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PAURA DELLA LIBERTA’: ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA....

L’INGENS SYLVA E LA PAURA DELLA LIBERTA’: CARLO LEVI, NELL’ORIZZONTE DI VICO, BENJAMIN, ED ENZO PACI. Una nota - di Federico La Sala

(...) rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che "romanzo"!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”
mercoledì 23 settembre 2015
[...] Noi oggi capiremmo ben poco di quelle pagine [cioè, di Paura della libertà] se non le collocassimo in un contesto complesso. Quando Levi stende le sue note in una sorta di finis terrae che potrebbe accomunarlo alla condizione di Benjamin, la scena del mondo è estremamente confusa. [...]
[...] mi parve che il libro contenesse già tutto quello che intendevo dire, e che non occorresse più squadernarlo esplicitamente. C’era una teoria del nazismo, anche se il nazismo non è una sola (...)

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> L’INGENS SYLVA E LA PAURA DELLA LIBERTA’: CARLO LEVI --- Numanzia non può morire! (di Nicola Fanizza).

venerdì 31 ottobre 2014

Numanzia non può morire!

di Nicola Fanizza *

La decisione del governo turco di chiudere la frontiera con la Siria mi ha fatto andare con la mente alla rivolta che nel 1863/64 investì il «Regno del Congresso» - così era chiamata quella parte della Polonia che nel 1815 si era deciso di assegnare ad Alessandro I. Nel corso della repressione, la polizia zarista non poteva, però, inseguire i ribelli polacchi al di là dei confini del regno. E pertanto lo zar Alessandro II stabilì col governo prussiano, da poco diretto da Bismarck, un patto che prevedeva un’azione comune contro i Polacchi nelle zone di frontiera.

L’Impero zarista, la Prussia e l’Impero asburgico erano contrarî alla ricostruzione della Polonia come Stato indipendente. Da qui la determinazione del Cancelliere di ferro di consegnare ai Russi i patrioti polacchi, che si erano rifugiati in Prussia.

I carri armati turchi schierati, recentemente, sulla frontiera siriaca rivelano una tacita alleanza fra il governo di Erdogan e i combattenti dell’Isis. Gli interessi della Siria, della Turchia, dei combattenti dell’Isis, dell’Iran e, persino, dell’Armenia sembrano essere sul campo coestensivi: ognuno, a suo modo, si attiva per impedire la creazione di uno Stato curdo indipendente.

Le due situazioni di cui sopra, pur essendo per molti versi analoghe, presentano, tuttavia, anche sensibili differenze.

Lo sdegno provocato dalla repressione della rivoluzione polacca suscitò nel 1864 in Francia e in Inghilterra un movimento di solidarietà negli ambienti democratici e operai, e proprio da esso si sviluppò l’Alleanza internazionale dei lavoratori, nota come Prima internazionale.

Viceversa oggi, a 150 anni dalla sua nascita, i sedicenti progressisti, con la loro falsa solidarietà nei confronti del popolo curdo- come si fa a dimenticare la “consegna indiretta” di Ocalan alla Turchia!- si apprestano a celebrare l’ennesimo funerale dell’Internazionale socialista. Verrebbe da dire con Ernst Kantorowitz- autore del saggio del 1957 I due corpi del re - l’Internazionale è morta. Viva l’Internazionale!

Questa figura di sapore hegeliano diventa intelligibile se si tiene presente la singolare metafora veicolata da Edmund Plowden, giurista elisabettiano, il quale fa coesistere in un solo essere- il sovrano- due realtà distinte, una concreta ( l’individuo soggetto alla morte) e una figurata ( il Re perpetuo). I re, infatti, non possono mai morire, in quanto il re è ciò che nega la morte e la loro messa a morte si configura come la più alta negazione della sovranità!

L’immagine del doppio corpo del re consente di riannodare nuovi fili ermeneutici intorno alle dinamiche che investono le aggregazioni sociali. Proprio perché la sovranità comprende due aspetti opposti eppure necessari che sono l’Ordine e la Potenza, il paradigma teologico-politico dei «due corpi» ci dice che le organizzazioni politiche, da sempre incentrate sull’ordine, periscono e le istanze creatrici, che rimandano, invece, alla potenza, sono eterne.

Non è inutile rilevare che mentre la Prima internazionale e l’Internazionale situazionista si sono configurate come associazioni di movimenti, le altre Internazionali - dalla II, III, IV fino a quella socialista -, sono state, invece, alleanze di partiti.

E non è una differenza da poco, poiché i partiti e i movimenti svolgono una funzione opposta e complementare: sono coestensivi nel senso che nei partiti prevale il rito (la ripetizione che rimanda all’ordine), e nei movimenti prevale il gioco (il nuovo che rimanda alla potenza del divenire). I movimenti hanno la straordinaria capacità di promuovere lo sviluppo dello spazio sociale, nonché nuove pratiche di liberazione. D’altra parte, i partiti, dopo la fase istituente, si trasformano comunque in strumenti di conservazione delle burocrazie e degli apparati.

L’effervescenza sociale e la creatività stentano a sopravvivere, specialmente, nel cono d’ombra dei partiti egemonizzati dagli epigoni di Marx. Questi ultimi hanno sempre manifestato la loro feroce avversione, la loro diffidenza nei confronti delle capacità mitopoietiche ed, in modo coestensivo, del mito. Tutto ciò ha impedito l’affermarsi di una ragione mitica, ossia di una ragione capace di raccontare, anche, la storia sacra degli oppressi. Una storia che, recuperando la valenza conoscitiva dell’esperienza, consente di rivendicare un senso nuovo e più largo di umanità. E qui non ci riferiamo all’esperienza quantificata che si dà nei numeri, nelle formule e negli strumenti e di cui non si può raccontare la storia, ma all’esperienza tradizionale, quella contraddittoria che si dà nei detti e nei proverbi, quella che comporta, comunque, il patema.

La sinistra marxista si é sempre attivata per bloccare gli ingranaggi della macchina mitologica, poiché ha sempre avuto paura dell’ombra: ossia è atterrita dalla paura di contaminarsi con l’irrazionale.

Non è un caso che, in riferimento alla ricorrenza rituale dell’Internazionale, non esiste un mito fondante. Quello dell’Internazionale è, per l’appunto, un rito senza mito!

Di tale mancanza se ne accorse, per primo nel 1937, Georges Bataille, un intellettuale irregolare che ha sempre pensato nel cono d’ombra della razionalità utilitaristica. Quest’ultimo, recuperando le sue capacità mitopoietiche, individuò nel sacrificio di Numanzia il mito fondante di una nuova comunità di individui sovrani. La leggenda racconta che la città iberica fu posta sotto assedio, a partire dal 134 a. C., dalle legioni romane guidate dal fascista Scipione l’Africano. Dopo sedici mesi d’assedio, i Numantini, quantunque sofferenti per la fame, indeboliti e decimati dalle malattie, rifiutarono di arrendersi e decisero di morire pur di non rinunciare alla loro sovranità. Tentarono, pertanto, un’ultima disperata sortita e i pochi superstiti - uomini e donne! -, dopo aver incendiato le loro case e distrutto le armi e i loro beni, si lanciarono fra le fiamme.

Mentre Bataille racconta un solo evento della storia sacra degli oppressi, Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli, parla delle innumerevoli sofferenze che i contadini hanno subito nel corso del tempo. Questo romanzo-saggio-memoriale, che egli scrisse a Firenze nel 1943/44, racconta la storia mitica, la storia sacra del mondo contadino come una storia biblica. E, per di più, sono gli stessi contadini a raccontare la loro storia recente e, insieme lontana, attraverso le rappresentazione teatrali.

Si tratta di un testo che può diventare intelligibile solo se tiene presente nel debito conto il saggio Paura della libertà, che egli aveva scritto, mentre era in esilio in Francia, nella tarda estate del 1939.

Sin dal suo arrivo in Francia, meta prediletta dei fuoriusciti antifascisti, Levi e si era immerso nel contesto tanto caotico quanto stimolante della Parigi della seconda metà degli anni Trenta, quella del fronte Popolare e delle riviste eretiche. La sua enorme curiosità lo porta a frequentare le mitiche conferenze del Collegio di Sociologia, che si tenevano ogni due settimane in una libreria del Quartiere Latino. Le comunicazioni che maggiormente lo interessano sono quelle di Roger Caillois, il quale si richiamava per sommi capi alla teoria del Sacro di Rudolf Otto. Il giovane studioso francese definiva il Sacro come ciò che atterrisce e, insieme, affascina e, per di più, rilevava la presenza del numinoso nella storia.

Per Levi la numinosità, intesa come valore sacro della liberta, viene negata dal fascismo. Da qui l’esigenza di individuare, in Paura della Libertà, le dinamiche sociali e psicologiche che generano il totalitarismo.

Allo stesso modo di Simone Weil, Levi riconduce l’oppressione totalitaria all’idolatria. Quella del totalitarismo gli appare come la linea dominante della storia occidentale. E se è vero che le forme assunte nel secolo scorso dallo stato totalitario erano del tutto nuove per quel che riguarda gli strumenti e le intenzioni, è altresì certo che a cambiare, per Carlo Levi, non è la logica complessiva che ha animato i vecchi e i nuovi totalitarismi: la creazione di una realtà artificiale in cui riconoscersi e, in particolare, la deificazione dello Stato; il paternalismo che inchioda gli individui in uno stato di minorità; le distruzioni di massa; l’annullamento dell’individuo; e, infine, l’abbassamento della facoltà dell’attenzione che produce l’incapacità di discernere i confini che separano il bene dal male.

Sulla scorta di tale riflessione, cinque anni dopo, Carlo Levi guarderà con nuove lenti alla sua permanenza nel 1935/36, come confinato, in Basilicata. Ritiene, infatti, che l’immaginario della civiltà contadina sia nella sua essenza mitico. Parla di un mondo magico, di un mondo in cui non c’era spazio per la razionalità. E tuttavia, in quel mondo in cui gli uomini dovevano fare continuamente i conti con l’ostilità senza volto delle forze naturali, le relazioni fra gli individui stazionavano nell’atmosfera del dono.

La «fraternità passiva» di cui parla Carlo Levi e l’«amore della propria somiglianza» evocato da Rocco Scotellaro consentivano ai contadini di ospitare persino il forestiero o l’«esiliato» di cui non conoscevano il nome. I contadini avevano la straordinaria capacità di contrapporre alla tendenza umana alla volgarità il senso sacro della politica: ossia rivendicavano la libertà come autonomia, come rispetto degli altri e come rifiuto della violenza. Il fascismo veniva da loro inteso come statolatria, nonché come deificazione della patria.

La patria dei contadini, infatti, non è il luogo in cui si è nati, ma lo spazio sociale in cui si è tutti sovrani. La Basilicata di Levi ci appare, pertanto, come una comunità di elezione e, insieme, come la terra del ricordo, la terra che ti difende dalla minaccia di restare apolide. Da qui l’esigenza di custodire un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che i poeti i riplasmano in voce universale.

Nel concludere queste brevi note, ripenso ai Curdi e all’assedio di Kobane, dove - uomini e donne! - combattono per non rinunciare alla loro sovranità. Numanzia non può morire!

* NAZIONE INDIANA, 31 ottobre 2014


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