Si riaccende il dibattito sui suoi studi letterari
La rivincita di Croce il critico guerriero
di Paolo Mauri (la Repubblica, 30.10.2015)
Dopo aver dominato la cultura italiana e non solo per oltre mezzo secolo Benedetto Croce è uscito di scena in modo abbastanza drastico: secondo Natalino Sapegno, per esempio, non aveva capito fino in fondo la portata della lezione di Marx da lui liquidato troppo presto; secondo i seguaci delle nuove teorie critiche legate prima all’analisi stilistica e poi allo strutturalismo era rimasto ostinatamente aggrappato ad una concezione del linguaggio che non stava in piedi, insomma il suo pensiero sulla linguistica, scriveva Tullio De Mauro nel 1965 era «una bomba piena di esplosiva follia». Adesso però l’interesse si riaccende. Come dimostra la ripubblicazione, da parte di Adelphi, del suo Poeti e scrittori d’Italia, a cominciare dal primo volume.
Un’ampia antologia di scritti sulla nostra letteratura dalle origini al primo Novecento. Giuseppe Galasso, nel rigoroso e dettagliato saggio introduttivo a questo primo capitolo, accenna addirittura all’irrisione di cui Croce fu vittima da parte dei suoi detrattori. Ma ancora Benvenuto Terracini, che possiamo considerare un alfiere della critica stilistica ai suoi esordi in Italia, rende omaggio alla posizione altissima che Croce ha occupato nei confronti della nostra cultura e sottolinea l’incontro tra Croce, Vossler e Spitzer, cioè proprio nell’ambito che avrebbe promosso l’analisi stilistica dei testi. Fermarsi su ciò che Croce non fece, non volle fare o capire è in questa sede poco remunerativo: conviene dunque chiedersi invece che cosa il lettore di oggi può trovare nelle pagine di Croce dedicate ai secoli d’oro della nostra letteratura.
Intanto registriamo un dato di non piccolo conto: Croce è un combattente e continuamente deve battersi con chi ha un’idea della poesia che lui proprio non condivide. Per esempio Croce non ama i dantisti: secondo lui tutte le costruzioni erudite a partire dalla Commedia servono solo a umiliare la grande poesia di Dante, che tuttavia non pertiene a tutta l’opera, ma solo a quei momenti eccelsi in cui c’è vera poesia. Croce scrisse per il sesto centenario della morte di Dante, dunque nel 1921, un libro di cui l’antologia conserva alcune parti: libro che fu a sua volta accusato di distruggere l’unità del poema. Ma, alla fine, sappiamo dire una volta per tutte che cos’è la poesia? È una domanda infinita alla quale si possono dare (e sono state date nel tempo) molte risposte, ma in genere queste risposte riguardano il modo in cui si fa una poesia. Una volta Luzi, in una intervista, disse che i poeti danno voce al nostro malessere.
Croce si occupò per tutta la vita della questione e ne scrisse moltissimo, mettendo però sempre in campo quello che una volta Contini chiamò un sistema binario, l’opposizione tra poesia e non poesia. L’ago della bilancia alla fine era affidato alla sensibilità del critico.
E Croce, per esempio, nega che vi sia stata poesia in Italia dal 1375 al 1475 e non ha riguardi verso il barocco (cosa che irritò Praz) e le sue esagerazioni, come verso personaggi-poeti di gran fama e gloria come Marino o come Metastasio. E se si occupa di Ariosto deve fatalmente mettere da parte i lavori eruditissimi di Pio Rajna sulle fonti del poema e demolire l’idea di trasformare la critica letteraria in una scienza del concreto, dove il concreto è soprattutto erudizione. In sostanza la sua era una battaglia contro il positivismo di fine secolo ben saldo in cattedra e nelle riviste come il Giornale storico della letteratura italiana che usciva a Torino. Se proprio doveva costruirsi un albero genealogico, Croce non esitava a ricorrere a Vico e al più vicino De Sanctis.
Roman Jakobson andava intanto teorizzando, all’altezza degli anni Trenta, che si può fare poesia con qualsiasi materiale il che ci dice che i formalisti russi stavano portando la critica letteraria su un pianeta sconosciuto e certo molto distante da quello crociano, dove poesia si opponeva a non poesia e poesia si distingueva da letteratura. Boccaccio è per Croce un poeta e sbagliano coloro che si affannano a parlare di novelle a proposito del Decamerone , così come sbaglia chi dice che Boccaccio rispecchia la società del suo tempo perché la vera poesia è un assoluto e non ha bisogno di rispecchiare niente.
Nel 1929 Jurij Tynianov aveva scritto, invece, che i confini tra letteratura e vita sono fluidi e forse è così anche per quel che riguarda l’opera di Boccaccio, ma con Tynianov ci spostiamo di nuovo in ambito formalista e dunque in una prospettiva completamente diversa da quella crociana.
Ho sempre pensato che la critica letteraria rivolga, per così dire, domande sempre diverse alle opere che prende in esame e per questo cambia anche radicalmente, anzi: sente la necessità inderogabile di cambiare. Per questo ogni esperienza critica conosce una inevitabile crisi e così è stato anche per lo strutturalismo e altre forme recenti di analisi, come Cesare Segre ha puntualmente registrato nei suoi libri. Riattraversare l’opera di Croce ha senso se si accetta quell’esperienza in base a quello che ancora può darci e non è davvero poco. Negli anni Cinquanta, per esempio, Giacomo Debenedetti partiva dal saggio di Croce su Pascoli (che è del 1906) per illustrare il poeta ai suoi allievi di Messina.
Con Croce il dialogo non è chiuso. Umberto Eco nel riprendere i temi dell’ Estetica di Croce negli anni Novanta ne mette in luce le contraddizioni (il saggio si può ora leggere nel volume Kant e l’ornitorinco 1997) ma alla fine conclude che Croce fa giustizia delle contraddizioni perché è uno scrittore travolgente: «Il ritmo, il dosaggio di sarcasmo e riconciliata riflessione, la perfezione tornita del periodo, rendono persuasiva qualunque cosa egli pensi o dica». Non ho niente da aggiungere.