Anche gli uomini recitano il rosario
di Katie Grimes (Adista” - documenti - n. 33 del 28 settembre 2013)
Il mese scorso, di ritorno dal suo celebratissimo viaggio in Brasile, papa Francesco ha espresso alcuni commenti a braccio, producendo reazioni in tutta la blogosfera cattolica. Pur riaffermando il perenne divieto della Chiesa all’ordinazione delle donne, il papa ha fatto appello a ciò che ha definito «una vera e profonda teologia delle donne nella Chiesa».
In molti hanno accolto con favore le sue parole, interpretandole come prova del suo apprezzamento per il genere femminile. Ma io non sono così sicura che dovremmo leggere queste parole come “una buona notizia”. Il problema sembra esattamente l’opposto di ciò che papa Francesco ha sostenuto. Io non biasimo la mancanza di questa “teologia delle donne”, ma il fatto che tanti rappresentanti della Chiesa la considerino necessaria.
Prima di lui, Giovanni Paolo II aveva già tentato di delineare “una teologia delle donne” con la sua lettera apostolica del 1988 Mulieris dignitatem, individuando due dimensioni della vocazione delle donne: la maternità di stile mariano e la verginità. Tuttavia, piuttosto che criticare questa specifica teologia delle donne, voglio individuare i problemi legati ai presupposti di tale progetto.
La ricerca di una teologia delle donne, sostengo io, rende queste ulteriormente estranee, ponendole sotto la luce circoscritta dello sguardo maschile. Perché nessun papa ha mai scritto una lettera sul ruolo degli uomini nella Chiesa e nella società? O ha mai riflettuto su una “teologia dei maschi”?
La risposta è semplice: i papi non hanno mai messo in discussione il significato teologico del loro sesso, perché il potere ha trovato nella mascolinità la propria giustificazione. Esercitando il potere sociale ed ecclesiale, i maschi hanno voluto dare l’impressione di legiferare in quanto esseri umani. Gli autori del Magistero hanno anche utilizzato la parola “uomini” per indicare l’intera specie umana: le donne possono essere uomini, ma gli uomini non possono mai essere donne. Le donne non sono mai il metro di paragone, rappresentano l’eccezione.
Ciò vale per tutti i gruppi socialmente potenti. Ad esempio, negli Stati Uniti, i tradizionali opinionisti hanno sempre fatto riferimento alla costante supremazia bianca nel Paese non come al “problema bianco”, ma come al “problema nero”, o alla “questione razziale”. Allora come oggi, il fatto di essere bianco appare normativo, scontato e subliminale. Solo i neri devono spiegarsi. Invece di chiedere una «vera e profonda teologia delle donne», avrei preferito che il papa invocasse una critica più incisiva del sessismo, della misoginia e dell’androcentrismo. Invece di una teologia più profonda delle donne, avrei voluto che riconoscesse la necessità di più teologia fatta dalle donne.
Un papa non ha mai scritto una lettera affermando la dignità della popolazione maschile, anche perché questa non è mai stata messa in dubbio. La Chiesa ha sempre onorato e rispettato la dignità della mascolinità. Noi di solito dobbiamo affermare esplicitamente la dignità solo di quei gruppi a cui essa viene negata nelle vicende concrete della vita quotidiana.
Analogamente, il posto degli uomini nella Chiesa è stato dato sempre per scontato: sembra così ovvio da non dover essere discusso. Ma se papa Francesco parla della mancanza di un’adeguata teologia delle donne, vuol dire che 2000 anni non sono stati sufficienti per capire ciò che Dio vuole per le donne. Come può essere? Cosa c’è di così difficile da capire delle donne?
Forse gli autori contemporanei del Magistero considerano le donne così fastidiosamente complesse perché mirano all’impossibile: la produzione di una teoria che le renda sostanzialmente e complessivamente diverse dagli uomini, ma fondamentalmente uguali a loro. Le autorità cattoliche non hanno mai trovato questo problema così complicato. Tommaso d’Aquino ha dedicato una sola quaestio (ST 92 I.) in tutta la sua Summa alla discussione esplicita sulle donne. Ha parlato più spesso degli angeli che della “donna”.
Per gran parte della sua storia, la Chiesa non ha avuto bisogno di giustificare la sua fede nella supremazia maschile dinanzi a un coro di scettici. Le società in cui la Chiesa era inserita erano in genere d’accordo con loro. Gli autori cattolici hanno dunque investito la maggior parte delle risorse della retorica ecclesiale nella difesa della posizione della Chiesa su punti controversi.
Nel XX secolo, però, qualcosa ha iniziato a cambiare. La fede della Chiesa nella superiorità degli uomini rispetto alle donne non è sembrata più così ovvia. Nel tentativo di difendere la Chiesa da un fiorente movimento per i diritti delle donne, Pio XI ha scritto nel 1930 la Casti Connubii. Riaffermando la condizione dell’uomo come capo famiglia, ha insistito sull’importanza della sottomissione coniugale delle mogli, criticando aspramente tutti coloro che sostenevano «essere quella una indegna servitù di un coniuge all’altro» e che «i diritti tra i coniugi devono essere tutti uguali».
Quando Giovanni Paolo II è stato eletto, tali proclami erano caduti in disgrazia anche presso le donne cattoliche più conservatrici. I vecchi insegnamenti non erano più difendibili. Capovolgendo le posizioni, Giovanni Paolo II ha affermato l’incondizionata uguaglianza di donne e uomini per la prima volta nella storia della Chiesa.
Ma questo non ha risolto tutti i problemi. Non volendo in alcun modo aprire il sacerdozio a “uomini di genere femminile”, la Chiesa aveva bisogno di giustificare la sua intenzione di continuare a riservare l’ordinazione solo agli “uomini di genere maschile”. E dal momento che il divieto in relazione al sacerdozio femminile aveva sempre poggiato in maniera piuttosto decisa sull’evidente disuguaglianza delle donne rispetto agli uomini, la Chiesa si è trovata in un vicolo cieco. La complementarità sessuale, che fonda il sacerdozio esclusivamente maschile sulla differenza sessuale, piuttosto che sulla disuguaglianza sessuale, è diventata la soluzione a questo problema.
Tale ideologia divide sempre più il discepolato in base a criteri sessuali, sottolineando nelle donne l’iconica rappresentazione di Maria e negli uomini la rappresentazione di Gesù. Solo gli uomini possono stare sull’altare in persona Christi, perché Gesù Cristo era un uomo. Una “teologia del corpo” che tenta di attribuire importanza teologica e ontologica agli organi riproduttivi. Cosicché il significato di “donna” e di “uomo” può essere colto nel funzionamento eterosessuale dei loro organi genitali.
Nel suo libro del 2010, In cielo e in terra, l’allora cardinal Bergoglio ha descritto perfettamente questa linea di pensiero: «La tradizione fondata teologicamente vuole che ciò che è sacerdotale passi per l’uomo. La donna ha un’altra funzione nel cristianesimo, riflessa nella figura di Marta. È colei che accoglie, colei che contiene, la madre della comunità. La donna ha il dono della maternità, della tenerezza: se tutte queste ricchezze non si integrano, una comunità religiosa si trasforma in una società non solo maschilista, ma anche austera, dura ed erroneamente sacralizzata. Il fatto che la donna non possa esercitare il sacerdozio non significa che valga meno dell’uomo. Nella nostra concezione, in realtà, la Vergine Maria è superiore agli apostoli. Secondo un monaco del II secolo, tra i cristiani esistono tre dimensioni femminili: Maria, come madre del Signore, la Chiesa e l’Anima. La presenza femminile nella Chiesa non è stata sottolineata molto perché la tentazione del maschilismo non ha permesso di dare visibilità al ruolo che spetta alle donne nella comunità».
Giovanni Paolo II presenta nella Mulieris dignitatem una descrizione più completa di Maria come icona della femminilità. Come «il nuovo principio» della dignità e della vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna, vanificando la disobbedienza di Eva. Attraverso il suo “fiat” liberamente esercitato, Maria ha la funzione di «rappresentante e archetipo di tutto il genere umano». In questo, «rappresenta l’umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che donne». Ma «d’altra parte, l’evento di Nazareth mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo che può appartenere solo alla “donna”, Maria: l’unione tra madre e figlio». Allo stesso modo in cui Maria agisce come un modello per le donne più che per gli uomini, così Gesù serve da modello per gli uomini più che per le donne. «Proprio perché l’amore divino di Cristo è amore di Sposo», argomenta Giovanni Paolo II, «esso è il paradigma e l’esemplare di ogni amore umano, in particolare dell’amore degli uomini-maschi».
I papi identificano giustamente la gravidanza come una capacità unica delle donne, ma interpretandola in modo teologicamente discutibile. Stando a loro, ci troviamo nella strana posizione di sostenere che il semplice possesso di un utero fornisce alle donne una più intensa esperienza di unione corporale con Dio rispetto a quanto possa fare un uomo. Tuttavia, se Maria ha effettivamente raggiunto l’unione con Dio portando il Figlio di Dio nel suo corpo, e se unicamente le donne possono rimanere incinte, nessuna donna prima o dopo Maria ha mai dato vita a Dio. La gravidanza di Maria si pone come un evento storico unico e irripetibile. (...). Contrariamente a quanto sostenuto dal papa, con la sua gravidanza Maria rivela la sua differenza da tutte le altre donne almeno tanto quanto la sua somiglianza come loro rappresentante. Nessuna donna, tranne Maria, è giunta all’unione del corpo con Dio attraverso la gravidanza. Esattamente come gli uomini cattolici, le donne cattoliche vivono l’unione corporale con Dio durante l’Eucaristia.
Dobbiamo affrontare un altro problema. Giovanni Paolo II crede che Maria e Gesù rappresentino un modello di genere per una seconda ragione. La femminilità, sostiene Giovanni Paolo II, esprime una passività essenziale, mentre la mascolinità incarna l’attività. «Lo Sposo è colui che ama. La Sposa viene amata: è colei che riceve l’amore, per amare a sua volta».
Ma il “sì” di Maria alla gravidanza è davvero così diverso dal “sì” offerto da Gesù nel giardino del Getsemani? Entrambi i “fiat” sono stati una risposta di sottomissione alla volontà di Dio. Proprio come Maria ha accolto la gravidanza, così Gesù ha accettato la crocifissione. (...). Sia Maria che Gesù rispondono all’amore offerto da Dio e dicono di sì con i loro corpi. Come spose, accettano il dono del loro amante e lo restituiscono con i loro corpi. Seguendo lo schema di Giovanni Paolo II, Dio Padre ha amato sia Maria che Gesù in modo maschile e sia Maria che Gesù lo hanno riamato in modo femminile. (...).
Le donne non rappresentano né un problema da risolvere né un mistero da spiegare. Contro la volontà di papa Francesco di attribuire alle donne una categoria teologica a se stante, affermiamo l’esistenza di un solo discepolato e di una sola salvezza.