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LA FILOSOFIA "MODERNA" E LA "SCIENZA NUOVA". "La strada di Vico gira e rigira per congiungersi là dove i termini hanno inizio... Prima che vi fosse un uomo in Irlanda c’era un Lord in Lucania" (James Joyce, "Finnegans Wake")

PAROLA DI VICO. SULLA MODERNITÀ DI CARTESIO, RICREDIAMOCI. Una nota di - Federico La Sala

Cartesio va avanti mascherato, senza verità e senza grazia (“charis”): "Renato, ambiziosissimo di gloria", è un cattivo storico dell’“altro”, di “se medesimo” e, come cattivo storico, anche un cattivo filosofo! E’ un filosofo narcisista (...)
domenica 28 aprile 2013
QUI PROSEGUE IL DISCORSO GIA’ AVVIATO IN
VICO (E KANT), PER LA CRITICA DELLE VERITA’ DOGMATICHE E DELLE CERTEZZE OPINABILI.
GIAMBATTISTA VICO CON NEWTON: "HYPOTHESES NON FINGO" (NON INVENTO IPOTESI!)
L’ITALIA AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova"
LUDOVICO A. MURATORI E BENEDETTO XVI: LA STESSA CARITA’ "POMPOSA".
A GIAMBATTISTA VICO E ALL’ITALIA, L’OMAGGIO DI JAMES JOYCE.
NOTA. Per le citazioni e i riferimenti di (...)

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> PAROLA DI VICO. SULLA MODERNITA’ DI CARTESIO, RICREDIAMOCI. ---- IL SOSIA DI PLAUTO. Ma il mondo non l’ abbiamo inventato noi (DI bENIAMINO pLACIDO)

domenica 13 settembre 2015

Ma il mondo non l’ abbiamo inventato noi

di BENIAMINO PLACIDO *

Mettiamoci nei panni di un professore che si trovi proprio all’ inizio dell’ anno scolastico. E’ trepidante. Ne ha più di un motivo. Vorrebbe interessare i suoi studenti anche allo studio di cose antiche, remote. E’ pagato (pochino, in verità) per questo. Ma come forzare la resistenza sempre crescente per tutto ciò che non è nuovo, non è "moderno"? Mi immagino che il trepidante nostro insegnante farà così. Siccome conosce l’ interesse dei ragazzi (anche delle ragazze, ormai) per il gioco del calcio, la prenderà alla lontana.

Comincerà ricordando e raccontando la clamorosa finale del primo campionato mondiale di calcio del dopoguerra. Si disputò al Maracanà di Rio de Janeiro il 16 luglio del 1950. Vide di fronte, dinanzi a duecentomila persone, Uruguay e Brasile. Doveva vincere il Brasile. Certo che doveva. Nessuno ne dubitava. Erano più forti di tutti, i brasiliani. Avevano strapazzato tutte le squadre incontrate. Giocolieri strepitosi, erano capaci di portare avanti la palla anche tenendola sulla punta del naso. Può accadere però che il naso te lo devi soffiare. Il pallone allora casca per terra, gli avversari in agguato se ne impadroniscono e lo sbattono nella tua porta: una, due volte. Risultato finale: Uruguay batte Brasile 2-1.

Il Sudamerica ne fu sconvolto. L’ Europa, stupefatta. Il nostro Gianni Brera scrisse una frase memorabile. Che suonava pressappoco così: "Questi (questi giocatori-giocolieri brasiliani) finché rimarranno convinti di averlo inventato loro, il gioco del calcio, non vinceranno mai un campionato del mondo". I brasiliani, mortificati (quando non si erano suicidati) cominciarono a pensarci. Si convinsero che il gioco del calcio era stato inventato e praticato prima di loro anche da altri - inglesi, austriaci, ungheresi - che avevano messo a punto tecniche e tattiche redditizie. Presero ad imitarli. Presero a vincerli anche loro - una, due, tre volte - i loro mondiali di calcio.

Adesso che ha conquistato l’ interesse della classe, il nostro professore può continuare. Dite la verità, cari ragazzi: sarà perché siamo così moderni, e postmoderni, ma anche noi a volte ingenuamente crediamo di averlo inventato noi, il mondo. Non è esatto. Il mondo, con quello che ha per noi di più interessante: le sue coordinate mentali, è stato inventato "anche" da altri, molto tempo fa.

Per esempio: René Descartes, detto Cartesio. Passa per essere il fondatore del pensiero "moderno". Con il suo "cogito" di cui tutti - non è vero? - abbiamo sentito parlare. Io, povero ometto, non sono sicuro di niente. Nemmeno di me stesso, nemmeno della realtà che mi circonda. Potrebbe essere tutta una illusione. Che disperazione. Di una cosa però sono certo: che sto pensando. E se penso, esisto: "Cogito, ergo sum".

Quale rassicurante, meravigliosa scoperta. Ma non è una scoperta tutta sua, di Cartesio. Prima di lui l’ aveva elaborata e messa in scena il commediografo romano Plauto, vissuto almeno diciotto secoli prima. Un commediografo romano, possibile? Ma i romani non erano quei prosaici soldatacci, buoni soltanto a conquistare il mondo, per riempirlo di acquedotti? Sì, ma anche a porsi il problema esistenziale dell’ identità personale. Chi sono io? Ed esisto per davvero?

Come accade a Sosia, protagonista della commedia plautina Anfitrione. Che è uno schiavo. Torna a casa dalla guerra e davanti alla porta di casa sua gli viene incontro (incredibile! mostruoso!) un essere assolutamente identico a lui. Che pretende per di più di esser lui il vero Sosia (si tratta in realtà del dio Mercurio che staziona da quelle parti per tener mano ad una marachella extraconiugale di Giove). Il povero schiavo Sosia è dapprima perplesso. Poi sconcertato. Poi sconvolto: allora, io non esisto, io non sono. Finché non interviene il pensiero risolutore "Sed quom cogito, equidem certo idem sum qui semper fui". Ma quanto più ci penso, davvero io sono lo stesso che sono sempre stato. Lo so per certo: a questo punto il nostro professore tirerà fuori dalla cartella un libro: Descartes y Plauto di Benjamin Garcia - Hernandez, che è riuscito a far acquistare (ma quanta fatica!) dalla biblioteca della scuola. Un libro spagnolo, recentissimo, dove in 338 pagine si "dimostra" la discendenza dell’ intero sistema filosofico cartesiano dall’ Amphitruo di Tito Maccio Plauto.

Vero è che qualcuno se n’ era già accorto. Se n’ era accorto, e l’ aveva ai suoi tempi segnalato, il nostro Giambattista Vico. Dopo di lui, anche altri. Tra gli altri, il classicista Maurizio Bettini. Il quale, nell’ introduzione all’ Anfitrione (testo latino e traduzione a fronte) pubblicato da Marsilio nel 1991 affronta con rara perizia il personaggio Sosia. Rammenta che ci troviamo di fronte al primo modello di quel "Doppio" che torna poi ininterrottamente nella letteratura europea: in Molière, in Kleist, in Dostoevskij, in Hoffmann, in Stevenson. Persino in un "lied" di Schubert (Der Doppelganger).

Poi, per evitarci di commettere il solito simmetrico errore, di pensare che le cose stanno sempre allo stesso modo, da Romolo e Remo ad oggi, ci mostra anche - con precisione - dove scattano le differenze fra lo schiavo plautino Sosia (in quella situazione sociale, in quella situazione culturale) e le sue reincarnazioni successive. Una cosa comunque è certa. Che il mondo non l’ abbiamo inventato noi. E’ lì da gran tempo. Aspetta solo che ci decidiamo ad osservarlo, con attenzione.

* ARCHIVIO/ LA REPUBBLICA, 27 settembre 1998


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