C’è un termine ormai diffuso in Giappone per indicare i giovani: «nuova razza umana».
hikikomori *
Un termine che non si applica automaticamente a tutta la variegata realtà giovanile del Paese del Sol Levante, ma che esprime tutta l’inquietudine del mondo degli adulti verso un mondo inquieto e imperscrutabile.
Una classe mutante in costante adattamento a una realtà che ha perso le proprie radici ma fatica a ritrovarne di nuove e di salde.
Oggi, per troppe famiglie il mito di un’economia vincente rincorso per mezzo secolo si sta rivelando un’illusione. Questo ha creato frustrazione e delusione, ma anche nuove domande sul senso della vita. L’urgenza del benessere materiale, incentivato dal mondo produttivo e dalla pubblicità come unico valore, la priorità assoluta data all’economia, stanno riducendo l’homo nipponicus, ricco di valori, per quanto specifici, a un generico homo oeconomicus, a un apparato produttivo e, soprattutto, a oggetto e soggetto di di consumo.
Il Giappone continua a oliare il suo immenso apparato produttivo e di vendita come se la crisi non fosse un dato di fatto per molti, come se il divario tra ricchi e poveri non corresse il serio rischio di aggravarsi e la società nel suo complesso non fosse percorsa da forti inquietudini.
Indicativo, a questo riguardo, la tendenza dei giovani a tralasciare le possibilità di carriera e la sicurezza economica offerte da occupazioni a tempo pieno, a favore di meno impegnativi lavori part-time o freelance. Questo potrebbe portare molti che non dispongono di adeguate capacità o preparazione a subirne le conseguenze economiche in età adulta.
Le origini del malessere. Alla radice di questa situazione sociale stanno diverse cause, alcune confrontabili con quelle di tanti Paesi del mondo sviluppato, Italia inclusa, altri più specifici: secolarizzazione, imitazione acritica del modello occidentale nella versione americana che ha propiziato una perdita dell’identità profonda e un disagio che spingono ancor più verso l’imitazione acritica di modelli esterni e l’accettazione quasi fideistica della tecnologia, mancanza di educazione religiosa a scuola e nella famiglia, eccessiva importanza attribuita al fattore economico, altissima urbanizzazione, crescente influenza della realtà virtuale nella vita quotidiana.
Allontanata in un passato nemmeno tanto lontano la sua povertà contadina, esorcizzato l’incubo atomico a sessant’anni da Hiroshima e Nagasaki, superati diffidenza e senso d’inferiorità verso un mondo occidentale forse fin troppo idealizzato e insieme tenuto a bada dalla forza delle statistiche produttive e delle esportazioni, il Giappone scopre ora un pericolo assai difficile da combattere in coloro che maggiormente anticipano il suo incerto futuro ed esprimono l’inquietudine del suo presente: i giovani.
Non è un problema di gap generazionale. Non ci sono certezze adulte da contrapporre a idealismo e mutevolezza adolescenziali. Dalla metà degli anni Novanta del ventesimo secolo, il Paese sta vivendo una transizione che ha infilato nell’incertezza l’intera popolazione adulta e nella disperazione decine di migliaia di cittadini senza più una prospettiva esistenziale. È in questa situazione che fioriscono le varie marginalità e si alimentano in modo autoreferenziale le molte devianze di questo paese.
Non solo manga. I suoi giovani le anticipano, le vivono e le esasperano. Bosozoku, hijime, hikikomori... «bande violente», «bullismo», «ritiro dal mondo», sono termini specifici che l’Occidente ha spesso recepito attraverso i manga, i fumetti, ma che in Giappone sono parte integrante della realtà giovanile. Quello delle bande è un fenomeno che risale agli anni Sessanta, su imitazione americana, ma che ha infinite varianti e una sua peculiare evoluzione.
Dai gruppi legati ai vari aidoru, le star della musica o del cinema, a quelli che confinano con la criminalità organizzata, rappresentano un fenomeno di costume ch e, proprio per il conformismo sociale tipico della cultura giapponese, coinvolge una sostanziosa parte dell’universo giovanile, fornendo senso di appartenenza e motivazioni.
Il bullismo, che ha per oggetto chi viene considerato in qualche modo deviante, per aspetto fisico o per non conformità, con l’ideale del gruppo, diventa spesso violento, con episodi di efferatezza e crudeltà abbondantemente indagati dai media, anche con un intento repressivo verso un fenomeno che non di rado si riversa nelle aree scolastiche.
I suicidi nella fascia di età tra i 15 e i 34 anni, un record mondiale per il Giappone da molti anni, oggi sono anche di gruppo, magari concordati via internet. Un’incertezza, un male di vivere, spesso una richiesta inespressa di aiuto o comprensione che si trasmette fino all’atto finale dell’esistenza.
Fenomeno più recente ma in costante crescita, gli hikikomori sono il frutto di una società de benessere, quella in cui i giovani possono disporre di propri appartamenti, per quanto minuscoli e di una quantità di tecnologie anche sofisticate e costose..
Come sottolinea lo scrittore Murakami Ryu, icona della realtà, e della trasgressione, giovanile: «La società giapponese è vittima di un paradosso. È preoccupata del crescente numero di giovani che si isolano dal mondo, ma allo stesso tempo applaude a oggetti come la PlayStation che è oggi anche terminale internet e lettore Dvd. Una tecnologia di questo genere rende possibile produrre grafica e filmati, come pure condurre transazioni commerciali, senza nemmeno uscire di casa. Questo fissa le persone in propri spazi individuali. Nella società informatica ciascuno di noi è in qualche misura un ritirato sociale».
Un mondo a parte. Gli hikikomori, oggi forse un milione di cui il 70-80% maschi, dormono per la maggior parte del giorno e vivono di notte. Una vita virtuale: guardano la televisione, usano internet, escono per fare acquisti nei negozi aperti 24 ore su 24 che si t rovano sotto casa per acquistare cibo pronto da inserire nel forno a microonde e quel poco necessario a una persona che vuole vivere in un mondo a parte.
* di Stefano Vecchia (Avvenire, 21.05.2006)
Tokyo. I bambini giapponesi non vogliono più andare a scuola
di Luca Miele (Avvenire, venerdì 1 novembre 2024->https://www.avvenire.it/mondo/pagine/i-bambini-giapponesi-non-vogliono-piu-andare-a-scuola])
Una diserzione di massa. Che vede protagonisti non lavoratori estenuati, sfiancati da un’etica del lavoro troppo rigida, ma chi si è affacciato da poco sull’universo della socialità: i bambini. Nelle scuole elementari e medie del Giappone sempre più banchi restano vuoti. Il motivo? I bambini si rifiutano di andare a scuola. I numeri catturano un fenomeno in crescita, che si affianca a quello annoso della denatalità. E dai contorni sempre più allarmanti. Come riporta la stampa giapponese, i “futoko - gli studenti contrassegnati come "assenti", dopo aver perso trenta giorni o più di scuola - hanno raggiunto il numero record di 346.482 nell’anno scolastico 2023. L’aumento di “defezioni”, rispetto all’anno accademico precedente, è stato di 47.434 studenti. Per l’Asahi Shimbun “non era mai accaduto che la cifra degli assenti superasse quota 300mila studenti”. Più in particolare: il numero di studenti assenti è stato di 130.370 nelle scuole elementari, di 216.112 (con un aumento di 22.176) in quelle medie. Si tratta del “3,7 percento di tutti gli studenti delle scuole elementari e medie inferiori, in aumento di 0,5 punti percentuali rispetto all’anno scolastico 2022”. L’assenteismo è cresciuto per 11 anni consecutivi, con un aumento di circa 150.000 studenti dall’anno scolastico 2020.
Come leggere questo fenomeno? Si tratta di un “tassello” di una crisi ben più ampia che investe il sistema-Giappone, un Paese che deve fare i conti già con l’epidemia di “ritiri” dal mondo sociale, falange di ragazzi che scelgono la reclusione volontaria? Se è vero che il numero di suicidi tra i ragazzi nel 2023 è sceso nel Paese (di 53), l’epidemia resta inquietante: 1.010 ragazzi si sono tolti la vita nel 2023. Tra questi 507 erano studenti delle scuole elementari, medie e superiori.
Tra i fattori di un malessere strisciante, le autorità giapponesi annoverano gli effetti non ancora assimilati delle chiusure legate al Covid, la mancanza di assistenza per gli studenti che necessitano di supporto, la perdita di capacità di attrazione della scuola, l’ansia generata dal carico di aspettative che grava sui ragazzi, spesso figli unici (la percentuale dei figli unici in Giappone sfiora oggi il 20 per cento del totale). Tra i motivi di forte sofferenza del sistema scuola anche la mancanza cronica di insegnanti. Secondo il ministero dell’Istruzione giapponese, nell’anno scolastico 2021, ben 2.558 cattedre risultavano vacanti.
Takeo Kondo, professore presso il Research Center for Advanced Science and Technology dell’Università di Tokyo, punta il dito contro la lacune nell’assistenza agli studenti che soffrono di disabilità: "La mancanza del supporto necessario per i bambini con disabilità, compresi quelli con disabilità dello sviluppo, porta spesso al vicolo chiuso: quello dell’assenteismo".
Altro fenomeno finito sotto la lente è quello del bullismo. Il numero di casi registrati nelle scuole elementari, medie e superiori ha raggiunto la quota record di 732.568 casi. Ci sono stati anche 1.306 episodi di bullismo grave classificati come "casi seri" che potrebbero portare ad assenteismo cronico o suicidio, il numero più alto mai registrato.
“Preferirei di no”. Astenersi dal desiderio
di Laura Pigozzi (Doppiozero, 13 Novembre 2022).
Non vogliono discussioni, evitano il confronto, temono il conflitto. E allora come affrontano la vita che è tessuta di dialoghi, paragoni e scontri? L’evitamento conflittuale è una tecnica tra le più distruttivamente raffinate: la ritroviamo tra i manipolatori - ma non è il caso di cui voglio parlare - così come tra i figli che vogliono eludere le discussioni con i genitori, ottenendo il doppio risultato di rassicurali e di non impegnarsi in confronti estenuanti con loro. Tuttavia, questa è una procedura che allontana dal proprio desiderio per onorare il quale, al contrario, occorre ingaggiarsi in una lotta precisa e tenace, punto per punto, un passo dopo l’altro, costasse anche la pelle.
Questo tipo di negazione non è più la difesa freudiana nei confronti di un desiderio rimosso e non riconosciuto ma piuttosto una certa diffusa astensione dal desiderio, cioè una forma di negazione della vita stessa.
Esercitando quella che potremmo definire una resistenza passiva, Bartebly, lo strambo personaggio di Melville, rispondeva invariabilmente con un “preferirei di no” ai compiti che il suo datore di lavoro gli richiedeva. Senza suscitare alcun conflitto, il gentilissimo Bartebly, calmo e pacato, mette in campo una negazione in bilico tra la sfida memorabile e l’annientamento di sé. Bartleby, con la sua formula, si mantiene “in potenza”, astenendosi da ogni compito: “Non stupisce che egli dimori cosí ostinatamente nell’abisso della possibilità e non sembri avere la piú piccola intenzione di uscirne”, scrive Giorgio Agamben. Bartleby è “un puro escluso al quale nessuna posizione sociale può essere piú attribuita”, prosegue Agamben, egli è “un uomo senza referenza”, aggiunge Deleuze. Il “preferirei di no” designa una posizione anestetica, un ritiro dalla relazione, dalla vita.
Uno dei nomi di questa forma di negazione per evitamento è l’Alessitimia, uno dei nuovi sintomi più pericolosi tra i giovani che consiste nel non saper riconoscere e descrivere gli stati emotivi provati, né in sé né nell’altro. Se il linguaggio si ritrae dal campo affettivo, l’emozione può uscire dal campo simbolico per entrare in quello presimbolico, con la conseguente vittoria degli affetti primitivi, degli stati elementari, quelli che non hanno bisogno di troppe modulazioni discorsive e che gorgogliano nella notte del pensiero. È l’inabissamento, nelle varie forme in cui si declina: dipendenze, barbarie, odii, disperazioni, astensioni dalla vita. Tutto ciò accade nella caduta del linguaggio, perché la parola, in fondo, non è che un accordo, per quanto imperfetto. Come in musica.
Alessitimia deriva dal greco a «mancanza», lexis «parola» e thymos «emozione», indica il non avere parole per le emozioni. Non stupisce che sia stato usato per la prima volta (1976, Nemian e Sifneos) per definire i sintomi riscontrabili in personalità con disturbi psicosomatici, sintomi in grande aumento nelle nostre vite attuali sempre più povere di linguaggio e referenze alla cultura, alla dialettica, alla negoziazione tra gli uomini: la guerra in corso lo racconta bene: la guerra sta al corpo sociale come il sintomo sta al soma, entrambi sono effetti della negazione allo scambio simbolico.
Se non si passa per la parola, è possibile che ciò che non è simbolizzato si manifesti come sintomo nel corpo, nella relazione, nel reale del passaggio all’atto. Gli alessitimici sono persone che mancano di consapevolezza dei propri stati, hanno un’esperienza intima impoverita, sono disinteressati al mondo onirico, prediligono un pensiero di tipo concreto perché hanno gravi difficoltà di simbolizzazione. E di desiderio.
Bartebly resta alla soglia della vita, trascorre la sua pallida esistenza chiuso dentro l’ufficio, nessuna commissione esterna può essergli affidata senza che il suo datore di lavoro si senta rispondere con il consueto e gentilissimo “preferirei di no”. Di fronte a compiti non graditi Bartleby si ritira, con calma e pacatezza, nel suo eremo situato dietro a un paravento dell’ufficio, seduto alla sua scrivania, di fronte a una finestra che dà su un muro cieco. Il lettore del racconto prova - se va bene - un profondo fastidio per il claustrum di Bartleby che è spaziale, psichico e persino linguistico a causa della ripetizione, senza via d’uscita, della formula “preferirei di no” che puntualmente arriva senza varianti.
Come possiamo definire quel che investe i soggetti che non hanno più a che fare con la negazione classica, con il conflitto, bensì con l’evitamento? La psicosi per Freud è un Io che non è in grado di vedere l’Altro, che non riesce a investire sugli oggetti e sulle relazioni: la sua libido non va verso un “fuori” ma resta ingolfata nel “dentro”. In questo senso possiamo dire che la psicosi è endogamica, claustrofilica.
La personalità evitante di Bartebly è enigmatica, come quella di tutti i ritirati dalla vita. Se con il conflitto siamo nell’area dialettica, con l’evitamento torniamo al campo prelinguistico, quello che prima o poi prepara la reazione violenta, se non sugli altri, certamente su di sé. Bartebly si lascia morire di fame, situandosi all’incrocio tra l’anoressia alimentare e quella sociale. I nuovi affittuari dello studio, esasperati dall’ostinata presenza di Bartleby, fanno sì che il poveretto vada in prigione, il suo ex datore di lavoro paga il vivandiere del carcere perché gli offra pasti migliori. Naturalmente, la risposta del recluso è la stessa ogni giorno: “preferisco non pranzare oggi”.
Dall’acting out che chiama, se pur maldestramente, l’Altro, qui si è piuttosto nell’evitare l’Altro a cui si dice “preferirei di no”: attenzione, non gli si dice apertamente “no!”, come nel classico passaggio all’atto. Infatti, la sconcertante formula “I would prefer not to”, come Gilles Deleuze fa notare, non è scorretta in inglese ma è inusuale, “agrammaticale”, una formula “in bilico con altrettanta decisione tra l’affermare e il negare, l’accettazione e il rifiuto, il mettere e il levare”.
Bartleby si lascerà morire in cella, rifiutando ogni miglioramento della sua condizione di recluso: “Il cortile murato non è poi un luogo cosí triste. C’è il cielo e c’è l’erba. E la creatura sa perfettamente dove si trova”, commenta Agamben. Stare chiuso significa sapere bene dove ci si trova. Bartleby è “contingente”, riflette Agamben, e lo stesso potremmo sostenere per l’hikikomori, che esiste nel qui e ora, senza tempo. L’hikikomori non orienta le sue azioni, vive come se il futuro non lo riguardasse: il tempo, per lui, non esiste. Nel suo ritiro che nega il mondo perde il senso delle ore, dei giorni e dei mesi: lo scivolamento nella clausura si produce in modo impercettibile e anche i genitori spesso perdono il senso della durata del ritiro del figlio: “Non mi ero accorta che erano passati già sette mesi,” confessa una madre. Chi vive con un claustrato, a poco a poco, si adegua alla stessa dinamica, quasi senza averne coscienza.
La caduta nel presimbolico è contagiosa. La psicopatologia della claustrofilia, anche.
Consiglio di Stato: tredicenne bocciato all’esame di terza media, se è un Hikikomori l’esame va ripetuto
Il disagio adattivo sociale e i bisogni educativi speciali secondo i giudici amministrativi
di Giovanna Spirito (PaeseRoma, 9 Novembre 2021)
Hikikomori è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte“.
Oggi sono molti gli adolescenti che decidono di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, rinchiudendosi nella propria abitazione, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno.
Secondo gli esperti, la dipendenza da internet, indicata come una delle principali cause dietro all’esplosione del fenomeno, rappresenta invece solo una possibile conseguenza dell’isolamento.
Anche in Italia l’attenzione nei confronti del fenomeno è alta. L’hikikomori, infatti, sembra non essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, come si riteneva all’inizio, ma un disagio adattivo sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo.
Proprio in Italia emergono sempre di più casi di ragazzi che, anche a seguito del lockdown e della didattica a distanza imposte dalla pandemia, hanno prolungato o aumentato il loro isolamento dal mondo scegliendo di vivere in solitudine.
È di appena qualche giorno fa l’ordinanza della sesta sezione del Consiglio di Stato n. 8223/2021 che ha esaminato le ricadute che tale disturbo può avere nel percorso scolastico di questi ragazzi.
In particolare, la Corte ha affrontato il caso di un tredicenne bresciano, da tempo isolato a casa e a cui era stato diagnosticato questo disturbo, acuitosi maggiormente a seguito del lockdown, che è stato bocciato all’esame di terza media.
Inizialmente il Tar Brescia aveva ritenuto che l’Istituto scolastico avesse agito coerentemente col Piano didattico personalizzato, stabilendo il non superamento, da parte dell’alunno, dell’Esame di Stato, conclusivo del primo ciclo di istruzione.
Il Consiglio di Stato, al contrario, ribaltando tale decisione e accogliendo le istanze dei genitori del ragazzo, ha precisato che
“dagli atti del processo risulta che il minore ha un bisogno educativo speciale e che non risulta che l’esame orale, in coerenza con quanto prescritto dal piano didattico personalizzato, si sia svolto con modalità tali tenere nella debita considerazione la situazione particolare di bisogno dell’alunno, che attiene proprio al confronto diretto nello svolgimento dell’esame orale e che, pertanto, deve essere rinnovato tale esame da parte dell’Istituto scolastico mediante adozione di misure specifiche che tengano conto del particolare bisogno educativo speciale, infine che tale rinnovazione deve svolgersi entro tempi ristretti per consentire la continuità didattica ”.
Del resto sappiamo bene che il Progetto educativo e didattico personalizzato deve essere commisurato alle potenzialità dell’alunno e deve definire tutti i supporti e le strategie che possono portare alla realizzazione del suo successo scolastico.
Per questi motivi l’Istituto scolastico, secondo i giudici amministrativi, avrebbe dovuto, in relazione alla tipologia del disturbo, non solo predisporre delle attività didattiche specifiche e prevedere degli strumenti compensativi e delle misure dispensative opportune ma soprattutto garantire al ragazzo bresciano delle forme di verifica e valutazione personalizzate.
Così non è stato.
È questa la ragione per cui la scuola dovrà con celerità predisporre un nuovo Esame di Stato di terza media al ragazzo in modo da consentirgli così la continuità didattica.
Sindrome di hikikomori: le quattro regole per aiutare gli adolescenti "reclusi"
Quando i ragazzi si chiudono in casa e rifiutano ogni aiuto. E i genitori non sanno come affrontare il problema. E’ uno dei temi che verranno affrontati nel convegno #Supereroi fragili, a Rimini il 10 e 11 maggio
di AGNESE ANANASSO *
SONO padroni degli strumenti tecnologici ma ne sono anche vittime. Gli adolescenti di oggi sanno come si usano i device e come trovare tutto in Rete ma manca loro l’esperienza e la malizia per cavarsela, nella vita reale come in quella virtuale, evitando i pericoli quando gli si presentano. Il loro rapporto con la tecnologia, che qualche volta può trasformarsi in un rifugio sicuro e confortevole, è uno degli aspetti analizzati nel convegno “#supereroi fragili, adolescenti oggi tra disagi e opportunità”, organizzato dal Centro Studi Erickson al Palacongressi di Rimini dal 10 all’11 maggio. Un problema che a volte porta a sviluppare vere e proprie dipendenze come, ad esempio, la sindrome di hikikomori, quando i ragazzi si chiudono in camera e rifiutano ogni aiuto. Hanno come unica finestra sul mondo il Pc.
L’età della sperimentazione
“Gli adolescenti sono nell’età della sperimentazione identitaria, perché devono capire chi sono. I media sono occasioni per sperimentare, anche le sensazioni, per comprendere i propri limiti”, spiega Simone Mulargia, professore aggregato presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma, dove insegna Sociologia della Comunicazione, Internet e Social Media Studies e Teoria e Analisi delle Audience. “Capire i propri limiti non è sbagliato perché fa parte della crescita. Diventa sbagliato quando i ragazzi vengono lasciati soli perché, è bene ricordarlo, i media sono un’opportunità ma anche un pericolo: più i ragazzi stanno in Rete più aumentano le opportunità ma anche i pericoli”.
Cosa fare
Ma come si fa a proteggere questi “supereroi fragili”? Occorre costruire insieme un percorso per proteggersi dai pericoli quando questi gli si presentano, che dia loro degli strumenti per corazzarsi. “Il primo passo è dialogare coi genitori perché è vero che gli adolescenti hanno le competenze tecniche per muoversi sul web e nei social ma non hanno le competenze strategiche e informative: non sanno come costruirsi un percorso informativo” spiega l’esperto. “Per esempio non sanno distinguere le fake news dalle notizie vere. Un modo per farlo per esempio è leggere in classe il caro vecchio quotidiano”.
Il ruolo dei genitori
Per costruirsi queste competenze i genitori sono fondamentali. E d’altra parte questi hanno sete di sapere. Tra le prime domande che si pongono e che pongono agli addetti ai lavori è ‘quanto tempo i figli possono passare davanti allo schermo ogni giorno?’. Le risposte che arrivano loro sono spesso contraddittorie. “Su questo punto noi esperti in effetti siamo responsabili perché la tecnologia corre e ogni settimana vengono valutati nuovi aspetti” dice Mulargia. “Dovremmo fare chiarezza prima di parlare coi genitori altrimenti non facciamo altro che confonderli ma è maledettamente complicato anche per noi stare dietro alle continue evoluzioni tecnologiche. Si possono individuare però alcuni elementi fondamentali per aiutare i ragazzi a crearsi quella corazza di cui parlavo prima: ascolto, compresenza e sapere sempre cosa fanno quando stanno davanti allo schermo. I genitori non devono smettere di fare gli adulti perché anche se i figli nascono ‘digitali’ e sanno fare tanto, restano comunque dei ragazzi e hanno bisogni dei grandi. Certo, talvolta è comodo lasciare i figli alla cosiddetta “bambinaia virtuale” ma bisogna impegnarsi nel cercare di farne a meno e soprattutto controllarli quando usano i media, aumentando, man mano che crescono, la loro sfera di autonomia e sperimentazione”.
La sindrome che arriva dal Giappone
La tecnologia può diventare anche una sorta di palliativo nell’adolescenza, specialmente per quei ragazzi con carattere introverso e dotati di una spiccata sensibilità, che tendono a isolarsi perché non condividono i valori della società in cui vivono. Tendono quindi a rinchiudersi non solo in se stessi ma anche nella loro camera eadottano come unica finestra virtuale lo schermo del pc o del telefono. Questo fenomeno che in Giappone è diventata una vera e propria sindrome, prende il nome di hikikomori.
“Spesso si confonde l’hikikomori con la dipendenza dalla tecnologia, mentre l’abuso della tecnologia è solo una conseguenza, non una causa di questo fenomeno”, afferma Marco Crepaldi, specializzato in psicologia sociale e comunicazione digitale, che nel 2017 ha fondato l’Associazione Nazionale Hikikomori Italia, di cui è presidente.
“Il giovane, di solito adolescente, si isola completamente e trova nel web un rifugio ma non sviluppa dipendenza: togliergli il computer non è la strada per farlo uscire dall’isolamento”. Crepaldi ha deciso di fondare l’associazione Hikikomori Italia perché si è reso conto che nel nostro Paese sono tantissimi i genitori che hanno figli con questo disturbo del comportamento. Oggi l’associazione organizza incontri nelle scuole e conta migliaia di genitori. Ma in Italia ci sono centinaia di migliaia di casi potenziali, che secondo l’esperto emergeranno nei prossimi anni. Perciò l’associazione ha creato 50-60 gruppi distribuiti da Nord a Sud, in cui psicologi volontari aiutano le famiglie ad affrontare questo tipo di problema.
La scuola può fare la differenza
A dimostrazione che questo fenomeno ha raggiunto una portata considerevole il ministero dell’Istruzione ha creato un tavolo, di cui Crepaldi fa parte, per tracciare delle linee guida a livello nazionale per affrontarlo in modo organico. Il ruolo della scuola è infatti fondamentale nel prevenire e trattare quella che è diventata una vera e propria sindrome e che mette in crisi tutta la famiglia.
I sintomi
“Poiché non esiste una vera diagnosi è difficile per i genitori capire di cosa si tratta perché il ragazzo, solitamente tra le medie e il liceo, inizia a manifestare insofferenza nei confronti della scuola” continua Crepaldi. “E questo avviene anche se il giovane ha dei buoni voti e gli piace studiare: il disagio non è verso lo studio ma verso la socialità con i compagni e verso le performance che gli vengono richieste, anche se non esplicitamente. Spesso infatti i ragazzi hikikomori sono intelligenti ma introversi. Si sentono diversi, non si identificano con i valori della società di cui fanno parte, quindi tendono ad allontanarsene e a rinchiudersi nel loro mondo, in una dimensione in cui si trovano a proprio agio. Questo isolamento dura mediamente tre anni ma può durare anche molto di più: è facile trovare anche 40enni che non ne sono usciti perché non si sono fatti aiutare”.
Le quattro buone prassi
L’ostacolo più difficile da superare è accettare un aiuto dall’esterno, a partire dai genitori, che d’altra parte non sanno come fare. Tornare ad avere fiducia nei familiari è il primo passo per aprirsi agli altri, anche agli psicologi, agli insegnanti e a tutti coloro che li vogliono aiutare a uscire dal circolo vizioso della solitudine.
“Ecco perché è fondamentale aiutare le famiglie insegnando loro le cosiddette buone prassi” continua Crepaldi. “Prima fra tutte, quando ci si accorge che il figlio non vuole andare a scuola, occorre capire che potrebbe non essere un capriccio ma la manifestazione di un disagio. In questo caso non va riportato subito a scuola, ma bisogna iniziare ad allentare la pressione: il ritorno a scuola è l’obiettivo, non lo strumento. Va inoltre sospeso il giudizio sulla sua visione della vita e andargli incontro, comprendendo da dove origina la sua ansia, cioè nella difficoltà di stare nell’ambiente sociale della scuola. Spesso questi ragazzi diventano anche vittime di bullismo proprio per la loro diversità dal comune sentire”.
* la Repubblica, 01 maggio 2019 (ripresa parziale - senza allegati).)
Chi sono gli hikikomori
Gli adolescenti autoreclusi sempre attaccati a Internet
Il termine è nato in Giappone ma il fenomeno è in costante crescita anche nel nostro Paese
di Cristina Marrone (Corriere della Sera, 26.11.17)
Si chiamano hikikomori , sono gli adolescenti che rifiutano il mondo e si chiudono in camera senza più volerne uscire per mesi o addirittura anni.
Ma è soltanto il nome a essere giapponese, perché il fenomeno, esploso nel Paese del Sol Levante negli anni Ottanta, è da tempo in crescita anche nel nostro Paese.
«I ragazzi vittime del ritiro sociale non vanno a scuola, stanno sempre al computer, non partecipano a nessuna attività sociale» spiega Davide Comazzi, psicoterapeuta, coordinatore del consultorio gratuito del centro milanese “Il Minotauro”, che si occupa da molto tempo di disagio adolescenziale.
I primi casi da noi sono stati diagnosticati nel 2007 e da allora i numeri aumentano anno dopo anno.
«Non sappiamo con precisione quanti siano i giovani italiani che si sono “ritirati”, le stime parlano di 100 mila casi. La maggior parte sono maschi, hanno 15-16 anni, ma l’età di esordio si è ultimamente abbassata e sono coinvolti anche ragazzi delle scuole medie» precisa l’esperto, autore insieme ad Antonio Piotti e Roberta Spiniello del libro “Il corpo in una stanza” (Franco Angeli, 2015), indagine sugli hikikomori italiani.
È facile confondere il dramma del ritiro sociale con la dipendenza o la depressione, perché molti aspetti sono comuni. Ma questi ragazzi in realtà, se sono privati di Internet, fanno altro, sempre nella loro stanza.
«Di solito chi è depresso si sente triste, piange, non riesce a relazionarsi. Invece negli hikikomori - chiarisce Comazzi - il sentimento prevalente è la vergogna, l’incapacità di reggere il peso dello sguardo dei coetanei. Questi ragazzi possono sembrare lazzaroni o incapaci di affrontare la frustrazione delle scuole superiori, in realtà si sentono sempre in pericolo. Le regole sono cambiate e improvvisamente non devono più fare i “bravi bambini”. Si ritrovano con un corpo cresciuto e devono essere belli, forti, capaci di conquistare una ragazza. Ma non si sentono all’altezza e sperimentano un sentimento di mortificazione. Temono la competizione, il rifiuto. I primi sintomi del ritiro sociale sono fisici: soffrono di mal di pancia, cominciano a restare a casa e a un certo punto non escono più».
Ma chi sono gli adolescenti a rischio? Si può facilmente cadere nell’errore di credere che siano solo ex bambini viziati e non abituati alle frustrazioni.
«Non è così - precisa l’esperto - non sempre alle spalle dei ritirati sociali ci sono genitori che le danno tutte vinte. Piuttosto, invece, questi ragazzi crescono spesso in un clima di alte aspettative, perché non di rado sono anche talentuosi. Tutti si attendono grandi cose da loro, che però non si sentono all’altezza. Così alcuni chiudono la partita molto presto: abituati ad andare bene si ritrovano a non funzionare e allora, per vergogna, si rifugiano in una stanza».
Posti di fronte alle comuni sfide della crescita scelgono di evitare il mondo esterno e si autorecludono nella propria camera, dove i contatti sono limitati all’universo virtuale, con i videogiochi e i social network. Tagliati i ponti con il mondo che sta fuori, gli hikikomori si rifugiano in un universo parallelo attraverso la Rete, grazie alla quale è possibile costruire legami senza mettere in gioco la propria fisicità: su Internet è tutto virtuale, nessuno si aspetta nulla ed è facile crearsi una vita fuori dalla vita.
Ma la Rete, pur messa sotto accusa, può talvolta rappresentare anche la chiave che permette ai “ritirati” di tornare nel mondo, quello reale, di restare in contatto con i coetanei.
«Tanto più questi ragazzi si vergognano da un punto di vista virile, tanto più si allenano online e diventano bravissimi nei videogiochi di competizione» sottolinea Comazzi. «Con l’allenamento in Rete inizia una sorta di riabilitazione. Iniziano in modalità offline poi, acquisendo sicurezza compaiono online e lì tornano a creare il gruppo dei maschi rigorosamente virtuale, dove riescono a farsi accettare e talvolta anche a diventare leader. Si addestrano ad assumere codici maschili, qualcuno si crea anche una mini palestra in casa. I partecipanti a questi gruppi decidono magari poi di incontrarsi all’esterno e inizia così la rinascita».
Naturalmente è sempre una questione di misura e gli adulti devono vigilare e accettare il ritiro come una fase transitoria, senza forzare mai i tempi. Il ragazzo non va costretto a uscire se non si sente pronto, perché vivrebbe un’esperienza di mortificazione troppo forte. In famiglia l’aiuto principale più che dai genitori arriva dai fratelli, che non vedono “l’isolato” come una persona male.
«Ricordo il caso di un adolescente ritirato - racconta Comazzi -. I genitori erano angosciati. Dopo un percorso terapeutico che ha coinvolto la famiglia, un giorno la sorella lo ha invitato ad uscire con lei e il fidanzato per mangiare una pizza. Evidentemente si sentiva pronto, ed ha lasciato la sua camera. E quel giorno ha ricominciato a vivere».
Adolescenti interrotti
Perché si chiudono in casa
In Giappone, dove sono stati «riconosciuti» si chiamano hikikomori. In Italia sono 80 mila
di Irene Soave (Corriere della Sera, 06.02.2016)
«È come avere in casa una torre, e tuo figlio è dentro. Tu ci giri intorno ma non puoi mai entrare». Marco, figlio unico di due professionisti, ora è all’università. Ma in quella che sua mamma chiama «la torre» e che per la psicologia è una nuova sfida chiamata «ritiro sociale», ha trascorso quasi tre anni. «Dormiva fino alle 15: giocava online con ragazzi in America e aveva quel fuso. Nelle settimane peggiori non si lavava nemmeno».
In Giappone quelli come Marco si chiamano «hikikomori» e psicologi e psichiatri se ne occupano da tempo. In Italia è una condizione «nuova»: il primo congresso sul ritiro sociale in adolescenza ha riunito a Milano, lo scorso weekend, un migliaio di addetti ai lavori. È «ritiro sociale», spiega lo psicoterapeuta Antonio Piotti, fra gli organizzatori del convegno e curatore del saggio sul tema Il corpo in una stanza (Franco Angeli, 2015), «se il ragazzo si chiude in casa per almeno sei mesi, rifiutando i contatti sociali e passando ore su Internet. Quasi sempre lascia la scuola». Una condizione estrema, ma non rara, se al congresso è emersa la stima di 80 mila casi in Italia. Alla milanese Fondazione Minotauro, che negli ultimi tre anni ha preso in carico un centinaio di «hikikomori», la metà dei 500 ragazzi che arrivano ogni anno ha già abbandonato la scuola.
Quasi mai per problemi di studio: Marco, ad esempio, autorecluso a 17 anni, «era sempre stato bravissimo». E proprio lì affioravano i primi segni di quello che negli anni si sarebbe rivelato un patologico senso di inadeguatezza. «A 9 anni, sulla pista di atletica - racconta il papà - un compagno lo sorpassò: lui finse di prendersi una storta e lasciò la gara. Era iper competitivo, un soldatino. In terza media tornò a casa in lacrime e raccontò che i compagni lo avevano picchiato. Ci preoccupammo molto, ma già il giorno dopo arrivò a casa minimizzando: “Tutto risolto papà”. Come volesse tranquillizzarci. E noi ci tranquillizzammo, anche se lui stava sempre più chiuso in camera».
È proprio il tentativo di non preoccupare i genitori l’allarme più rilevante; più della cosiddetta «dipendenza da internet», che con l’avvento degli smartphone è diventata una categoria, anche clinica, fumosa. «Il primo segno di disagio - spiega la psicoterapeuta del Minotauro Loredana Cirillo - è che va sempre tutto bene. Non esiste un adolescente che non ha problemi, che non litiga, che sta volentieri molto da solo». Il fatto di passare molto tempo online, invece, «è solo un sintomo. I genitori vengono quasi sempre da noi lamentando che il ragazzo vive incollato al monitor e che ogni limite o divieto non lo schioda di lì. Ma il computer aiuta solo ad “abitare” il ritiro, fornendo una socializzazione vicaria, da cui è assente il corpo “adulto” che il ragazzo sta sviluppando. Ed è questa la chiave: il “ritirato” si sente inadeguato a diventare un uomo».
«Facevamo contratti scritti - ricorda il papà -: Marco poteva entrare a scuola alle 10 se però si limitava a tre ore di videogiochi. Arrivava il mattino, e lui restava a letto. Io gli tiravo l’acqua in faccia, ma era inutile. Lo disprezzavo». Marco migliora con l’intervento dello psicologo. «Spesso - spiega Piotti - i ragazzi rifiutano di uscire per un consulto. Perciò possiamo anche intervenire a domicilio». E preparare la strada a una terapia vera, a cui si sottopongono anche i genitori. «Abbiamo capito che le nostre aspettative sul successo di Marco andavano ritirate - riprende il padre -. Non è stato un processo breve né facile. Ma ho capito che era quasi finita quando dopo mesi che non mi parlava ho visto il suo nome sul display del telefonino. “Vorrei provare la maturità”, mi ha detto. Ero in ufficio, sono andato a scuola a cercare i prof, a chiedere di riaccettarlo. È il ricordo più bello della mia vita. Come se Marco fosse nato di nuovo» .
TENDENZE
Giappone, largo agli uomini "erbivori"
Cambia il modello maschile nel Sol Levante: addio samurai, seduttori e impiegati modello, si fa largo una generazione di uomini che coltiva anche il proprio lato femminile
di Fabiola Palmeri
Niente a che fare con i samurai, né col mito degli impiegati modello dediti all’azienda. Ora in Giappone fanno tendenza gli “Erbivori”, o Soshokukei danshi: i ragazzi giapponesi under 30 che stanno lentamente rivoluzionando l’universo maschile. Perché loro sono teneri con le proprie mamme e vanno con loro a fare shopping, stanno molto attenti ai prezzi, sono decisamente poco interessati alla carriera lavorativa e pur non disdegnando la compagnia femminile non sono particolarmente interessati né al sesso né ai fidanzamenti. E visto che in lingua nipponica sesso vuol dire "relazione di carne”, si spiega il nome Erbivori.
Guarda: Le immagini
La definizione è di Maki Fukasawa, scrittrice che per prima, nel 2007, cominciò a scrivere del fenomeno. Poi l’anno successivo la presidente dell’agenzia di ricerca Infinity, Megumi Ishikubo, pubblicò nel 2008 "Gli uomini erbivori che assomigliano alle donne stanno per cambiare il Giappone": un libro con interviste a circa 100 giovani uomini fra i 20 e i 30 anni. In un articolo apparso sul Japan Times, la Ishikubo spiega che molti dei ragazzi da lei incontrati confessano che non uscirebbero mai di casa senza un look perfetto e che la propria autostima cresce quando si sentono carini. Inoltre affermano di non inseguire il sogno di un impiego a vita e che preferiscono guadagnare di meno piuttosto che essere costretti ad orari e ritmi di lavoro stressanti.
Un netto cambiamento generazionale dei maschi nipponici? Sembra proprio di sì. Secondo quella ricerca il 60% degli uomini fra i 20 ed i 34 anni appartiene in qualche modo alla categoria Soshokukei. E, riflettendoci, la cosa non è poi così strana. In fondo dalla fine della seconda guerra mondiale il Giappone ha potuto godere di 60 anni di pace, non ha quasi un esercito, niente servizio di leva obbligatori, e il tasso di omicidi commessi da giovani uomini è il più basso del mondo.
Secondo Masahiro Morioka, professore di filosofia all’Università di Osaka, in Giappone l’ideale di maschio violento e forte, tipico ad esempio dei soldati, non ha riscontro e gli uomini sono cresciuti liberi da tali limiti di genere. C’è poi un’altra interessante spiegazione alla tendenza erbivora, che si lega alla tradizione. Già nell’epoca Edo (1603-187), quando per 260 anni durò la pace sotto lo shogunato di Tokugawa, l’androginia era di moda. A teatro giovani uomini interpretavano i ruoli femminili e le donne quelli maschili. Nelle stampe erotiche Shunga si dipingevano uomini vestiti con kimono magnifici e truccati proprio come le loro compagne di giochi, tanto che è molto difficile distinguerli.
Tornando a oggi, c’è da dire che in molti blog femminili è palpabile la preoccupazione per questa evoluzione del mondo maschile. Tante donne si lamentano perché gli erbivori sono sì molto belli, delicati, dolci, gentili ma non hanno corpi virili, non prendono decisioni e hanno pochissimo denaro.
I risultati di una ricerca mondiale presentata al Meeting internazionale di Bari
Ai primi posti il Turkmenistan e il Laos, ma anche nazioni sviluppate come Canada e Svezia
L’ottimismo? Non abita più qui
i giovani italiani ultimi in classifica
La scarsa fiducia nel futuro è quasi sempre legata al problema del lavoro
di GIULIA CERINO *
La platea dei delegati al Meeting internazionale dei giovani in corso a Bari BARI - Ultimi in classifica, insieme al Portogallo, Singapore, India e Ghana: l’ottimismo globale dei giovani italiani è sotto terra. A dirlo è un sondaggio condotto da Gallup Europe e presentato dal suo direttore, Robert Manchin, in occasione del Meeting internazionale dei giovani a Bari. I numeri parlano chiaro: l’indice di ottimismo dei giovani italiani è ben al di sotto della media mondiale, lontano anni luce dalla top ten della speranza, e li relega al 118esimo posto della classifica con un indice di ottimismo del 44 per cento.
Forse perché chi è più indietro non può che sperare in meglio, nella top ten ci sono paesi come il Turkmenistan (primo con un indice di ottimismo dell’87 per cento), il Laos, l’Uzbekistan e le Filippine. "Certo - dice Ila, 23 anni, delegato al Meeting - nei nostri paesi, peggio di così non si può stare". Eppure, il livello di sviluppo economico non è determinante. Rispetto ai coetanei italiani, ad esempio, ben altra fiducia nel futuro hanno gli svedesi, i canadesi, gli australiani e gli olandesi, tutti nelle prime dieci posizioni della classifica.
In bilico invece è la Francia che, con il suo 71esimo posto, si attesta sul valore medio mondiale di ottimismo (indice a quota 54%). "E chi ci crede che troveremo lavoro domani. Io non credo più a niente, mi sento inerme, incapace di realizzarmi". Nicola, che vive a Bari e al Meeting è presente come partecipante, sembra esprimere perfettamente la condizione rilevata dalla ricerca Gallup Europe. Le ragioni dietro il pessimismo delle giovani generazioni italiane si nascondono dietro due parole chiave: disoccupazione e precariato. Secondo l’inchiesta, infatti, la questione del lavoro rimane in testa a tutte le priorità indicate dagli interpellati.
"L’immigrazione, il crimine e le tasse - dice Lorenzo, delegato al Meeting barese - contano di meno quando si tratta di mangiare e poter vivere sereni, andarsene di casa e sentirsi soddisfatti di sé stessi e realizzati. Oggi si anche tenuto un workshop che si chiama ’A decent job is a right’. Non a caso era pieno d’italiani...". In realtà, neppure il problema della disoccupazione basta a spiegare il prevalere del pessimismo tra i giovani italiani: "Quella è un’emergenza che tocca tutti - dice Virginie, ventiquattro anni, francese di nascita - . Io ho vissuto in Francia, in Belgio e Inghilterra e loro sono messi anche peggio degli italiani. La questione non è solo la precarietà. Si tratta di un modus vivendi. Di un pessimismo generale e fisiologico intrinseco alla nostra generazione di insofferenti".
Dall’inchiesta Gallup emerge del resto che la ridotta spearanza dei giovani italiani non è isolata. Nel mondo, tra le nuove generazioni il 49% pensa infatti che nel futuro la vita sarà peggiore di come è adesso. In Europa, inoltre, gli ottimisti sono in netta minoranza: il 38 per cento. "Non andrà mai bene niente - dice Luca, 24 anni, anche lui al Meeting come spettatore - : siamo in Europa ma ci posizioniamo nelle classifiche con l’Africa. Prima eravamo quasi in Africa e volevamo l’Europa. Non ne usciremo mai".
Non è un caso, forse, che tra i ragazzi italiani la ridotta fiducia nel futuro vada di pari passo con la scarsa considerazione per gli effetti dei cambiamenti climatici sull’ambiente. I giovani italiani se ne curano poco, anzi, quasi per nulla. Dai dati riportati dall’inchiesta emerge infatti che sotto i 30 anni di età, le conoscenze in materia di climate change sono bassissime. Tanto basse da fare del Belpaese l’unica nazione europea con la0 Grecia a rientrare nella "fascia della bassa consapevolezza", la stessa di cui fanno parte tutti i paesi dell’Africa e buona parte dell’Asia. In altre parole, su una scala da 10 a 60 in cui 60 è la massima consapevolezza di ciò che accade e accadrà nel mondo a causa del climate change, i giovani italiani si fermano a quota 20/30. L’unica certezza condivisa con gli altri è che "la causa dei cambiamenti climatici è da ricercare nell’azione irresponsabile dell’uomo".
© la Repubblica, 20 gennaio 2010
I giovani giapponesi
Hikikomori e il mondo nascosto
Una generazione che rifiuta la luce del sole: vivono la notte, chiusi dentro casa, senza alcuna relazione sociale
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 05.03.2009)
Il giovane Jun a 18 anni fa il test di ammissione in una università ma non lo supera. Cerca di non scoraggiarsi, continua a studiare da solo, ma lentamente va alla deriva, fin quando si chiude nella sua stanza, dorme durante il giorno, di notte legge i testi di filosofia e guarda la televisione. Occasionalmente prende la sua mountain-bike e di notte scorrazza per le strade solitarie della città che dorme. E quando incontra qualcuno dei suoi vicini - racconta ancora Jun - si sente guardato con diffidenza e a volte con ostilità: è troppo diverso dagli altri ragazzi.
In un recente congresso sulla salute mentale in Giappone gli psichiatri hanno discusso la condizione degli hikikomori, i giovani giapponesi, come il giovane Jun, che rifiutano in modo drastico il mondo della scuola e le prospettive offerte dalla società degli adulti, rinchiudendosi nella loro stanza dove si costruiscono un mondo alternativo abitato esclusivamente da loro.
La condizione sociale degli hikikomori è molto diversa da quella dei ragazzi e delle ragazze che vivono in occidente, ed è difficilmente riconducibile a una diagnosi psichiatrica nonostante ne parlino soprattutto gli psichiatri, forse perché più attenti a queste forme di disagio sociale. Ancora una volta, come occidentali, ci troviamo disorientati nei confronti di questo fenomeno giapponese, anche perché le categorie psichiatriche di più frequente uso circoscrivono il malessere individuale, ma non possono trasferirsi ai comportamenti collettivi.
La storia emblematica dell’hikikomori Jun è raccontata dal giornalista americano Michael Zielenziger in un importante testo, Non voglio più vivere alla luce del sole (Elliot, pagg. 408, euro 22; sottotitolo, nell’originale "How Japan Created its own Lost Generation") che esplora il mondo nascosto degli hikikomori. Probabilmente l’occhio del ricercatore Zieleziger, che si occupa dei rapporti socio-economici fra occidente e oriente, può farci entrare in questo mondo senza tradurlo nella terminologia psichiatrica. Che sia una sindrome sociale è confermato dal numero di hikikomori: circa 850 mila giovani fra i 14 e i 30 anni che vivono praticamente rinchiusi in casa, a carico della famiglia, incapaci o determinati a non rientrare nel grande flusso sociale. Quando le pressioni della famiglia, della scuola o del mondo della produzione diventano troppo opprimenti e allo stesso tempo ci si sente vittime del conformismo e del rifiuto da parte degli altri, inizia il progressivo distacco dei giovani dal mondo. E infatti nelle storie di molti hikikomori ritorna frequentemente il senso di essere stati rifiutati dal gruppo e di non aver mai trovato nessuna comprensione da parte degli altri nei momenti di difficoltà.
È solo da poco che la società giapponese ha riconosciuto la difficile condizione dei giovani che rimangono ai margini della vita sociale. E anche nella letteratura si riflette il mondo degli hikikomori. Ad esempio nel romanzo La fine del mondo e il paese delle meraviglie (Einaudi), Murakami Haruki crea uno scenario che ricorda le stanze in cui si rinchiudono i giovani hikikomori, una piccola città spettrale, chiusa dentro le sue mura che la separano dal resto del paese, il mondo di qua e il mondo di là, due realtà parallele e distanti. E in questa città gli abitanti si aggirano senza la propria ombra, privi di ogni sentimento in una sorta di distacco che li mette al riparo dai sentimenti.
Anche in un altro libro di Murakami, Norwegian Wood (Einaudi), viene esplorato il mondo segreto dei sentimenti e della solitudine degli adolescenti giapponesi. Il protagonista Toru si sente diverso rispetto al mondo intorno a lui, continuamente tormentato dal dubbio di aver sbagliato o di poter sbagliare vincolato a un alto senso di giustizia personale. Toru, come era successo più di cinquanta anni prima al giovane Holden, va all’università di Tokyo per studiare, ma si sente estraneo ai compagni e all’ambiente del suo dormitorio.
Affetti da un’anoressia sociale gli hikikomori rifiutano le suggestioni e le promesse del mondo degli adulti e si costringono a vivere in modo monastico circondandoti dai gadget elettronici, con i quali continuano a comunicare col mondo esterno. In questo modo sfuggono alle pressioni della scuola e dell’università prima e del mondo del lavoro dopo, rimanendo fedeli a se stessi e alle proprie aspirazioni interiori.
Aspiranti suicidi. Ne parla Gustavo Charmet
Quelli che flirtano con la morte
di Luciana Sica (la Repubblica, 05.03.2009)
Radicale, lugubre, profondo, inconfessabile: Gustavo Pietropolli Charmet usa questi aggettivi per descrivere il dolore di un ragazzo che decide di togliersi la vita. Un dolore più diffuso di quanto s’immagini, se è vero che il sessanta per cento degli adolescenti "flirta" con l’idea della morte. Quasi sempre sono solo pensieri neri, ma possono diventare ossessivi e trasformarsi in "fantasie suicidarie", secondo la definizione tecnica: si coltivano a lungo e nel segreto più assoluto, si basano su sentimenti poco dicibili come la vergogna dovuta a un’inadeguatezza (reale o immaginaria) o anche la vendetta per qualche forma di risentimento che non lascia tregua.
Gustavo Charmet è uno studioso brillante, un clinico da sempre in trincea. Settant’anni, psichiatra di formazione freudiana, ha insegnato per una vita alla "Bicocca" ed è ancora attivissimo a Milano con i suoi giovanissimi pazienti, quelli che con disarmante semplicità definisce tristi, più rassegnati che nichilisti, spesso enigmatici se non indecifrabili per il mondo adulto. È lui il cantore della generazione senz’altro più mutante rispetto al passato, anche quello recentissimo: I nuovi adolescenti s’intitola il suo volume più importante uscito qualche anno fa da Cortina, e ora è lo stesso editore a pubblicare Uccidersi - sottotitolo "Il tentativo di suicidio in adolescenza" (pagg. 336, euro 24).
È un libro collettaneo che Charmet firma con un terapeuta di formazione filosofica, Antonio Piotti, tracciando il ritratto sorprendente di questi ragazzi a tratti anche spavaldi, in realtà spesso fragilissimi. È una raccolta di saggi che non nascono nel segno dell’astrattezza teorica, ma piuttosto dall’esperienza clinica in un Crisis Center milanese: è durata sette anni, ha interessato circa ottocento adolescenti reduci da un tentato suicidio e comunque attratti dal desiderio di distruggersi.
Il Centro ha una storia di per sé drammatica. Si chiama "L’amico Charly" e la denominazione sembra piuttosto leggera, ma Charly aveva appena sedici anni quando si è ucciso con un colpo di pistola. È stato poi suo padre a volere la nascita dell’associazione, per aiutare altri ragazzi in bilico tra la vita e la morte e per sostenere i loro genitori a volte del tutto ignari, spesso disperati, quasi sempre soli.
Il responsabile scientifico del Centro è stato Charmet, alla guida di un’équipe capace di contenere sentimenti del tutto legittimi come l’ansia o anche la paura. «Nessuno dei nostri giovani pazienti è mai morto», è lui a dirlo con sollievo e una punta d’orgoglio. E in effetti il risultato è straordinario: «Ci siamo ritrovati alle prese con ragazzi che tramavano in continuazione qualcosa di terribile come buttarsi dalla finestra, anche del nostro studio. O tornare a casa per annodarsi una corda al collo... Ci mettevano anche nelle condizioni di prevederlo e quindi nell’obbligo di indovinare come impedirlo, senza nessuna ricetta magica a portata di mano».
Ma come sono questi aspiranti suicidi? A leggere le pagine del libro: abbastanza "normali", quasi tutti, almeno all’apparenza. Non sembrano particolarmente sofferenti, depressi, sconfitti, solitari. Nella grande maggioranza dei casi non presentano sintomi. Il tentativo di considerarli malati, d’infilarli in una casella diagnostica della psichiatria, è destinato a fallire e comunque non spiega nulla della particolare relazione che questi giovanissimi coltivano con la morte.
Charmet: «Sono autorizzati a non dare nell’occhio perché sono dei clandestini all’interno della famiglia, della scuola, della coppia. I ragazzi che aspirano a togliersi la vita si consolano delle frustrazioni e tollerano molto bene le regole perché hanno già preso le loro decisioni. Se poi il progetto non viene attuato, non dipende dal mondo esterno, ma piuttosto dall’evoluzione di alcune complicatissime vicende interiori che chiamano in causa il processo di soggettivazione e il passaggio dalle forme estreme di immaturità narcisistica a modalità più mature».
Narcisismo è la parola chiave per capire quello che c’è dentro la testa di questi ragazzi privi di progetti vitali, orfani non tanto dell’infanzia quanto del futuro, un tempo che non promette niente di buono e in cui si annida la loro mancanza di speranza, quella sensazione allarmante che l’ex bambino prodigio tanto venerato non potrà trasformarsi in un ragazzo miracoloso destinato a essere un vincente. È la cultura ossessiva della celebrità ad avere un impatto devastante sul funzionamento mentale dei più giovani, a diventarne padrona incontrastata e pericolosissima.
"Campo edipico e campo narcisistico" s’intitola non a caso il primo capitolo firmato da Charmet e Piotti. Racconta i giovani di una volta, definiti appunto "edipici", provati dalla colpa, la rinuncia, il castigo. E quelli di oggi, sregolati, immersi in un sistema mediale che ha amplificato a dismisura l’obbligo alla fama e all’esibizione del godimento. «La società del narcisismo - dice ancora Charmet - indubbiamente favorisce la rincorsa spesso affannosa e rischiosa dei ragazzi verso la conquista a tutti i costi di livelli sempre più magici ed elevati di visibilità sociale».
Se il successo è l’unico valore di riferimento, non sentirsi all’altezza di un imperativo categorico così perentorio - per quanto mascherato in forme anche seduttive - diventa uno degli ingredienti del sentimento di vergogna sociale che attanaglia i ragazzi. La morte si presenta allora paradossalmente come una risorsa: una scorciatoia per rinunciare in partenza alla gara e anche un colpo magistrale per diventare famosi.
"LA VITA SQUILIBRATA" (KOYAANISQATSI = LIFE OUT OF BALANCE) - SU TUTTO IL PIANETA!!! LAVORARE A RIEQUILIBRARE IL CAMPO.....
Il ’delirio’ della Gerarchia della Chiesa ’cattolico’-romana è ormai galoppante!!! E se vogliamo aiutarla a guarire o, che è lo stesso, se vogliamo aiutarci a guarire (il ’delirio’ è generale, e non solo suo!!!) non possiamo non riprendere a pensare - a partire da noi stessi, e da noi stesse!!! Il problema è pensare proprio a partire da noi, dagli esseri umani in carne ed ossa - dalle persone, quale siamo e quale vogliamo essere, da quell’individuo che non sia un (o una) “Robinson”, come voleva il ’vecchio’ Marx non marxista e non hegeliano!!! Basta con le robinsonate! La questione è la Relazione (Dio è Amore), e una relazione non edipica!!! Una relazione edipica (sia dal lato della donna sia dell’uomo) porta a postulare l’esistenza di un “dio” (un dio-uomo o un dio-donna) e, di qui, la concezione di un ’mondo’ dove il diritto di comandare in cielo e in terra sia del “dio” (del dio-uomo o del dio-donna)!!! Da questo punto di vista, la Chiesa ’cattolico’-romana è solo l’ultimo baluardo di quel “dio” che garantisce la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’educazione edipico-capitalistica. Perché i sacerdoti (se vogliono) non si possono sposare?!, o perché le donne non possono diventare sacerdot-esse?!, ma perché il “dio” è concepito come dio-uomo e, come tale, solo il dio-figlio può essere come il dio-padre... e la donna solo come la madre-dea. Sulla terra (e per tutti e per tutte) il Dio-Figlio è il figlio-dio e il fratello di tutti e di tutte, ma in cielo solo Lui può essere il Padre... e lo Sposo della Madre - e, siccome è solo lui che può avere rapporti con il cielo (ma il messaggio di Gesù proprio perché è un buon-messaggio dice che tutti e tutte siamo tutti e tutte figli e figlie di Dio-Amore... e tutti e tutte possiamo avere rapporti con “Lui”!!!), deve essere anche ’donna’ (perciò si traveste così come si traveste) per ’generare’ e ’riprodurre’ se stesso, in circolo...e comandare su tutti, su tutte, e su tutto! Che follia, senza alcuna saggezza - sconsolatamente!!! Vedere il caso del Giappone - nella cultura giapponese c’è la Dea in cielo, e l’imperatore sulla terra; ora-oggi!!!, dal momento che alla coppia imperiale è nata una bambina, si parla di cambiare la Costituzione per far sì che Lei possa accedere al trono ... ma il problema è più complesso - come si può ben immaginare - perché ... deve essere cambiata anche la Costituzione celeste dell’Impero del Sol Levante!!! Se no, l’Imperatrice con Chi si ’sposerà’?! Con la Dea?!! Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente ..... e anche della sua fine, se non ci portiamo velocemente fuori da questo orizzonte edipico-capitalistico di peste, di guerra e di morte? Non è ora di andare al di là della tragedia, e riprendere il filo dall’ “Inizio” (filosoficamente, parlando)?! Cosa significa essere EU- ROPEUO*?!! In principio cosa c’era, il Logos buono o il Logos cattivo?! Sta a noi, tutti e tutte, deciderlo - qui ed ora (come sempre, del resto)!!!
Federico La Sala
*Sul significato del termine “eu-ropeuo”, mi sia consentito, cfr. Federico La Sala, “Terra!, Terra!: il Brasile dà una ’lezione’ all’Europa e alle sue radici” (www.ildialogo.org/filosofia, 31.10.2005).
Giovedì, 17 novembre 2005
A pesare sul tracollo dei liberaldemocratici la crisi economica e l’occupazione ai minimi storici
Il futuro premier Hatoyama convoca un vertice per preparare il nuovo Governo
Giappone, dalle urne svolta storica
Vincono i democratici, Aso si dimette *
TOKYO - I democratici giapponesi (Minshuto) spediscono i liberaldemocratici (Jiminto) all’opposizione dopo 54 anni di potere quasi ininterrotto. E’ quanto indicano gli exit poll della tv pubblica incoronando come uomo della svolta Yukio Hatoyama, ex membro del Jiminto, figlio dell’establishment nipponico che fondò il Partito democratico proprio per scalzare i suoi ex colleghi. L’attuale premier Taro Aso si dimette: "E’ colpa mia".
Gli exit poll. La televisione nazionale giapponese e il sito internet del quotidiano Yomiuri Shinbun hanno pubblicato le stime subito dopo la chiusura delle urne alle 20 locali (ore 13 in italia): il Partito democratico, nato 11 anni fa dalla confluenza di diverse anime politiche, dovrebbe ottenere oltre 300 seggi sui 480 in palio. Hatoyama, secondo la prassi che vuole il leader del partito di maggioranza diventare premier, dovrebbe formare un nuovo governo in coalizione con altre piccole formazioni: il Partito socialdemocratico (tra i 4 e i 15 seggi), il Nuovo partito del popolo (3-6) e i comunisti (7-18). La maggioranza potrebbe quindi contare su un blocco di 302-350 seggi sui 480.
Una svolta storica. Il risultato, ampiamente previsto dai sondaggi delle scorse settimane, rende per la prima volta il Jiminto partito di minoranza: la continuità al Governo era già stata interrotta nel 1993-94 per 11 mesi da una coalizione coagulatasi attorno a Morihiro Hosokawa, ma i liberaldemocratici erano comunque usciti dalle urne come il partito di maggioranza relativa. Taro Aso, il leader del Kiminto e primo ministro ha cercato fino agli ultimi appelli elettorali di attribuire al suo Governo, in coalizione col partito neobuddista Komeito, una politica economica che avrebbe portato a una ripresa nel secondo trimestre dell’anno. Non è bastato ad annullare un’immagine negativa che ha spinto i livelli di consenso al suo esecutivo attorno al 20 per cento nei sondaggi degli ultimi mesi. Tra l’altro, la diffusione del dato sulla disoccupazione di luglio, al record storico negativo (5,7%), sembra aver pesato fortemente sugli orientamenti elettorali.
Le dimissioni di Taro Aso. Il segretario generale Hiroyuki Hosoda, ha annunciato le dimissioni sue e dell’intera segreteria. A stretto giro di posta sono arrivate anche le dimissioni di Taro Aso, il premier amante dei "manga": "Il risultato è molto severo e credo che dobbiamo riflettere su questo per avere una nuova partenza. Per parte mia, mi prendo la responsabilità della sconfitta". Aso, considerato un falco per le nette posizioni conservatrici e nazionaliste, è discendente di una grande dinastia imprenditoriale del Kyushu, nell’estremità meridionale dell’arcipelago. Primo premier di fede cattolica, è nipote del primo ministro Shigeru Yoshida, il padre del Giappone del dopoguerra: una parentela pesante e importante che, secondo alcuni, è stata la ragione stessa della sua presenza nella Dieta, partita nel 1979 con l’elezione alla Camera bassa. Più che per i successi politici, Aso è diventato popolare per le dichiarazioni controverse che gli sono valse la fama di incorreggibile gaffeur: molti i commenti di tipo razziale (il Giappone è "Paese di una sola razza, di una sola lingua, di una sola cultura"), sociale (si è fatto beffa dei problemi di memoria citando i malati di Alzheimer) e, soprattutto, diplomatico, come quando ha definito la Cina una "minaccia". Negli ultimi giorni della legislatura, sopravvissuto agli attacchi frontali di illustri compagni di partito che chiedevano la sua testa, Aso ha giocato a sorpresa la carta dell’umiltà, scusandosi con la nazione per gli insuccessi del suo Governo e chiedendo un’altra chance. Un appello risultato inutile visto come si è espresso l’elettorato nipponico.
Il nuovo Governo. Yukio Hatoyama ha già convocato per domani un vertice di maggioranza per la formazione di un nuovo Governo e ha ringraziato pubblicamente i suoi elettori, parlando di "voto di cambiamento". Il suo programma prevede infatti una serie sostanziosa di aiuti alle famiglie, ai precari e alle piccole e medie imprese, con l’idea di far ripartire la domanda interna. In politica estera Hatoyama, pur ribadendo la centralità dell’alleanza strategica con gli Stati Uniti, ha promesso un ruolo più incisivo nell’Asia orientale e un rapporto più disteso con la Cina.
L’ingegnere del cambiamento. Sessantadue anni, Yukio Hatoyama è il classico esponente dell’establishement "dinastico" della politica nipponica, membro di una famiglia spesso definita i Kennedy del Giappone. Nipote di un ex presidente, figlio di un ex ministro degli Esteri e fratello dell’ex titolare della Giustizia, anche lui viene dalle file del Jiminto. L’ha lasciato nel 1993 per fondare il Partito democratico. Il futuro premier del giappone è un ingegnere laureato all’università di Tokyo e specializzatosi a Stanford, negli Usa. E’ al suo sesto mandato parlamentare ed è nipote, da parte di madre, del fondatore della multinazionale del pneumatico Bridgestone. Un esponente, insomma, dell’élite politica ed economica dell’arcipelago. Cosa che però non gli impedisce di farsi paladino di una politica che promette di aggredire il monopolio della burocrazia e ridurre gli sprechi per sostenere il reddito delle famiglie. La moglie si chiama Miyuki ed è un’ex attrice nata a Shanghai quando la città cinese era occupata dai giapponesi. Si dice che proprio la consorte spinga il futuro premier a guardare di buon occhio un rapporto più stretto con Pechino. E’ comunque certo che romperà la tradizione di "first lady" invisibile tipica delle mogli dei primi ministri nipponici.
* la Repubblica, 30 agosto 2009