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Attualità

Giappone [come San Giovanni in Fiore?, fls]. "Hikikomori": i giovani non sognano più (di Stefano Vecchia) - selezione a cura del prof. Federico La Sala

Secolarizzazione, dittatura dell’economia, crescente influenza della realtà virtuale. Fino al fenomeno degli «hikikomori», un milione di ragazzi che dormono di giorno e vivono di notte: tv, internet e shopping
lunedì 22 maggio 2006 di Emiliano Morrone
C’è un termine ormai diffuso in Giappone per indicare i giovani: «nuova razza umana».
hikikomori *
Un termine che non si applica automaticamente a tutta la variegata realtà giovanile del Paese del Sol Levante, ma che esprime tutta l’inquietudine del mondo degli adulti verso un mondo inquieto e imperscrutabile.
Una classe mutante in costante adattamento a una realtà che ha perso le proprie radici ma fatica a ritrovarne di nuove e di salde.
Oggi, per troppe famiglie il mito di un’economia (...)

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> Giappone [come San Giovanni in Fiore?, fls]: i giovani non sognano più ---- I giovani giapponesi. Hikikomori e il mondo nascosto (di Massimo Ammaniti) - Quelli che fliertano con la morte (di Luciana Sica).

giovedì 5 marzo 2009


-  I giovani giapponesi
-  Hikikomori e il mondo nascosto

-  Una generazione che rifiuta la luce del sole: vivono la notte, chiusi dentro casa, senza alcuna relazione sociale

-  di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 05.03.2009)

Il giovane Jun a 18 anni fa il test di ammissione in una università ma non lo supera. Cerca di non scoraggiarsi, continua a studiare da solo, ma lentamente va alla deriva, fin quando si chiude nella sua stanza, dorme durante il giorno, di notte legge i testi di filosofia e guarda la televisione. Occasionalmente prende la sua mountain-bike e di notte scorrazza per le strade solitarie della città che dorme. E quando incontra qualcuno dei suoi vicini - racconta ancora Jun - si sente guardato con diffidenza e a volte con ostilità: è troppo diverso dagli altri ragazzi.

In un recente congresso sulla salute mentale in Giappone gli psichiatri hanno discusso la condizione degli hikikomori, i giovani giapponesi, come il giovane Jun, che rifiutano in modo drastico il mondo della scuola e le prospettive offerte dalla società degli adulti, rinchiudendosi nella loro stanza dove si costruiscono un mondo alternativo abitato esclusivamente da loro.

La condizione sociale degli hikikomori è molto diversa da quella dei ragazzi e delle ragazze che vivono in occidente, ed è difficilmente riconducibile a una diagnosi psichiatrica nonostante ne parlino soprattutto gli psichiatri, forse perché più attenti a queste forme di disagio sociale. Ancora una volta, come occidentali, ci troviamo disorientati nei confronti di questo fenomeno giapponese, anche perché le categorie psichiatriche di più frequente uso circoscrivono il malessere individuale, ma non possono trasferirsi ai comportamenti collettivi.

La storia emblematica dell’hikikomori Jun è raccontata dal giornalista americano Michael Zielenziger in un importante testo, Non voglio più vivere alla luce del sole (Elliot, pagg. 408, euro 22; sottotitolo, nell’originale "How Japan Created its own Lost Generation") che esplora il mondo nascosto degli hikikomori. Probabilmente l’occhio del ricercatore Zieleziger, che si occupa dei rapporti socio-economici fra occidente e oriente, può farci entrare in questo mondo senza tradurlo nella terminologia psichiatrica. Che sia una sindrome sociale è confermato dal numero di hikikomori: circa 850 mila giovani fra i 14 e i 30 anni che vivono praticamente rinchiusi in casa, a carico della famiglia, incapaci o determinati a non rientrare nel grande flusso sociale. Quando le pressioni della famiglia, della scuola o del mondo della produzione diventano troppo opprimenti e allo stesso tempo ci si sente vittime del conformismo e del rifiuto da parte degli altri, inizia il progressivo distacco dei giovani dal mondo. E infatti nelle storie di molti hikikomori ritorna frequentemente il senso di essere stati rifiutati dal gruppo e di non aver mai trovato nessuna comprensione da parte degli altri nei momenti di difficoltà.

È solo da poco che la società giapponese ha riconosciuto la difficile condizione dei giovani che rimangono ai margini della vita sociale. E anche nella letteratura si riflette il mondo degli hikikomori. Ad esempio nel romanzo La fine del mondo e il paese delle meraviglie (Einaudi), Murakami Haruki crea uno scenario che ricorda le stanze in cui si rinchiudono i giovani hikikomori, una piccola città spettrale, chiusa dentro le sue mura che la separano dal resto del paese, il mondo di qua e il mondo di là, due realtà parallele e distanti. E in questa città gli abitanti si aggirano senza la propria ombra, privi di ogni sentimento in una sorta di distacco che li mette al riparo dai sentimenti.

Anche in un altro libro di Murakami, Norwegian Wood (Einaudi), viene esplorato il mondo segreto dei sentimenti e della solitudine degli adolescenti giapponesi. Il protagonista Toru si sente diverso rispetto al mondo intorno a lui, continuamente tormentato dal dubbio di aver sbagliato o di poter sbagliare vincolato a un alto senso di giustizia personale. Toru, come era successo più di cinquanta anni prima al giovane Holden, va all’università di Tokyo per studiare, ma si sente estraneo ai compagni e all’ambiente del suo dormitorio.

Affetti da un’anoressia sociale gli hikikomori rifiutano le suggestioni e le promesse del mondo degli adulti e si costringono a vivere in modo monastico circondandoti dai gadget elettronici, con i quali continuano a comunicare col mondo esterno. In questo modo sfuggono alle pressioni della scuola e dell’università prima e del mondo del lavoro dopo, rimanendo fedeli a se stessi e alle proprie aspirazioni interiori.


Aspiranti suicidi. Ne parla Gustavo Charmet

Quelli che flirtano con la morte

di Luciana Sica (la Repubblica, 05.03.2009)

Radicale, lugubre, profondo, inconfessabile: Gustavo Pietropolli Charmet usa questi aggettivi per descrivere il dolore di un ragazzo che decide di togliersi la vita. Un dolore più diffuso di quanto s’immagini, se è vero che il sessanta per cento degli adolescenti "flirta" con l’idea della morte. Quasi sempre sono solo pensieri neri, ma possono diventare ossessivi e trasformarsi in "fantasie suicidarie", secondo la definizione tecnica: si coltivano a lungo e nel segreto più assoluto, si basano su sentimenti poco dicibili come la vergogna dovuta a un’inadeguatezza (reale o immaginaria) o anche la vendetta per qualche forma di risentimento che non lascia tregua.

Gustavo Charmet è uno studioso brillante, un clinico da sempre in trincea. Settant’anni, psichiatra di formazione freudiana, ha insegnato per una vita alla "Bicocca" ed è ancora attivissimo a Milano con i suoi giovanissimi pazienti, quelli che con disarmante semplicità definisce tristi, più rassegnati che nichilisti, spesso enigmatici se non indecifrabili per il mondo adulto. È lui il cantore della generazione senz’altro più mutante rispetto al passato, anche quello recentissimo: I nuovi adolescenti s’intitola il suo volume più importante uscito qualche anno fa da Cortina, e ora è lo stesso editore a pubblicare Uccidersi - sottotitolo "Il tentativo di suicidio in adolescenza" (pagg. 336, euro 24).

È un libro collettaneo che Charmet firma con un terapeuta di formazione filosofica, Antonio Piotti, tracciando il ritratto sorprendente di questi ragazzi a tratti anche spavaldi, in realtà spesso fragilissimi. È una raccolta di saggi che non nascono nel segno dell’astrattezza teorica, ma piuttosto dall’esperienza clinica in un Crisis Center milanese: è durata sette anni, ha interessato circa ottocento adolescenti reduci da un tentato suicidio e comunque attratti dal desiderio di distruggersi.

Il Centro ha una storia di per sé drammatica. Si chiama "L’amico Charly" e la denominazione sembra piuttosto leggera, ma Charly aveva appena sedici anni quando si è ucciso con un colpo di pistola. È stato poi suo padre a volere la nascita dell’associazione, per aiutare altri ragazzi in bilico tra la vita e la morte e per sostenere i loro genitori a volte del tutto ignari, spesso disperati, quasi sempre soli.

Il responsabile scientifico del Centro è stato Charmet, alla guida di un’équipe capace di contenere sentimenti del tutto legittimi come l’ansia o anche la paura. «Nessuno dei nostri giovani pazienti è mai morto», è lui a dirlo con sollievo e una punta d’orgoglio. E in effetti il risultato è straordinario: «Ci siamo ritrovati alle prese con ragazzi che tramavano in continuazione qualcosa di terribile come buttarsi dalla finestra, anche del nostro studio. O tornare a casa per annodarsi una corda al collo... Ci mettevano anche nelle condizioni di prevederlo e quindi nell’obbligo di indovinare come impedirlo, senza nessuna ricetta magica a portata di mano».

Ma come sono questi aspiranti suicidi? A leggere le pagine del libro: abbastanza "normali", quasi tutti, almeno all’apparenza. Non sembrano particolarmente sofferenti, depressi, sconfitti, solitari. Nella grande maggioranza dei casi non presentano sintomi. Il tentativo di considerarli malati, d’infilarli in una casella diagnostica della psichiatria, è destinato a fallire e comunque non spiega nulla della particolare relazione che questi giovanissimi coltivano con la morte.

Charmet: «Sono autorizzati a non dare nell’occhio perché sono dei clandestini all’interno della famiglia, della scuola, della coppia. I ragazzi che aspirano a togliersi la vita si consolano delle frustrazioni e tollerano molto bene le regole perché hanno già preso le loro decisioni. Se poi il progetto non viene attuato, non dipende dal mondo esterno, ma piuttosto dall’evoluzione di alcune complicatissime vicende interiori che chiamano in causa il processo di soggettivazione e il passaggio dalle forme estreme di immaturità narcisistica a modalità più mature».

Narcisismo è la parola chiave per capire quello che c’è dentro la testa di questi ragazzi privi di progetti vitali, orfani non tanto dell’infanzia quanto del futuro, un tempo che non promette niente di buono e in cui si annida la loro mancanza di speranza, quella sensazione allarmante che l’ex bambino prodigio tanto venerato non potrà trasformarsi in un ragazzo miracoloso destinato a essere un vincente. È la cultura ossessiva della celebrità ad avere un impatto devastante sul funzionamento mentale dei più giovani, a diventarne padrona incontrastata e pericolosissima.

"Campo edipico e campo narcisistico" s’intitola non a caso il primo capitolo firmato da Charmet e Piotti. Racconta i giovani di una volta, definiti appunto "edipici", provati dalla colpa, la rinuncia, il castigo. E quelli di oggi, sregolati, immersi in un sistema mediale che ha amplificato a dismisura l’obbligo alla fama e all’esibizione del godimento. «La società del narcisismo - dice ancora Charmet - indubbiamente favorisce la rincorsa spesso affannosa e rischiosa dei ragazzi verso la conquista a tutti i costi di livelli sempre più magici ed elevati di visibilità sociale».

Se il successo è l’unico valore di riferimento, non sentirsi all’altezza di un imperativo categorico così perentorio - per quanto mascherato in forme anche seduttive - diventa uno degli ingredienti del sentimento di vergogna sociale che attanaglia i ragazzi. La morte si presenta allora paradossalmente come una risorsa: una scorciatoia per rinunciare in partenza alla gara e anche un colpo magistrale per diventare famosi.


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