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SANT’AMBROGIO: "Charitas Deus est" (I Joan. 4,8). SINODO DEI VESCOVI 2008: L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO. AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Totale obbedientissima approvazione della parola di Papa Benedetto XVI: Deus caritas est (2006).

MILANO: PISAPIA E SCOLA. Chi è il Buon Pastore e chi il Mercenario? Il Sindaco, "eletto dal popolo", o il Vescovo mandato dal Vaticano? Un’intervista a Pisapia e un’omelia di Scola - a c. di Federico La Sala

lunedì 10 dicembre 2012 di Federico La Sala
Il sindaco difende la tutela dei diritti civili senza discriminazioni
Pisapia: “Nessun credo va privilegiato rivendico l’autonomia della politica”
di Alessia Gallione (la Repubblica, 7.12.2012)
MILANO - Accogliendo il Papa in città la scorsa estate, Giuliano Pisapia rivendicò l’autonomia delle decisioni della politica. «Ed è quello che continuerò a fare», dice il sindaco. Che aggiunge: «È giusto confrontarsi e riflettere, ma io non penso di possedere la verità e chiedo che, (...)

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> MILANO: PISAPIA E SCOLA. Chi è il Pastore e chi il Mercenario? --- L’imperatore Costantino e il l cardinale Scola (di Alessandro Santagata).

mercoledì 12 dicembre 2012

L’imperatore e il cardinale Scola

di Alessandro Santagata (il manifesto, 12 dicembre 2012)

«I provvedimenti, a firma dei due Augusti, Costantino e Licinio, determinarono non solo la fine progressiva delle persecuzioni contro i cristiani, ma, soprattutto, l’atto di nascita della libertà religiosa. In un certo senso, con l’Editto di Milano emergono per la prima volta nella storia le due dimensioni che oggi chiamiamo “libertà religiosa” e laicità dello Stato».

A pronunciare queste parole è stato il cardinale Angelo Scola nel discorso per la vigilia della festa di Sant’Ambrogio. Le reazioni dell’opinione pubblica si sono concentrate soprattutto sugli attacchi dell’arcivescovo di Milano al modello francese di laicità dello Stato, a suo avviso egemonico nella cultura europea, e sulle stilettate alla riforma sanitaria di Obama. Ma perché il riferimento a Costantino?

In un noto saggio «programmatico » del 1961, pubblicato in una collettanea di studi in vista del concilio, Marie-Dominique Chenu si augurava che con il Vaticano II la chiesa avrebbe finalmente preso atto della fine dell’età costantiniana, ossia del matrimonio tra chiesa e potere politico. Nelle società occidentali, spiegava il padre domenicano, si era logorato il modello della cristianità medievale, in conseguenza delle tre grandi rivoluzioni dell’età moderna (Rinascimento, Riforma e Rivoluzione) e sotto i colpi della secolarizzazione del secondo dopoguerra.

Di non minore rilevanza nell’incrinare i rapporti tra trono e altare erano stati i mutamenti interni al cristianesimo stesso: riscoperta della Scrittura, apertura ai non credenti, rivendicazione del Vangelo da parte dei poveri. La desacralizzazione, concludeva Chenu, aveva liberato la chiesa dal compito di supplenza nei confronti delle comunità secolari.

Per il futuro, se non voleva diventare un museo, avrebbe dovuto sforzarsi di accettare il mondo così come era, cogliendone gli elementi positivi, lasciandosi «prendere dal fremito del Vangelo» e non da quello del potere. Come ha mostrato Gianmaria Zamagni (Fine dell’era costantiniana, Il Mulino 2012), la riflessione di Chenu sulla decadenza della fede dopo l’incontro con Costantino risentiva di una lunga tradizione di studi novecenteschi (Ernesto Buonaiuti, Friedrich Heer, Erik Peterson, fino ai grandi del cattolicesimo francese: Emmanuel Mounier, Jacques Maritain, Étienne Gilson). Di Peterson sono note (anche grazie agli studi di Agamben) l’opposizione alla teologia politica di Schmitt e la sfida intellettuale lanciata ai totalitarismi e all’intesa delle chiese con il regime di Hitler.

Saranno proprio la fine della guerra e la sconfitta dei nuovi messianismi politici a dare ulteriore slancio ai critici dell’età costantiniana, le cui elaborazioni confluiranno nella costituzione conciliare Gaudium et spes. In questo testo non solo veniva adottata la teologia della storia avanzata da Chenu, ma la chiesa rinunciava a svolgere un ruolo di potenza temporale e dichiarava di rifiutare i privilegi di un rapporto stretto con il potere.

Non meno importante sarebbe stato il lascito della teologia anticostantiniana sulla dichiarazione Dignitatis Humanae, con la quale veniva riconosciuta la libertà di coscienza sia individuale sia collettiva. Il Vaticano II superava l’abituale rivendicazione della libertas ecclesiaee la conseguente distinzione tra la «ipotesi » (cioè la libertà dei cattolici quando sono minoranza) e la «tesi» (cioè l’intransigenza dei cattolici quando sono maggioranza), nonché la pretesa di difendere con gli strumenti dello Stato l’unica vera religione.

La dichiarazione chiariva i presupposti per un dialogo tra le religioni e la modernità, ossia il riconoscimento pubblico (già operato dalle rivoluzioni liberali) di una libertà religiosa sostenuta giuridicamente. Libertà religiosa e fine dell’età costantiniana sono dunque concetti strettamente legati nella storia del pensiero della chiesa, nella misura in cui l’accettazione della prima da parte della dottrina cattolica è stata possibile solo in virtù di quella della seconda. Ne è certo consapevole il cardinale Scola, che proprio nella Dignitatis Humanae ha riconosciuto la posizione più alta del magistero in materia. L’arcivescovo ha poi affrontato il tema delle persecuzioni religiose nel mondo e quello ancor più complesso del rapporto tra la ricerca religiosa personale e la sua espressione comunitaria.

Infine, ha concluso sul problema della connessione tra la libertà religiosa e l’orientamento dello Stato. È qui il cuore del ragionamento di Scola, nell’idea, cioè, che gli Stati non possano prescindere dalle «strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa». Più o meno il contrario dell’impostazione della Dignitatis, pure non priva di ambiguità e contraddizioni. Una posizione, la sua, distante anche dell’impianto teorico del discutibile Concordato del 1984, in cui la collaborazione tra Stato e chiesa era incoraggiata, ma senza riferimenti alla moralità della repubblica.

Nel contesto del discorso il riferimento a Costantino alla vigilia dei 1700 anni dall’Editto di Milano, sebbene smorzato dalle affermazioni sull’«inizio mancato » e sulle «indebite commistioni tra il potere politico e la religione », acquista il significato di un sostanziale arretramento teorico, oltre che di una vera e propria falsificazione storiografica. Certo, Scola non vorrebbe tornare allo Stato confessionale e dichiara il proprio apprezzamento per un modello di aconfessionalità «senza distacco» (modello statunitense?), ma da parte di un cardinale colto e attento come lui l’indicazione dell’imperatore come padre della libertà religiosa suggerisce una rilettura della storia della chiesa e dei suoi rapporti con il potere che trova nel rifiuto della laicità moderna (e non solo del modello francese della «neutralità») il suo logico punto di approdo.

Non è solo una questione interna alla chiesa, ma un discorso che investe i problemi della società multiculturale e gli storici ritardi italiani sui diritti e la laicità effettiva. C’è di che riflettere quando a parlare così è uno dei più quotati tra i possibili successori alla Cattedra di Pietro.


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