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A Freud, gloria eterna !!!

"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?! Una nota di Federico La Sala

LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE "GIUSEPPE" E DELLO STESSO "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PRE-EVANGELICO PREFERITO, "IL PADRINO"!!!
lunedì 25 febbraio 2008 di Vincenzo Tiano
[...] Con Erode, e come Erode, tutta la Gerarchia (dal Primo all’ultimo sacerdote) continua ad avere paura di perdere il potere e la proprietà ... e ‘uccide’, ‘uccide’, e ‘uccide’, in verità - non Gesù che è risorto e che ha vinto la morte (Ct. 8.6: “Amore è più forte di Morte”, trad. G. Garbini)! - il loro stesso padre, Giuseppe - dentro di sé e fuori di sé (‘dichiarando’ così di essere abissalmente distanti proprio da Gesù e dal messaggio eu-angelico!), e l’Amore, lo Spirito (...)

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> "TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! --- La "beata colpa" di Gregorio-Edipo: il romanzo "L’eletto" di Thomas Mann (di Francesco Fantuzzi).

sabato 25 luglio 2020

L’eletto

by Thomas Mann, Bruno Arzeni (Translator)

di Francesco Fantuzzi’s Review *

Scelta calzante della germanista Lea Ritter Santini, curatrice dell’introduzione al romanzo, è quella di anteporre tale epigrafe nel presentare L’eletto di Thomas Mann. Le parole del preconio della liturgia romana della veglia pasquale alludono alla colpa del padre Adamo e della madre Eva, gravissima in sé, ma indispensabile per sperimentare la Grazia e la Misericordia del Padre. Attorno a questo concetto chiave si sviluppa tutta la narrazione del romanzo di Mann, imperituramente impresso nella mente della voce narrante (monaco medievale) che ad esso riferisce continuamente, rendendo plausibile l’artificio letterario sul piano del contesto culturale medievale.

Il romanzo in sé è tremendamente ironico, e lo è nella misura in cui i grandi autori sanno di essere in grado di essere autorizzati a guardare alle verità importanti con un occhio eccentrico. La prima riflessione che spontaneamente affiora è che Mann - e non altri - avrebbe potuto scrivere un’opera tale. E cioè, anche laddove non vi sia per forza un’opera immensa, si riesce ad apprezzare il genio che l’ha prodotta. Con questa riflessione ci si sposta sulle altre caratteristiche del romanzo. Nel divertimento che l’autore si fabbrica nel manipolare le leggende e la cultura medievali, trovano spazio illuminazioni importantissime su questioni di letteratura della più stringente attualità. Ne sono un esempio, su tutte, le riflessioni che la voce narrante produce in relazione alla figura del narratore nei testi letterari, talmente chiare, lucide, divertenti e ben esposte, da meritare spazio anche nelle nostre lezioni a scuola.

La materia in sé mette latamente in relazione il tema affrontato - le leggende medievali attorno alla figura di Gregorio Stilita (il futuro papa) con i dovuti debiti nei confronti del poema di Hartmann Von Aue - con il mito greco di Edipo, ovvero una sorta di reduplicazione in amplificazione dell’incesto (Gregorio stesso, nuovo Edipo, è il frutto di un’unione carnale incestuosa, più di Edipo). Un viaggio nel tempo e nello spazio, una rete di connesioni culturali ininterrotte, riprese e trapiantate, che nella penna di Mann si misurano con la materia cavalleresca, con la lirica di corte, e con la virtuosistica, anche se scontata, invenzione linguistica di un idioma plausibile (ma impossibile) che fonde elementi di francese antico, di medio tedesco e di latino.

Per comprendere pienamente il Begriff sotteso a tale prodotto artistico, risulterà interessante la lettura della Nota sul romanzo L’eletto (scritta da Mann stesso nel ’51 e pubblicata nel ’53) giustamente riprodotta nell’edizione Mondadori nella traduzione di Lea Ritter Santini:

      • ...Amor fati - io non ho nulla in contrario ad essere qualcuno arrivato tardi, un ultimo, uno che conclude e chiude e non credo che dopo di me questa storia e la storia di Giuseppe verranno raccontate ancora una volta. Quando ero molto giovane feci tirare al piccolo Hanno Buddenbrook una lunga linea sotto la genealogia della sua famiglia, e quando fu rimproverato per questo, lo feci balbettare: «Pensavo, pensavo, che non venisse più niente». Per me, ho l’impressione come se non dovesse venire più nulla. Spesso la nostra letteratura contemporanea, le cose più sottili e più alte mi paiono quasi un congedo, un ricordare rapido, un ricapitolare ed evocare ancora una volta il mito occidentale - prima che cada la notte, forse una lunga notte e un profondo oblio. Una piccola opera come questa è tarda cultura che viene prima della barbarie, già guardata da tempo quasi con occhi estranei. Anche se la leggenda irride parodisticamente le vecchie e pie cose, questo sorridere è più melanconico che frivolo e lo stile giocoso del romanzo, la forma finale della leggenda, conserva in pura severità il suo nucleo religioso, il suo cristianesimo, l’idea del peccato e della grazia.

Anche se lo sviscerarne tutte le implicazioni culturali fa correre il rischio di ritenere questo romanzo un prodotto pesante, la lettura si rivela invece sorprendentemente scorrevole, trascinante, a tratti entusiasmante: siamo di fronte a quello che si potrebbe definire un divertissement confezionato a regola d’arte.

* Francesco Fantuzzi’s Review (Jun 17, 2014)


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