SCHEDA EDITORIALE, CON UN BREVE ALCUNE PAGINE DAL LIBRO DI
DEREK BICKERTON,
QUELLO DI CUI LA NATURA NON HA BISOGNO *
QUELLO DI CUI LA NATURA NON HA BISOGNO
IL PROBLEMA DI WALLACE
La struttura di questo libro è semplice. In questo capitolo enuncio un problema e delineo quella che ritengo sia la sua soluzione. Il resto del libro si compone di argomenti ed evidenze a supporto di questa soluzione. Sebbene sia abbastanza facile da enunciare, il problema ha parecchie ramificazioni che ci porteranno a esplorare i territori di molte discipline quali la biologia evolutiva, la paleoantropologia, la psicologia, la neurobiologia e la linguistica. State pur certi che, alla fine, tutto ci ricondurrà alla stessa domanda iniziale, una delle più cruciali che si possano porre: in che modo la specie umana ha acquisito una mente che sembra di gran lunga più po- tente di quanto agli esseri umani serva effettivamente per sopravvivere?
Visto che ormai si usa dare ai problemi il nome di chi per primo li ha sollevati (c’è il problema di Platone, quello di Darwin, quello di Orwell, ecc.), chiameremo il nostro il problema di Wallace, poiché il primo a formularlo in maniera chiara e univoca fu Alfred Russel Wallace, cofondatore insieme a Darwin della teoria dell’evoluzione per selezione naturale. Per dirla con le sue stesse parole: «La selezione naturale avrebbe potuto dotare i selvaggi di un cervello di poco superiore a quello di una scimmia, mentre essi possiedono un cervello che è di poco inferiore a quello di un membro medio delle nostre società scolarizzate» (Wallace 1869, pp. 391-92). Con «selvaggio», l’espressione usata in generale a quel tempo, Wallace intendeva semplicemente qualcuno che aveva avuto quella che molti, oggi, considererebbero l’enorme fortuna di essere nato in una società senza scrittura e pre-industriale. La sua considerazione della capacità intellettuale dei « selvaggi » era abbastanza illuminata per l’epoca - ci sarebbero voluti decenni prima che qualcuno avesse l’onestà di sostituire quel « di poco inferiore » con «eguale». Eppure, riconoscere l’universalità dell’intelligenza umana ha portato a Wallace soltanto problemi e inquietudine.
Se l’evoluzione fosse un processo graduale e la selezione naturale rispondesse solamente alle esigenze imposte agli animali dall’ambiente che abitano, allora gli esseri umani dovrebbero avere un cervello « di poco superiore a quello di una scimmia ». Un cervello leggermente migliore di quello di una scimmia sarebbe comunque bastato per superare in intelligenza qualsiasi altra cosa si muovesse su due o quattro zampe e raggiungere così la cima della catena alimentare. I primi umani non avevano bisogno di occuparsi di matematica, di costruire barche, di comporre musica o di avere idee circa la natura dell’universo per poter fare tutte le cose che in concreto facevano. Il fatto che, all’improvviso, scoprissero di essere dotati di un cervello che potenzialmente avrebbe potuto renderli capaci di tutte queste cose era già abbastanza notevole. Ma ancor più straordinario era che quegli stessi cervelli avrebbero reso capaci coloro che li possedevano di ricoprire il mondo intero delle proprie opere, di immergersi negli abissi più profondi degli oceani e addirittura (meno di mezzo secolo dopo la morte di Wallace) di lasciarsi alle spalle la Terra.
Wallace non riusciva a credere che la selezione naturale avesse potuto fare tutto ciò: una qualche forza sovrannaturale doveva essere intervenuta per creare in maniera improvvisa e inattesa l’immenso divario che sussiste tra le capacità mentali umane e quelle di ogni altra specie. Tale divario sembrava davvero qualcosa di eccezionale perché nulla di simile esisteva altrove in natura. Ciò che si dava negli altri casi era precisamente quello che la teoria della selezione naturale avrebbe predetto: qualche isola di adattamento altamente compito-specifico, sullo sfondo di una altrimenti graduale distribuzione delle capacità cognitive attraverso l’intero range delle specie.
Molti di coloro che hanno scritto di storia della teoria evoluzionista hanno attribuito le teorie di Wallace sull’evoluzione umana alla sua conversione allo spiritualismo - un buon modo per far scomparire del tutto il suo problema. Ma, a prescindere dalle convinzioni dello stesso Wallace, il problema che egli ha sollevato rimane. La mente umana è uno sviluppo evolutivo del tutto improbabile, da qualsiasi punto la si guardi; e dovremmo rendere onore all’onestà che Wallace mostrò nel-l’affrontare questo problema, indipendentemente dalle nostre inclinazioni personali nei confronti della soluzione che egli proponeva.
Sebbene Wallace sia stato il primo a dare una chiara articolazione al problema, quasi certamente altre menti illustri di epoche precedenti ne furono in qualche modo consapevoli.
Quando Shakespeare scrisse i versi riportati in esergo all’inizio di questo libro, presumibilmente non intendeva esprimere altro che la rabbia di Lear nei confronti della figlia che aveva ridotto il numero dei suoi servitori. Ma con Shakespeare c’è sempre un livello ulteriore di significato nascosto tra le righe (una delle ragioni per cui è il più grande tra gli scrittori). E in queste righe si cela la sua consapevolezza che anche «i più umili » tra gli uomini possedessero molto di più di quanto non servisse per meri scopi di sussistenza materiale e che, paragonate alle nostre, le vite delle «bestie» sono di gran lunga più limitate. Come questo sia potuto accadere senza l’intervento di una qualche misteriosa forza esterna all’evoluzione è il tema di questo libro.
LA RISPOSTA DI DARWIN
Senz’altro Darwin si rese conto del problema: «Non può esservi dubbio che la differenza tra la mente dell’uomo inferiore e quella dell’animale superiore sia immensa » (Darwin 1871, p. 100 [trad. it. p. 106]). Egli mostrava la stessa considerazione di Wallace nei confronti dei « selvaggi », notando « quanto strettamente ci assomigliassero nelle loro disposizioni e in molte delle nostre facoltà mentali » (p. 34 [trad. it. p. 63]) i tre fuegini che si trovavano a bordo del Beagle. Tuttavia, allo stesso tempo, aveva ingegnosamente disarmato l’argomento del divario tra scimmia ed essere umano sostenendo che « vi è una differenza molto maggiore di capacità mentale tra uno dei pesci inferiori ... e una delle scimmie superiori, che tra questa e un uomo» (loc. cit.). Se c’era una gradazione in un caso, allora, nonostante le apparenze, doveva esserci anche nell’altro, e infatti « si può dimostrare che non c’è differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori » (loc. cit. [p. 64]).
Questo però è un mero gioco di prestigio. La gradazione d’intelletto tra una lampreda e uno scimpanzé non è un argomento contro il divario ma a favore di esso. Se vi sono innumerevoli specie dotate di capacità a metà strada tra quelle di una lampreda e quelle di uno scimpanzé, dovrebbero esserci anche molte specie intermedie tra esseri umani e scimpanzé. Come mai, allora, non ci sono animali dotati di una piccola o moderata quantità di autocoscienza, né c’è un aumento graduale della capacità di innovazione o della creatività, né ci sono livelli diversi di produzioni artistiche (anche solo in una singola arte o in due), o per lo meno un linguaggio rudimentale? Il mero asserire che non vi è nessuna «differenza fondamentale» non è (e non avrebbe potuto essere, neppure al tempo di Darwin) un pronunciamento scientifico. Era ed è una pura e semplice dichiarazione di fede.
Darwin aveva cercato un fondamento empirico per questa sua dichiarazione avvalendosi degli stessi metodi che aveva usato per supportare le proprie tesi nell’Origine delle specie: accumulando un’ampia scorta di resoconti a carattere aneddotico circa il comportamento degli altri animali. Ma quello che funziona quando ci sono delle evidenze oggettive nella conformazione fisica delle varie specie funziona molto meno quando si tratta di capacità mentali. Dal momento che non vi sono dati oggettivi e non ambigui a supporto di questi aneddoti, ci si deve affidare ciecamente alle interpretazioni soggettive, le quali, come è noto, sono incerte e inaffidabili. La tendenza tipica degli esseri umani ad antropomorfizzare marchia troppe di quelle evidenze.
Eppure, anche in questo caso, Darwin, pensatore sempre cauto, trova un modo per salvaguardarsi. Egli continua a professare la propria fede nel fatto che « la differenza mentale tra l’uomo e gli animali superiori, per quanto sia grande, è certamente di grado e non di genere». Ma gli esempi che porta in quello stesso paragrafo fanno tutti riferimento alle emozioni più che ai processi cognitivi. Si sente costretto a suggerire subito un piano alternativo: « Se si potesse provare che alcuni elevati poteri mentali, come la formazione di concetti generali, l’autocoscienza, ecc. sono assolutamente peculiari all’uomo, il che sembra estremamente dubbio, non sarebbe improbabile che queste qualità apparissero come il risultato incidentale di altre facoltà intellettuali altamente avanzate e queste ancora principalmente il risultato dell’uso continuo di un linguaggio perfetto» (p. 101 [trad. it. p. 106]).
Si trattava di un’intuizione brillante, ma al tempo di Darwin non poteva essere molto più di una cambiale. [...]"
*
Fonte: Adelphi. (ripresa parziale).