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LA SVOLTA DI SALERNO... E LA LOTTA PER LA LIBERTA’ E LA DEMOCRAZIA, OGGI! - di Federico La Sala

Un omaggio alla memoria al Presidente Pertini e un augurio al nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano
mercoledì 25 aprile 2012 di Emiliano Morrone
Un omaggio e un augurio al nostro Presidente della Repubblica, GIORGIO NAPOLITANO
LA SVOLTA DI SALERNO... E LA LOTTA PER LA LIBERTA’ E LA DEMOCRAZIA, OGGI!
di Federico La Sala
Caro Direttore,
trovo più che necessario e urgente accogliere la sollecitazione di Giorgio Napolitano (sull’Unità del 13.10.2004, p. 25, su "Angelo Oliva e la memoria della sinistra"): "Troppe vicende e figure del passato [...] rischiano di scivolare nell’ombra della rimozione e dell’ignoranza, nel modo più freddo (...)

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> LA SVOLTA DI SALERNO... E la svolta del 1989 - della Bolognina. Democratici, però di sinistra: quella resta l’idea giusta (di Achille Occhetto).

sabato 5 febbraio 2011

La svolta 1989. Democratici, però di sinistra: quella resta l’idea giusta

di Achille Occhetto (l’Unità, 4.02.2011)

Le celebrazioni della ricorrenza dei 90 anni di storia del Pci hanno messo in evidenza come quella vicenda abbia rappresentato un pezzo rilevante della storia d’Italia, un architrave della costruzione dello stato democratico e della medesima ricostruzione del paese.

Lo stesso si può dire dell’ultimo atto della vita di quel partito, della svolta e del passaggio dal Pci al Pds. In continuità con la funzione nazionale esercitata dai comunisti italiani anche la fine e il nuovo inizio non si presentano solo come un evento interno, un affare dei comunisti e della loro crisi, bensì come un passaggio di fase nella stessa storia del paese. Infatti, come dicemmo nei giorni della svolta, la campana del nuovo inizio non suonava solo per noi, avrebbe suonato per tutti i partiti e per l’insieme del sistema politico. Tuttavia la grandezza di quella storia, la sua ineludibile funzione nazionale che ha contraddistinto la capacità di un blocco sociale e della sua classe dirigente di orientare il corso storico del paese conviveva con i germi della sua crisi.

Uno degli aspetti più rilevanti di quella vicenda sta in quel particolare connubio tra revisionismo socialista democratico, apertura intellettuale e un giustificazionismo storico, una doppiezza tra la funzione democratica esercitata in Italia e quello che lo stesso Togliatti aveva chiamato il legame di ferro con l’Urss, che, in una fase rilevante della sua storia, lo aveva portato a forme di favoreggiamento se non di copertura dei delitti staliniani. Successivamente il Pci spingerà, in modo particolare con Berlinguer, fino alle estreme conseguenze la sua sofferta trasformazione democratica, pur rimanendo invischiato dentro il vecchio involucro. Da queste sommarie considerazioni si possono ricavare due riflessioni.

La prima, è che la tesi contraria alla svolta secondo cui non c’era bisogno di cambiare un partito che non aveva più niente a che vedere con i paesi dittatoriali dell’Est, in realtà, può essere presentata come la tesi più favorevole alle ragioni della mutazione, in quanto solo all’interno della contraddittoria e incompleta evoluzione del Pci l’idea stessa della svolta avrebbe potuto trovare il proprio terreno di coltura.

Ciò non poteva accadere, e non a caso non è accaduto, dentro gli altri partiti comunisti europei ampiamente compromessi con gli errori e gli orrori del socialismo reale. Solo una formazione politica che portava dentro di sé la metamorfosi poteva sentire l’esigenza di spaccare il vecchio involucro nel quale si sentiva costretta.

La seconda riflessione è che lo stesso processo di continua evoluzione che stava alle spalle del nuovo inizio smentisce l’altra tesi critica, quella secondo la quale con la svolta si sarebbe compiuto un atto di coraggio, ma isolato, improvviso e privo di cultura politica. In realtà la cultura della svolta va ricercata in tutto il corso di revisione critica di cui abbiamo parlato, e ha il suo momento di precipitazione nell’insieme degli atti politici assunti nell’89’ e nello stesso 18 ̊ congresso di quell’anno, alla fine del quale si diede allo stesso partito l’appellativo di «nuovo Pci»: una prima pudica voglia di cambiamento del nome, la timida confessione che tra i contenuti e la forma del vecchio partito c’era una discrepanza. Una parte della cultura della svolta è già contenuta lì.

Infatti il 18° congresso aveva innovato profondamente la cultura politica almeno su quattro punti: 1) l’affermata centralità della questione ecologica come nuovo fondamento della critica del modello di sviluppo e non come mero ambientalismo a sé stante; 2) il riconoscimento del valore del mercato nel contesto di una ridefinizione del rapporto tra pubblico e privato: 3) la sostituzione del dirigismo con il sistema delle regole: 4) il primato della libertà, che sarà ulteriormente rafforzato e definito nella carta di intenti del nuovo partito.

Da allora francamente non si sono visti altri significativi apporti innovativi che si muovessero, beninteso, sul terreno della sinistra. La stessa ipotesi di una nuova formazione politica fondata sulla contaminazione dei diversi riformismi di cui è ricca la nostra storia sta alla base del nuovo inizio.

Le diversità tuttora in campo nella sinistra con la stessa nascita della Sel si riferiscono più ai modi di tale contaminazione che alla sua necessità. E sui modi si fanno sentire anche sensibili differenze nel medesimo Pd.

Purtroppo quando si arriva al momento del congresso di Rimini avevamo alle spalle un anno di logoramento, perché malgrado lo splendore del precedente congresso di Bologna, che aveva sancito il cambiamento del nome, il dibattito interno invece di aprirsi sul come, si era ancora attardato sul se. Al punto che prima del congresso fu presentato all’opinione pubblica il nuovo simbolo corredato da una carta di intenti. Il simbolo fece grande clamore, la carta di intenti, a proposito di cultura politica, non fu discussa. Eppure in quel testo si trova il meglio delle tesi innovatrici presenti al tempo nella elaborazione della socialdemocrazia europea assieme alle novità dei nostri apporti.

Ma allora chiediamoci: alla Bolognina e successivamente al congresso di Rimini nella sostanza che cosa è successo? Se si guarda al fatto storico nella sua essenzialità è successo che con la svolta si è spostato il più grande partito comunista dell’occidente dal campo teorico e politico dell’Internazionale comunista e del marxismo leninismo al campo dell’Internazionale socialista. Punto e a capo. Questo, al di là dei sofismi della cronaca corrente, è quello che è successo. Ed è successo malgrado il disappunto di molti socialisti che non possono negare quel fatto storico solo perché non abbiamo accettato il tipo di unità socialista propostoci da Craxi.

Il 4 febbraio del 1991 la maggioranza del Pci è passata all’area del socialismo democratico dopo alcuni anni di intenso lavoro ideale e politico. Io stesso, assieme a Napolitano e a Fassino, ho incontrato i grandi della socialdemocrazia, da Willy Brandt a Kinnock passando per Moroy, Gonzales fino a Mitterand per chiedere loro l’ingresso nell’Internazionale socialista. Io stesso sono cofondatore del Partito del socialismo europeo. L’essenzialità di quella scelta va ancor oggi ricordata perché lo stesso congresso di Rimini si trovò a fronteggiare due insorgenze: quella che veniva da una parte di coloro che non avevano accettato la svolta e che approderanno alla scissione, e le differenti valutazioni sulla situazione internazionale e sul craxismo. Se si aggiunge che proprio in quei giorni si è nel pieno della guerra del Golfo, si può meglio capire la tensione e la cupezza del momento. Momento sicuramente sfortunato, ma che non muta la sostanza di alcune scelte di fondo. Come abbiamo visto, i rapporti da tenere con il Psi di Craxi hanno costituito una differenza anche tra i fautori della svolta, differenza che tuttavia non poteva indurre a considerare le posizioni critiche verso Craxi come posizioni di per sé antisocialiste. Si è trattato di una legittima differenza politica, che merita il massimo rispetto, ma che non contraddice il dato fondamentale: il 4 febbraio del 1991 il Pds nasce come partito dell’Internazionale socialista, collocato nel gruppo socialista del parlamento europeo e cofondatore del Pse.

Il vero problema oggi sarebbe quello di giudicare la cultura politica che è seguita nel corso degli anni successivi. Si tratta di un giudizio complicato e difficile, reso ancora più difficile dalla diversità di intenzioni presenti negli stessi protagonisti del congresso di Rimini.

Una prima differenza va riscontrata tra chi voleva uscire da sinistra dalla crisi del comunismo e chi si muoveva nella direzione di un riformismo più moderato, a cui facevano seguito tre fondamentali differenti visioni della prospettiva. La prima, come abbiamo visto, muoveva sostanzialmente nella direzione dell’unità socialista, proposta che la maggioranza del partito considerò allora come una sorta di annessione che ci avrebbe fatto fare un duplice salto mortale, dalla fuoriuscita dalle rovine dal comunismo per entrare sotto le rovine del pentapartito. La seconda, era quella di dare immediatamente vita al partito democratico, particolarmente caldeggiata da Veltroni, a cui risposi dicendo che concordavo con il riferimento forte e centrale a democratico obiettando però che ci potevano essere diversi partiti democratici, di orientamento moderato o cattolico. E risposi: democratico sì, ma di sinistra. Nasce così la proposta di chiamare il nuovo partito «Partito democratico della sinistra». Di qui la terza visione, da me caldeggiata, quella della costituente di una nuova formazione politica, che andasse oltre le culture del ‘900, pur riconoscendo che nello scontro storico tra comunismo e socialismo democratico aveva vinto quest’ultimo.

Diverse erano le passioni che la svolta fece sprigionare da quel vaso di Pandora che era il Pci. Ma al di là di queste, ancora una volta appare un altro fatto storico incontrovertibile: la svolta si inserisce nel contesto di una gigantesca mutazione geopolitica. Non si presenta come un problema dei comunisti, neppure come un atto provinciale. Cambia il mondo, cambiano i partiti, mutano i soggetti nazionali e internazionali legati allo scontro centrale del secolo, muta la lotta per l’egemonia planetaria, si passa dal bipolarismo al monopolarismo per approdare, con Obama, al multilateralismo. Si affollano nuovi problemi planetari (l’Islam, il terrorismo), due grandi rischi di distruzione del pianeta: quello nucleare e quello ecologico. In tutto questo c’è del progresso, ma ci sono anche delle perdite secche.

Molte sono le acquisizioni positive sul terreno della nostra liberazione interiore: il faro della libertà è diventato più nitido nelle nostre menti. La liberazione dalle idee oppressive del collettivismo autoritario, del conformismo e monolitismo di partito, della contrapposizione dell’uguaglianza alla libertà, del terrore di sbagliare davanti al dogmatismo dell’ideologia e ai suoi rappresentanti autorizzati: il capo, la direzione, il comitato centrale. Non c’è più tutto questo, ma il nuovo rischio è il vuoto. Il rischio di buttare via con l’acqua sporca anche il bambino.

Dio è morto, ha gridato un grande filosofo a cavallo tra l’800 e il 900; le ideologie sono morte, abbiamo gridato noi. Ma attenzione, non vanno sostituite con il potere per il potere, con la mancanza di senso e di un sistema di valori. Occorre alimentare e aggiornare un sistema di valori, ma anche di idee che mantenga limpida la differenza tra destra e sinistra. Solo cosi, tutta quella sofferenza, la fatica dell’innovazione, avrà avuto un significato positivo.


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