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IN MEMORIA DI ENZO PACI E DELLA SUA RISPOSTA A VICO....

IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA. La punta di un iceberg. Una nota - di Federico la Sala.

Nel 1924, Croce è a Londra: alla “Modern Humanities Research Association” di Cambridge tiene la sua prolusione (...) Il titolo e il tema è “Shaftesbury in Italia”, vale a dire sul soggiorno di Lord Shaftesbury a Napoli (...)
martedì 4 marzo 2014
Quale Cebete Tebano fece delle morali, tale noi qui diamo a vedere una Tavola delle cose Civili; la
quale serva al Leggitore per concepir l’idea di quest’Opera avanti di leggerla, e per ridurla più
facilmente a memoria, con tal’ajuto della fantasia, dopo di averla letta.
G. B. Vico, “Spiegazione della dipintura...” (1730) *
Premessa. Il 26 agosto 1780, Pietro Verri, a cui Gaetano Filangieri da Napoli ha inviato la prima parte della “Scienza della Legislazione”, così (...)

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> IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA. --- DAL VESUVIO SI VEDEVA L’ EUROPA. Interv. a G. Galasso (di A. Gnoli)

venerdì 1 luglio 2016


DAL VESUVIO SI VEDEVA L’ EUROPA

Intervista a Giuseppe Galasso

di ANTONIO GNOLI *

Tra un impegno politico e una lezione universitaria, fra un congresso scientifico e una seduta parlamentare, Giuseppe Galasso trova il tempo di parlarci di Napoli. E’ un argomento che ama. Lui parla, e l’ idea che ci facciamo è quella di essere di fronte a una grande scatola che si riempie di protagonisti, storie, colori. E’ la Napoli del Settecento che Galasso predilige. Miserie e nobiltà; ma anche qualcosa di meno ovvio. Una città che, nelle parole di Galasso, prende quota, si arricchisce di sfumature culturali, di sottigliezze storiografiche. Napoli, che sul finire del Settecento, diviene improvvisamente un laboratorio teorico politico, cioè qualcosa che potrebbe modificare il corso della storia del Mezzogiorno, se non proprio dell’ Italia intera e che invece non produrrà, se non in ritardo, certi frutti sperati. Ma i Lumi qui, a differenza che in Francia, generano altre storie, altri protagonisti: più inclini al fallimento.

Che cosa è la Napoli del diciottesimo secolo? La risposta più fedele si può ricavare dai viaggiatori d’ epoca. Vedono cose sorprendenti nel bene e nel male. Sono impressionati dal numero spropositato degli abitanti, colpiti dalla loro vivacità, addolorati dalla miseria, dall’ accattonaggio, dalle forme di degradazione sociale. E’ il lato eterno di Napoli. Però è solo un lato. Perché qui si svolge anche una vita culturale straordinaria.

E’ la città, ricorda Galasso, dalla quale Ferdinando Galiani entra in corrispondenza con mezza Europa. E’ la città nella quale si pubblicano libri che vengono recensiti sulle maggiori riviste europee. E’ un centro delle arti, specialmente della musica, che con l’ opera buffa segna uno dei vertici del tempo. E’ la città nella quale Goethe va a far visita a Filangieri...

Da Gaetano Filangieri, Galasso ha preso una celebre espressione La filosofia in soccorso de’ governi e l’ ha messa come titolo a una sua raccolta di saggi che la casa editrice Guida ha pubblicato in questi giorni. Un libro ricco di intuizioni e di straripante erudizione, profondo ed esteso.

Professor Galasso torniamo a questa Napoli settecentesca. Lei ha parlato di vivacità della vita culturale. Era così anche la vita sociale?

Quest’ ultima è meno ricca e interessante di quella di altre città. C’ è ancora una certa ristrettezza provinciale nella vita mondana e non si può dire che i salotti di Napoli abbiano il tono di quelli di Parigi. E neppure che l’ intensità delle relazioni sociali, della vita mondana sia paragonabile a quella, non dico di Parigi, ma per esempio di Venezia.

A Parigi ci sono donne che svolgono un ruolo preminente nella vita culturale e sociale. E a Napoli?

Per una situazione di complessiva arretratezza del paese, la donna intellettuale del Settecento, protagonista in Francia, da noi non esiste. E’ completamente tagliata fuori dalla cultura.

In che cosa si manifesta la cultura settecentesca napoletana?

Innanzitutto in una intensa riflessione sulla vita civile. Essa riguarda tutto l’ ambiente culturale della città. Appartiene ai pensatori che possono sembrare più teorici, mettiamo un Vico. Ma coinvolge anche studiosi che appaiono concentrati su questioni ideologiche, come Giannone a proposito dei rapporti fra Stato e Chiesa. Si estende, in pari tempo, a coloro che appaiono più propensi alla discussione di problemi concreti, di riforme, di trasformazione della realtà meridionale, come Genovesi, Galanti o Galiani. Suggestiona, infine, pensatori che hanno un’ impostazione più sistematica, come Filangieri, e persino utopisti come Vincenzio Russo.

Questa attenzione alla vita civile, suppongo fosse il risultato dell’ influenza determinata da alcuni grandi scrittori europei.

Le influenze ci sono. C’ è, in parte almeno, la partecipazione a una caratteristica generale della cultura europea di questo periodo che nelle sue forme più varie, secondo le fasi e i paesi nutre lo stesso interesse. Non ci dimentichiamo che il Seicento e il Settecento sono i secoli della fondazione teorica del liberalismo e della democrazia moderna. Sono i secoli di Locke e di Montesquieu, di Rousseau e dei grandi utopisti. Ma poi c’ è anche l’ esperienza storica specificamente napoletana, nella quale la problematica dello Stato, rapporti tra Stato e società, tra Stato e cultura prendono gradatamente quota.

Lei insomma sostiene che l’ attenzione per la vita civile nasce anche dalla particolare condizione storica di Napoli.

Nasce dall’ esperienza in uno Stato che nominalmente era un feudo della Chiesa e in cui la Chiesa aveva una posizione privilegiata. Ne derivavano problemi di rapporto fra Stato e Chiesa di un’ intensità tale che è difficile trovarne di uguali in altri paesi cattolici d’ Europa. Era un paese in cui il feudalesimo aveva una incidenza nella vita sociale molto forte.

Sulla questione del feudalesimo non c’ è molto accordo fra voi storici. Alcuni continuano ad applicare al Mezzogiorno il criterio secondo il quale il feudalesimo nel diciottesimo secolo era solo un elenco di nomi e di titoli e in realtà il baronaggio si identificava con un ceto più o meno borghese.

Io credo che questo giudizio storiografico, che viene applicato anche ad altri paesi europei, non sia corretto. Soprattutto non è corretto per Napoli, dove invece il feudalesimo aveva una struttura forte e reale, ed esercitava nella vita politica e sociale un peso di primaria importanza. Non desta quindi stupore che il problema feudale fosse tra le maggiori preoccupazioni del pensiero napoletano.

Come si esercitava, in concreto, questo potere feudale?

Con il baronaggio. Attraverso di esso la feudalità godeva ancora di ampi poteri giurisdizionali ed esercitava poteri giudiziari che mettevano praticamente la popolazione alla mercé dei feudi. Dal punto di vista economico, poi, il peso della rendita feudale sulle condizioni di vita delle classi contadine si manteneva altissimo. Dal punto di vista giuridico si verifica anche a Napoli ciò che è stato constatato ad esempio per la Francia: l’ accesso alla proprietà è largamente bloccato dalla struttura feudale. Questo spiega, tra parentesi, sia tanti atteggiamenti del mondo rurale francese nella rivoluzione del 1789, che quelli delle classi civili, diciamo così, del Mezzogiorno d’ Italia.

E così comincia a farsi strada il sentimento che dal punto di vista economico sia diventato il Mezzogiorno la periferia d’ Europa...

A metà del Settecento Genovesi dirà che se gli inglesi non avessero portato nel Mezzogiorno gli aghi, non si sarebbe potuto neppure cucire. E lo stesso Genovesi farà un’ altra riflessione sullo stato di estrema miseria e di arretratezza delle campagne napoletane. Lui e altri scrittori parleranno degli ottentotti, selvaggi allo stato puro, che vivevano alle porte delle ville borghesi e nobiliari. C’ è quindi effettivamente una profonda coscienza dell’ arretratezza del Mezzogiorno rispetto all’ Europa. Miseria, arretratezza, oppressione. Ecco i tre termini del problema.

Questa situazione di arretratezza si può legare al discorso meridionalistico che si è fatto dopo l’ Unità d’ Italia?

No. Il termine di confronto meridionale, in quel periodo, è l’ Europa; non è il dualismo italiano.

Nel suo libro, La filosofia in soccorso de’ governi lei parla, riferendosi a Napoli, di una sorta di partito degli intellettuali. E’ un partito influente?

L’ espressione è molto approssimativa. L’ ho usata per dire semplicemente che gli intellettuali costituiscono, in questo periodo, una forza politica e sociale come non erano mai stati prima. Adesso essi fanno opinione e determinano l’ orientamento, prima della corte, poi del paese.

Quindi lavorano, almeno in una prima fase, per la monarchia. Qual è in genere la loro estrazione?

Molto varia. C’ è un aristocratico come Filangieri. C’ è Genovesi, figlio di una modesta famiglia di un paese del salernitano. C’è una persona agiata e di civilissima condizione, come Galiani, e c’ è un avvocato di provincia inurbatosi a Napoli, come Giannone.

Questo fronte favorevole alla monarchia, diciamo meglio al riformismo borbonico, viene frantumato dalla rivoluzione francese. Si rompe il rapporto fra la corte e gli intellettuali. Questi sostengono l’ esperienza rivoluzionaria degli anni successivi all’ 89. Ma è un’ esperienza che finisce malissimo. Come mai? Come mai la rivoluzione giacobina a Napoli fallì?

Finì male perché gli intellettuali si ritrovarono isolati. E qui nasce un grosso problema: quello appunto del rapporto fra gli intellettuali e il paese, che è un po’ il problema anche del rapporto fra Napoli e le province del Regno. Napoli non riesce ad esercitare, rispetto alle province del Regno, la funzione che Parigi esercita rispetto al resto della Francia durante l’ esperienza rivoluzionaria. E così gli intellettuali napoletani non trovano quelle espressioni politiche che in Francia si concretano nella straordinaria ampiezza del movimento rivoluzionario, nel carattere diciamo pure definitivo dell’ esperienza rivoluzionaria per tanti aspetti, nella storia francese ed europea.

Questo confronto fra Parigi e Napoli fa pensare anche a un’ altra cosa. Al fatto che i nostri Lumi non produssero pensatori del calibro di quelli francesi...

Ma i Voltaire e i Rousseau li ha prodotti solo la Francia. Non li ha prodotti nemmeno Firenze, neppure Lipsia o Amsterdam. Io non imposterei il problema così: Francia e Inghilterra soprattutto erano allora i centri principali, i centri-guida della vita culturale europea. Ma non solo della vita culturale, bensì anche della vita politica, della vita diplomatica. Facevano scuola da tutti i punti di vista. Rispetto al centro della vita europea, Napoli era un paese periferico. Vale piuttosto la pena di notare che questa periferia è riuscita a contare anche presso il centro, perché, ad esempio, Filangieri ebbe una fama europea credibile, figurando come uno degli esponenti più rappresentativi del movimento intellettuale del suo tempo, grazie alla sua appartenenza alla massoneria. I libri di Genovesi furono tradotti in molti paesi europei. Lo stesso per i libri di Giannone.

Lei accenna all’ importanza della massoneria. Questo consente di vedere l’ illuminismo non più come un blocco razionalistico compatto, ma come qualcosa attraversato, al suo interno, da conflitti, crisi...

Il razionalismo illuministico, che è certamente un valore centrale nell’ orientamento intellettualistico del secolo, è ricco di motivi, un mare in cui convergono tendenze diverse. La massoneria appartiene agli altri Lumi, come ha scritto qualcuno. Gli altri Lumi che non sono quelli della ragione convenzionalmente definita come astratto e trionfale procedere matematico e deduttivo. Costituiscono invece un illuminismo pregno di tensione etica, di tensione psicologica, di ansia religiosa e anche di qualche forma di vitalità. Non a caso quel secolo, il Settecento, fu definito anche un secolo di avventurieri.

La Napoli del Settecento, la Napoli illuminista, è anche superstiziosa?

La superstizione, l’ irrazionale, il vitalismo in forme diverse sono presenti in tutta l’ Europa. Sono aspetti che si riscontrano non solo a livello di devozione popolare, ma anche nello sforzo che la cultura del tempo fa di razionalizzare, di capire queste forme di superstizione. Il Settecento per esempio, vede gli studi sul tarantolismo che Ernesto De Martino poi ricostruirà in un libro di grandissimo interesse. Nello stesso secolo si assiste a un mutamento della concezione della iettatura che passa da fenomeno magico, nella interpretazione degli scrittori di quel tempo, a fenomeno prodotto oggettivamente da forze naturali.

Si può dire che questi temi siano più forti a Napoli che altrove?

Sì. Per ragioni di arretratezza, a Napoli e nel Mezzogiorno le credenze assumeranno forme più spettacolari, più colorite, più intense.

* Fonte: la Repubblica, Archivio, 27 maggio 1989


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