Che errore aver dimenticato Benedetto Croce!
di Luciano Lanna (Il Dubbio, 07.01.2017)
Si è appena concluso il 150enario della nascita di Benedetto Croce, e bisogna dire che anche in questa occasione davvero pochi si sono interrogati sulle ragioni dell’oblio che ha avvolto in Italia l’opera e il profilo del grande filosofo, storico e intellettuale.
Tra chi lo ha fatto, si segnala l’impegno di Corrado Ocone, filosofo e saggista di ultima generazione che nella circostanza dell’anniversario ha mandato in stampa ben due lavori sul tema specifico: Attualità di Benedetto Croce ( Castelvecchi, pp. 57, euro 11,50) e Il liberalismo del Novecento ( Rubbettino, pp. 267, euro18,00), di cui gran parte è proprio dedicata alla riflessione crociana. Due lavori esplicitamente “polemici”, nel senso che intendono contestare e criticare le tesi storiografiche e teoriche vigenti che oggettivamente sono la causa del silenzio e della marginalizzazione della fortuna teorica, e non solo, di Croce. In particolare, Ocone confuta sia il pregiudizio sulla presunta “inautenticità” del liberalismo crociano sia quello sull’irrilevanza dell’ultima fase dell’attività intellettuale del pensatore napoletano. Due pregiudizi, viene sottolineato, che stanno sostanzialmente all’origine del “paradosso Croce”, quello per cui il pensatore che - con Giovanni Gentile - aveva innovato la filosofia italiana ai primi del Novecento, che aveva introdotto i filoni culturali europei d’avanguardia nel nostro dibattito teorico, che aveva fatto conoscere da noi Marx e Sorel, che era stato il promotore del Manifesto degli intellettuali antifascisti
in pieno regime, che era stato senatore e ministro della Pubblica Istruzione con Giolitti, che dopo la caduta del fascismo fu due volte ministro, che divenne presidente del Partito liberale, che fu uno dei cosiddetti Padri costituenti e che rifiutò sia di diventare il primo presidente della Repubblica italiana che di venire nominato senatore a vita, venne - strana eterogenesi dei fini. sia da subito inspiegabilmente escluso dal circuito egemonico- culturale della Prima Repubblica. «Nel secondo dopoguerra Croce è stato considerato, dalla cultura dominante in Italia, per lo più un pensatore “retrivo” e “provinciale”. Ma era - sottolinea Ocone - un’evidente distorsione dei fatti, dettata sostanzialmente da motivi politici: dal predominio, nel nostro Paese, di un blocco di potere culturale, per una parte marxista ( seppure spesso di diversa tipologia) e per una parte di ispirazione azionista...».
Proprio mentre l’ultimo Croce si collocava in una eccezionale sintonia con il meglio della cultura libe- rale e antitotalitaria internazionale - da Orwell a Koestler, da Camus alla Arendt, da von Hayek e Popper, da Talmon a Huxley - in Italia gli ultimi suoi anni di attività intellettuale, quelli che vanno dal 1942 al 1952, vengono considerati solo la produzione di «un vecchio e stanco pensatore, non più capace di mettersi in sintonia con il suo tempo, tutto volto a un passato che non ci sarà più». Spiega Ocone: «Il nuovo blocco di potere culturale, in parte sollecitato dagli interventi e dalla politica di Palmiro Togliatti, quello che allora si sedimentò e che avrebbe governato per tanti anni editoria, informazione, accademia», fu all’origine della censura nei confronti di Croce. Gli stessi allievi del filosofo napoletano passarono tout court nelle file dell’azionismo quando non del partito comunista. E Croce finì come un isolato, precisa ancora Ocone, «non perché fermo ai vecchi tempi, ma perché rispetto ai presunti innovatori era più moderno e vedeva più lontano». Non a caso, gli ultimi scritti crociani si rivelano, ancora oggi, di un’attualità straordinaria, individuando tutti la minaccia del totalitarismo proprio mentre l’anziano intellettuale mette in guardia dagli inganni del liberalsocialismo e dell’azionismo. Così, nel 1947, Croce pubblica il saggio L’Anticristo che è in noi, in cui, tra l’altro identifica nel ragionare per astrazioni intellettuali, per ideologia, uno dei tratti distintivi del totalitarismo. In un saggio del 1943 - Una parola desueta: l’amor di patria - sottolinea la radice liberale del patriottismo opponendola alle patologie del nazionalismo e della statolatria. E nel 1949, sul settimanale “Il Mondo”, pubblica La città del Dio ateo, un saggio tutto incentrato sull’interpretazione del romanzo antitotalitario 1984 di George Orwell, sottolineando che lo Stato totalitario andasse «studiato in sé, fuori di ogni equivoco di fini umanitari sia di politica internazionale».
A questo pregiudizio - quello di un Croce fuori del suo tempo, e quindi da mettere teoricamente da parte rispetto agli sviluppi dell’attualità politica post- bellica - Ocone aggiunge l’altro, quello che lo escluderebbe dal circuito dei veri pensatori liberali. È infatti ancora opinione diffusa tra gli studiosi che quello di Benedetto Croce sia stato non solo un liberalismo atipico e inautentico ma che esso sia maturato molto tardi, dopo i tormenti della Grande Guerra, quasi a sconfessione di un pensiero precedente e anzi fortemente ispirato agli autori del realismo politico, da Machiavelli a Marx, da Sorel a Treischke. A parte che altri grandi pensatori liberali novecenteschi, su tutti Raymond Aron e Isaiah Berlin, sono partiti dallo stesso background teorico, resta il fatto che è proprio su una considerazione non illuministica e astratta del reale che nasce il più profondo e proficuo liberalismo del Novecento. Due sono, infatti, secondo Ocone, le coordinate di una vera posizione teorica autenticamente liberale: la critica al razionalismo astratto, all’intellettualismo ideologico, all’illuminismo omologante, al positivismo; la messa in scacco di ogni “filosofia della storia”, di ogni pretesa di conoscere le leggi della dialettica storica e di poterne prevedere il decorso e gli sviluppi. E da questo punto di vista - leggiamo in Il liberalismo del Novecento - cinque, e solo cinque, sono i veri teorici novecenteschi del liberalismo. Non Bertrand Russell, non John Rawls, non Norberto Bobbio ma, invece, Karl R. Popper, Michael Oakeshott, Friedrich A. von Hayek, Isaiah Berlin e, primo tra tutti, proprio Benedetto Croce. «Primo - sottolinea Ocone - per motivi cronologici, ma anche sostanziali, cioè relativi alle sue idee».
Machiavelli e Vico sono, oltretutto, le matrici del liberalismo di Croce. La libertà, secondo il filosofo, infatti non nasce da una precettistica astratta ma si lega alla Storia e al realismo politico, a una visione complessa e non riducibile dell’essere umano, al rifiuto di qualsiasi schematizzazione ideologica a una direzione. Sulla scorta di Machiavelli, nessun ordine ideologico racchiude la realtà, il conflitto è ineliminabile dalla vita, esso è il senso dei “distinti”, del pluralismo crociano. La vita non ama essere imbrigliata, vive e prospera nel conflitto, nell’antagonismo, nella diversità.
Si spiega, da questo punto di vista, anche la connessione tra liberalismo e patriottismo, seguendo la lezione risorgimentale, che significava - secondo Croce - «opporre il principio di individualità alle tendenze universalizzanti, omogeneizzanti, cosmopolitiche, razionali in senso astratto che avevano dominato nel Settecento in Europa. Cosa è infatti la Nazione se non un’individualità storica, un gruppo di individui che ha elementi in comune forgiatisi attraverso il tempo in un modo specifico e determinato diverso da quello di altri gruppi?». Già il suo sistema filosofico la “filosofia dello spirito” elaborata nel primo decennio del Nocevento, era soprattutto un’affermazione del principio di individualità: nell’arte come nella lingua, nella logica come in economia o nella politica: «Non è perciò un caso che Croce abbia aspramente criticato l’Illuminismo di cui vedeva un’appendice nel positivismo, affermando le ragioni della creatività contro quelle della regola, della libertà contro ogni determinismo, della Vita contro la Ragione» . Ecco perché, ad avviso di Ocone, riprendere il filo interrotto del pensiero crociano può significare, oggi, la ripresa di una tradizione italiana di pensiero interrottasi con il predominio della cultura ideologica degli ultimi decenni: «Significa - allora, e in sintesi - affermare un concetto di razionalità che non coincide con quello del razionalismo, con i vecchi e nuovi positivismi, ma nemmeno con il prospettivismo, l’irenismo e l’indifferentismo etico del cosiddetto postmoderno; significa credere sì nel valore della verità, ma di una verità che è sempre contestuale, storica, concreta, provvisoria, imperfetta; significa credere nei principi di un liberalismo fondato sull’autonomia morale dei singoli e sulla libera competizione fra le idee e i diversi modi di vedere e sentire le cose».