L’incidente sulla Corato-Andria e le politiche del trasporto ferroviario nel nostro Paese
Morire perché si è preso un treno
di Gianfranco Viesti (Il Mulino, 14.07.2016) *
Ogni tragedia ha la sua dose di imponderabilità, di fatalità, di specifica responsabilità o di errore umano. Ma l’azione collettiva ha, fra i suoi scopi più importanti, proprio il compito di ridurre il peso di questi fattori nelle vite dei cittadini; di consentirci di fruire in sicurezza di beni e servizi pubblici. Un Paese avanzato lo è anche perchè riesce a garantire vita e salute dei suoi cittadini, con norme, decisioni, investimenti.
Questo non è stato evidentemente possibile per i poveri operatori e viaggiatori dei treni sulla linea Corato-Andria. La loro terribile sorte è stata causata da circostanze e responsabilità specifiche che toccherà stabilire a chi è a ciò preposto. Ma, in senso più generale, è collegata all’insufficiente capacità collettiva di garantire loro migliore servizio, maggiore sicurezza. A scelte e a condizioni che hanno interessato le politiche del trasporto ferroviario nel nostro Paese.
Tre elementi sembrano di particolare rilievo.
Da tempo, l’Italia ha concentrato i suoi investimenti ferroviari sulla rete ad alta velocità. Investimenti consistenti in un servizio molto importante, che riduce fortemente i tempi di percorrenza, sposta viaggiatori dall’aereo al treno, garantisce un ricco mercato per la società pubblica e il concorrente privato che gestiscono il servizio. Molto bene. Ma molto male che ciò sia avvenuto a danno dei trasporti regionali e pendolari, che interessano ogni giorno cinque milioni e mezzo di italiani, e le cui condizioni sono assai misere, in carenza di investimenti e attenzione per i servizi. Un giornale come «Il Mattino», ad esempio, da tempo documenta il fortissimo peggioramento del trasporto pubblico locale campano. Purtroppo non è un caso unico: l’eccellente rapporto Pendolaria, realizzato da diversi anni da Legambiente e disponibile sul web, lo documenta con grande precisione e ricchezza di dati; mostrando, uno fra mille esempi, che l’offerta sulla Circumvesuviana si è ridotta del 30%. In misura rilevante vi è carenza di miglioramenti proprio sulla qualità e la sicurezza della circolazione. Nel caso di ieri colpisce la circostanza che in un mondo nel quale sensoristica e connettività hanno fatto passi da gigante, abbattendo il loro costi, e si sperimentano da anni automobili in grado di circolare senza guidatore, vi siano linee ferroviarie nelle quali non vi sono dispositivi in grado di verificare se i binari da percorrere sono liberi e tali da impedire automaticamente, magari con un semplice semaforo, le possibilità di questi assurdi incidenti.
In secondo luogo, infrastrutture e servizi ferroviari sono nettamente peggiori nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. Ad esempio, la percentuale di linee a doppio binario rispetto alla lunghezza della rete totale, è ancora oggi, stando agli indicatori Istat, del 24% al Sud, la metà del Centro Nord. Questo è frutto di divari storici mai colmati; ma anche di una distribuzione degli investimenti assai sperequata da molti anni a questa parte: nel Sud dovrebbe esserci uno sforzo aggiuntivo per compensare progressivamente dotazioni e servizi assai inferiori rispetto al Centro Nord. Non è assolutamente così. Ad esempio il gruppo Ferrovie dello Stato (che non gestisce la Corato-Andria, ma a cui fa capo la stragrande maggioranza degli investimenti ferroviari) ha investito nel triennio 2012-14 al Sud 701 milioni l’anno, che rappresentano solo il 21% del totale nazionale. Il quadro è in netto peggioramento. Gli investimenti di Fs al Sud sono scesi rispetto al triennio precedente (2009-11) del 34% (erano in media 1062 milioni l’anno), con una contrazione assai più forte della media nazionale (-20%). Sulle ferrovie al Sud si investe pochissimo; interi tratti della rete sono in abbandono.
Infine, la circostanza più negativa di tutte: il raddoppio di quella linea ferroviaria era finanziato, e le procedure in corso, ma con tempi lunghissimi. Non un caso eccezionale: la maledizione italiana per cui la realizzazione delle opere pubbliche ha tempi lunghissimi. Stando al pregevole monitoraggio che realizza una struttura governativa (Uver), per portare a termine una grande opera pubblica (più di 100 milioni), ci vogliono 14 anni e mezzo: un dato in aumento rispetto al passato e solo leggermente superiore al Sud rispetto alla media nazionale. La filiera del ritardo, acquisito il finanziamento, comprende tutte le fasi (progettazioni, affidamenti, esecuzioni, collaudi), ciascuna delle quali contribuisce ai ritardi.
Questi tre elementi (disattenzione al trasporto locale/pendolare; limitatissimi investimenti ferroviari al Sud; tempi lunghissimi per realizzare le opere pubbliche) disegnano il contesto di un Paese nel quale, purtroppo, tragedie del genere possono accadere. Indicano con chiarezza le strade da seguire per «cambiare verso», se si ha la volontà di farlo. Per diventare un Paese (tutto, da Nord a Sud), nel quale non si possa morire solo perchè si è preso un treno.
Questo articolo è stato pubblicato su «Il Mattino» del 13 luglio 2016