immediato a sua disposizione, per concorrere con i figli di ricchi pur di godere degli stessi beni all’interno della società dello spettacolo?

*

Fonte: euronomade.info. Il testo è stato pubblicato in contemporanea con Deco[K]now (titolo originale completo La scuola di classe: pedagogia radicale, coscienza critica e pratica politica. Rileggendo don Milani e Paulo Freire)

Note

-  1. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1990 (1967). ↩
-  2. Esemplificando questo genere di allievi con il personaggio di «Pierino del dottore», Pierino, figlio del dottore, che sa già leggere quando arriva alle elementari. ↩
-  3. G. De Michele, L’obbedienza non è più una virtù. Che cosa significa “educare”?, qui. ↩
-  4. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2011 (1967). ↩
-  5. B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 1996. ↩
-  6. D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007, p. 11. ↩
-  7. C. Laval, P. Dardot, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Derive Approdi, Roma 2014, p. 419. ↩
-  8. G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi, Milano 2008. ↩
-  9. E. Said, Teoria in viaggio, in Post-orientalismo. Said e gli studi postcoloniali, a cura di M. Mellino, Meltemi, Roma 2009. ↩
-  10. G. De Michele, op. cit.. ↩
-  11. A. Gramsci, Per la Storia degli intellettuali, Quaderno 12, in Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975 (1947), p. 1513. ↩
-  12. S. Mezzadra, Questione di sguardi. Du Bois e Fanon, in M. Mellino (a cura di), Fanon postcoloniale. I Dannati della terra oggi, ombre corte, Verona 2013, pp. 189-90. ↩
-  13. W.E.B. Du Bois, Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, a cura di S. Mezzadra, Il Mulino, Bologna 2010, p. 116. ↩
-  14. I ghetti di Napoli e le responsabilità della politica, qui. ↩
-  15. E. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino 1966. ↩
-  16. G. De Michele, op. cit.. ↩


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