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FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..

FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli - di Federico La Sala

IL PUNTO DI SVOLTA. Proseguendo nel suo «viaggio attraverso la psicanalisi, e oltre», Fachinelli è giunto finalmente dinanzi al mare. «Sulla spiaggia», questo è il titolo del primo e più originale scritto de "La mente estatica".
domenica 22 aprile 2018
[...] Con Freud, oltre - in una nuova direzione e in modo nuovo: contro le sfingi e contro l’imbalsamazione degli uomini come delle teorie.[...]
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LÀ DELL’EDIPO
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
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IL PUNTO DI SVOLTA. L’INDICAZIONE DI FACHINELLI E LA SUA IMPORTANZA
di Federico La Sala
[da: La mente (...)

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> FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". - Domande scientifiche e pulsione mistica. Wittgenstein, Freud e Lacan al di là del principio di piacere (di Stefano Oliva).

mercoledì 18 aprile 2018

Domande scientifiche e pulsione mistica.

Wittgenstein, Freud e Lacan al di là del principio di piacere

di Stefano Oliva[1] («Studi di estetica», 2017, 1, pp. 97-110)

1. Insoddisfazione epistemica

Una lunga tradizione, che va da Aristotele a Martin Heidegger, attribuisce alla scoperta scientifica una connotazione emotiva positiva, pur declinata secondo uno spettro di possibilità ampio. Nelle pagine iniziali della Metafisica la scaturigine della filosofia, intesa come scienza dei principi, viene rintracciata nel sentimento di meraviglia provato dagli uomini di fronte alla complessità della realtà. Meraviglia e non necessità pratica, dice Aristotele, dal momento che “quando ormai possedevano quasi tutte le cose necessarie e quelle occorrenti per un’esistenza confortevole e piacevole, gli uomini cominciarono a esercitare questo tipo di intelligenza” (Met. 982b, 20-25).
-  Nella Critica del giudizio, invece, Kant parla di uno specifico tipo di piacere, derivante dall’accordo tra la natura e il nostro bisogno di trovare principi universali in base ai quali comprendere i fenomeni. In particolare, “la scoperta della combinabilità di due o parecchie leggi empiriche eterogenee della natura sotto uno stesso principio è fonte di un notevolissimo piacere: spesso anzi di un’ammirazione, la quale non cessa quando anche l’oggetto sia abbastanza conosciuto” (Kant 1790, VI: 45). Ancora, in Essere e tempo la situazione emotiva (Befindlichkeit) viene indicata come una delle determinazioni esistenziali dell’Esserci, il quale è già da sempre immerso in una tonalità sentimentale (“autosentimento situazionale”, Heidegger 1927: 168). Originaria e pervasiva, la Befindlichkeit non riguarda alcune circostanze piuttosto che altre, e infatti “anche la θεωρία più pura non è del tutto scevra di tonalità emotiva” (Heidegger 1927: 171). La Stimmung fondamentale della contemplazione teoretica viene individuata nell’imperturbabilità (impalpabile ma non per questo emotivamente irrilevante) che caratterizza la conoscenza dell’oggetto inteso nella sua semplice presenza.

Meraviglia, piacere, imperturbabilità sono solo tre delle possibili declinazioni della tonalità emotiva, positivamente connotata, connessa tradizionalmente alla ricerca scientifica e alla speculazione teorica. Ma una simile situazione emotiva può esaurire in modo soddisfacente lo spettro di sentimenti connessi all’interrogazione scientifica? In un’annotazione datata 25 maggio 1915 Wittgenstein scrive:

      • L’impulso al Mistico [Der Trieb zum Mystischen] viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza. Noi sentiamo [Wir fülhen] che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppur toccato. Certo non resta allora più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta. (Wittgenstein 1961: 25.05.15)

Nell’appunto di Wittgenstein il sentimento mistico si presenta come un impulso dovuto all’insoddisfazione di fronte alle risposte fornite dalla scienza. In accordo con quanto stabilito dal Tractatus logico-philosophicus, opera che era ancora in gestazione nel momento in cui viene scritta l’annotazione presa in esame, la scienza si compone della totalità delle proposizioni vere (Wittgenstein 1922: 4.11). Per “vero” si intende qui “corrispondente a uno stato di cose sussistente”: la proposizione non è altro che un’immagine (non materialmente somigliante) della realtà, un modello, e il suo valore di verità deriva dal confronto con il fatto cui si riferisce[2].

Da quanto detto risulta chiaro che l’ambito della scienza, costituito dall’insieme delle proposizioni vere, coincide perfettamente con l’ambito della fattualità: come a dire che la scienza non fa che descrivere la realtà raffigurando i fatti che la compongono. Leggiamo infatti all’inizio del Tractatus che “il mondo è tutto ciò che accade [Die Welt ist alles, was der Fall ist]” (Wittgenstein 1922: 1) e che “il mondo è la totalità dei fatti” (Wittgenstein 1922: 1.1). L’impresa scientifica comporta pertanto una modellizzazione dei fatti che compongono il mondo; ma che ne è di quest’ultimo? Qual è il senso del mondo, quale la sua realtà? Simili domande metafisiche, secondo la teoria del Tractatus, travalicano i confini della scienza[3] poiché eventuali risposte oltrepasserebbero l’ambito dei fatti (e dunque delle proposizioni sensate). Abbandonando il terreno dei fatti, le risposte ai quesiti metafisici si spostano sul piano dei valori, ai quali tuttavia non possono corrispondere espressioni linguistiche sensate. Per questo motivo “uomini, cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbî, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso” (Wittgenstein 1922: 6.521). Il linguaggio, disancorato dall’ambito dei fatti, gira a vuoto o al limite si impantana in pseudo-proposizioni, suggestive ma insensate.

Questa constatazione non sembra però scalfire il dato di fatto per cui l’essere umano si interroga cercando risposte al di là della sfera della fattualità: “Noi sentiamo che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppur toccato”. Di qui l’insoddisfazione nei confronti della scienza e delle sue risposte, che sembrano eludere problemi vitali come il senso del mondo e dell’esistenza. All’indagine scientifica si accompagna dunque un sentimento di costante insoddisfazione, un’e­mozione negativa che, lungi dal diminuire con il progresso del patrimonio di conoscenze, proprio a questo progresso si riconosce estranea.
-  L’“impulso al Mistico” non è dovuto a un generico senso di insufficienza delle conoscenze scientifiche in nostro possesso, né può attendere una qualche soddisfazione dall’aumentare delle nostre cognizioni. Ciò che esso mette in mora è proprio il principio di corrispondenza tra proposizioni (vere) e fatti (sussistenti). Come a dire: quand’anche si potessero enumerare tutte le proposizioni vere - scrivendole, per esempio, in un grande libro, capace di contenere un’e­sauriente e definitiva descrizione del mondo (Wittgenstein 1965) -, non troveremmo in un simile elenco altro che resoconti di fatti. Nessun giudizio di valore vi potrebbe trovare spazio, nessuna affermazione metafisica o religiosa, nessuna valutazione etica o estetica.

La corrispondenza tra proposizioni e fatti, su cui si basa la teoria presentata dallo stesso Wittgenstein nel Tractatus, genera un sentimento di insoddisfazione che, come un negativo fotografico, costituisce il rovescio emotivo dell’impresa scientifica. Tale insoddisfazione proviene dalla frustrazione - inevitabile - del desiderio umano di oltrepassare l’ambito della fattualità, sottoposto all’esame del vero e del falso; è questa insoddisfazione che genera l’“impulso al Mistico”.

Quello che nel Tractatus verrà chiamato “sentimento mistico”[4] viene indicato nell’annotazione presa in esame come Trieb, traducibile con “impulso”, ma anche con “pulsione”, nell’accezione data a questo termine da Sigmund Freud. La proposta teorica che si proverà ad articolare consiste dunque nel cercare di chiarire la natura del Trieb rivolto al mistico cercando in esso i tratti della pulsione, così come presentata in sede psicoanalitica. Questa lettura verrà messa alla prova tramite un confronto con la dialettica che, in Al di là del principio di piacere, si instaura tra pulsioni di vita e pulsioni di morte. Infine, attraverso l’interpretazione di Freud offerta da Jacques Lacan, si farà ritorno alla pulsione mistica come spinta ad andare incontro al reale.

2. Pulsioni di vita, pulsioni di morte

Il dualismo tra pulsioni di vita e pulsioni di morte è un’acquisizione della tarda riflessione freudiana. Il concetto di Trieb viene in verità introdotto nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) per indicare il processo dinamico per cui, a fronte di una tensione, l’organismo è spinto ad allentare lo stato di eccitazione. Nel saggio Pulsioni e loro destini questa spinta ad allentare la tensione viene individuata come “concetto limite tra lo psichico e il somatico” (Freud 1915: 17), da distinguersi rispetto all’istinto, inteso come determinazione essenziale e innata del comportamento animale (Cimatti 2015: 55-9).

Ne I disturbi visivi psicogeni nell’interpretazione psicoanalitica (1910) Freud contrappone le pulsioni sessuali (rette dal principio di piacere) alle pulsioni di autoconservazione (pulsioni dell’Io, rette dal principio di realtà) e, usando una formulazione mutuata da Schiller, individua in esse il contrasto emblematico tra “amore” e “fame”. Con l’Introdu­zio­ne al narcisismo (1914), la contrapposizione tende ad affievolirsi, dal momento che le pulsioni di autoconservazione (o pulsioni dell’Io) vengono ad essere parzialmente ricomprese nella libido dell’Io, una delle due declinazioni delle pulsioni sessuali insieme alla libido oggettuale. A superare questa sorta di monismo pulsionale, per cui tutte le pulsioni sono in ultima analisi pulsioni sessuali, interviene un nuovo dualismo, quello appunto tra pulsioni di vita e pulsioni di morte (Laplanche, Pontalis 1967: 481).

Introdotta nel saggio Al di là del principio di piacere (1920), la contrapposizione tra pulsioni di vita e pulsioni di morte riassorbe in una certa misura il dualismo tra pulsioni sessuali e pulsioni dell’Io. Freud è indotto a formulare l’ipotesi relativa alle pulsioni di morte sulla scorta di alcuni fenomeni, primo fra tutti la coazione a ripetere, apparentemente non riconducibili al principio di piacere. La ripetizione, nel gioco come nel sogno, di episodi spiacevoli della vita pare infatti inspiegabile, se si considera il principio di piacere come regola aurea del comportamento umano. D’altra parte, se il piacere coincide con lo scaricarsi di una tensione, la pulsione a tornare allo stato inorganico rappresenta l’estrema applicazione del principio di piacere: “In realtà ciò che Freud cerca di esplicitare con il termine pulsione di morte è ciò che vi è di più fondamentale nella nozione di pulsione, il ritorno a uno stato precedente e, in ultima analisi, il ritorno alla quiete assoluta del­l’inorganico” (Laplanche, Pontalis 1967: 489).

Da quanto detto risulta che l’introduzione delle pulsioni di morte (presentata da Freud in base a motivazioni essenzialmente speculative e accolta a fatica o, per motivi clinici, rifiutata da numerosi analisti) non comporta una vera novità teorica ma, al contrario, conduce alle estreme conseguenze quanto viene già affermato dal principio di piacere. Per questo Freud può affermare: “sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte” (Freud 1920: 100). La pulsione di morte porta sotto gli occhi la verità della pulsione stessa, intesa come spinta alla scarica di tensione, e mostra il principio di piacere come estinzione del desiderio umano, vale a dire come “principio di Nirvana” (Freud 1920: 90). Se così è, la vera novità introdotta da Freud con il saggio del 1920 - ciò che veramente va “al di là del principio di piacere” - non è tanto la pulsione di morte (di cui il principio di piacere sarebbe il servo sciocco) quanto la pulsione di vita: “Come si vede, anche sul piano economico, la pulsione di vita non calza col modello energetico della pulsione come tendenza alla riduzione delle pulsioni” (Laplanche, Pontalis 1967: 493).

Ricapitoliamo: in deroga al principio di piacere (scarica della tensione), Freud è indotto ad ammettere l’esistenza di pulsioni di morte, vale a dire di spinte che contravvengono alla finalità del mantenimento di una tensione costante (principio di costanza). La finalità della pulsione di morte, infatti, coincide con il ritorno a uno stato inorganico. In questa prospettiva però la pulsione di autoconservazione, retta dal principio di piacere, viene ricompresa all’interno delle finalità della pulsione di morte, dal momento che servirebbe a garantire “che l’or­ganismo possa dirigersi verso la morte per la propria via” (Freud 1920: 64). Ne segue che la pulsione di morte - correttamente intesa - non si oppone al principio di piacere ma, incarnando la tendenza a riportare l’organismo allo stadio inorganico precedente alla sua individuazione, si presenta come il “mandante” del “suicidio” cui conduce il principio di piacere stesso. -Spiegando in questo modo la pulsione di morte, ciò che risulta difficilmente spiegabile è la tendenza dell’or­ga­ni­smo a legarsi ad altri organismi, a “fare gruppo”, a saldarsi con altri in strutture via via sempre più ampie. Questa pulsione a creare nuove tensioni, ad aumentare la complessità, ad interpolare un “frattempo” tra sé e la morte è Eros (Benvenuto 2013). A questo punto, ciò che risulta veramente difficile da procurare è una spiegazione scientifica delle pulsioni di vita, in apparenza non riducibili all’alleanza tra principio di piacere e pulsioni di morte:

      • quello che la scienza ci sa dire a proposito dell’origine della sessualità è così poco che questo problema può essere paragonato a un sito tenebroso dove non è penetrato neanche il raggio di un’ipotesi. Vero è che in una regione completamente diversa incontriamo un’ipotesi del genere; ma essa ha un carattere così fantastico - è certamente un mito assai più che una spiegazione scientifica - che non oserei menzionarla se non soddisfacesse proprio alla condizione che noi cerchiamo di soddisfare. (Freud 1920: 92, corsivi miei)

Con queste parole Freud introduce il mito dell’androgino, narrato nel Simposio di Platone da Aristofane. Stante la definizione di pulsione come spinta a tornare a uno stadio di sviluppo precedente, la spiegazione mitologica propone l’idea di una originaria unità dei sessi, che l’unione sessuale mirerebbe a ripristinare. Freud propone ma non sposa questa teoria, non le dà il suo assenso ma decide di fermarsi, riconoscendo a queste riflessioni il valore di una pura speculazione. È il caso tuttavia di osservare che il ricorso al mito è motivato dall’in­sod­disfazione per le risposte offerte dalle teorie scientifiche, che sanno dire “così poco" rispetto a ciò che spinge gli organismi a legarsi tra loro e a procrastinare il momento della morte.
-  Riguardo alla “condizione che noi cerchiamo di soddisfare” la scienza non ha nulla da offrire, poiché il problema posto dalle pulsioni di vita riguarda non i fatti, i fenomeni, ma la loro finalità. E la finalità è presente qui al modo di una mancanza: se la morte è la meta della vita, come è possibile che vi siano pulsioni che non si risolvono, che esorbitano dallo scopo, che si oppongono a qualunque soddisfazione?

3. Tyche e godimento

Nella sua rilettura della teoria freudiana, Jacques Lacan arriva a indicare ciò che si trova al di là del principio di piacere con il termine godimento (Chaumon 2004: 69). Data la premessa, il godimento non è in nessun modo assimilabile al piacere: quest’ultimo è un abbassamento della tensione, mentre riguardo al godimento Lacan può domandarsi: “di che cosa godere se non del prodursi di una tensione?” (Lacan 2005 [1971]: 110). Il luogo proprio del godimento è il corpo, ma non il corpo significato dal linguaggio, né il corpo che si esprime attraverso codici comunicativi non verbali. Il corpo di cui parla Lacan è proprio ciò che non arriva all’espressione, che rimane ai margini della rappresentazione come un resto intraducibile ed enigmatico. In questo senso, il registro in cui si muove il corpo è quello del Reale, che insieme al Simbolico (legge, linguaggio, relazione triadica) e al­l’Im­ma­ginario (rappresentazioni, relazione duale e speculare) costituisce la triade lacaniana dei registri entro cui si svolge la vita dell’a­ni­ma­le parlante. Se il Simbolico è l’Altro (maiuscolo), vale a dire un ordine preesistente che impone regole sociali e norme di comportamento, il Reale ha a che fare con l’altro (minuscolo), con quell’a piccolo che Lacan indica come scarto, resto, osso non digeribile della psi­co­analisi.

Dunque: godimento, corpo e Reale costituiscono per Lacan altrettante figure dell’al di là del principio di piacere. Un altro modo di presentare la questione è quello di riconoscere la solidarietà tra linguaggio umano e pulsione di morte: è il linguaggio che, tramite il potere della negazione, “rende ogni cosa come evanescente e mortale” (Cimatti 2015: 62) e, in quanto dispositivo computazionale autonomo rispetto ai parlanti, coincide con la coazione a ripetere. Pertanto il corpo che gode, in quanto non riducibile al registro del Simbolico, dischiude un’esperienza del Reale che sfugge al principio di piacere[5].

Per cercare di incontrare il Reale (che, ricordiamo, non è alternativo ma coesistente rispetto agli altri due registri), Lacan utilizza la distinzione tra tyche e automaton, che nella Fisica di Aristotele sta a indicare una duplice declinazione della nozione di caso. Identificando il Reale come tyche, Lacan afferma che esso “è al di là dell’αυτόματον, del ritorno, del ritornare, dell’insistenza dei segni a cui ci vediamo comandati dal principio di piacere” (Lacan 1973 [1964]: 52). In Aristotele la distinzione è motivata dal carattere non intelligente o inanimato di quanto avviene nell’automaton (per esempio una pietra che cade colpendo accidentalmente qualcuno), contrapposto al coinvolgimento di attori capaci di deliberazione nella tyche (per es. l’incontro fortuito di un creditore con il proprio debitore). Lacan trascura questo aspetto e mette invece in risalto la dimensione necessitata e coattiva del­l’automaton[6], contrapposta al carattere aleatorio e fatale della tyche. In quest’ultima il Reale si presenta come incontro fortuito e come trauma, cui il principio di piacere dovrà rispondere stabilendo un equilibrio omeostatico e soggettivante (prima del trauma, cioè, non vi è soggetto). La connessione della tyche con il corpo sta proprio nella natura del trauma, che si incide nella carne di quello che, per mezzo di questa stessa incisione, diviene un soggetto. Ma ciò che qui compare è un soggetto costitutivamente mancante, privato di quell’“og­get­to privilegiato, sorto da qualche separazione primitiva, da qualche automutilazione indotta dall’avvicinarsi stesso rispetto al reale, il cui nome, nella nostra algebra, è oggetto a” (Lacan 1973 [1964]: 82).

Il Reale si presenta nella veste di un incontro fortuito capace di segnare una discontinuità rispetto alla ripetizione propria della pulsione di morte. Incidendo il corpo esso produce una “falla beante” (Lacan 2005 [1971-72]: 110) che non si può riempire tramite la soddisfazione del piacere ma che domanda un godimento, un aumento di tensione senza limite. Nel Seminario XX Lacan scrive: “Quanto al godimento - godimento del corpo dell’Altro -, esso resta una questione, perché la risposta che può costituire non è necessaria. Di più: non è nemmeno una risposta sufficiente, perché amore domanda amore. Non cessa di domandarlo. Lo domanda... ancora. Ancora è il nome proprio della faglia da dove nell’Altro parte la domanda d’amore” (Lacan 1975 [1972-73]: 5-6). Si noti però come in Lacan il godimento abbia una duplice declinazione: esso si presenta come godimento fallico, che ricade cioè nell’ordine simbolico, o alternativamente come godimento femminile (Di Ciaccia, Recalcati 2000: 110). Se nel primo caso l’“ancora” lascia intravedere l’avvio di una ripetizione, e dunque di un godimento coattivo e mortifero, nel secondo caso Lacan individua la posizione dei mistici, di coloro che si sottraggono al principio di piacere in nome di un godimento supplementare: “È chiaro che la testimonianza essenziale dei mistici consiste appunto nel dire che provano il godimento, ma che non ne sanno nulla” (Lacan 1975 [1972-73]: 72). Più che un “ancora”, in questo caso si assiste a un’estinzione dello stesso meccanismo ripetitivo per cui Lacan può parlare di un “godimento al di là del fallo” (Lacan 1975 [1972-73]: 70).

[...]

      • IL TESTO - CON BIBLIOGRAFIA E NOTE - PROSEGUE NEL POST SUCCESSIVO


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