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ADAMO, EVA ... E L’EDEN?

Archeologia, preistoria, e storia
domenica 18 giugno 2006 di Federico La Sala
[...] A Göbekli Tepe, in Turchia, i ricercatori hanno riportato alla luce un complesso architettonico preistorico che potrebbe aver ispirato la narrazione biblica: una fertile collina che già nell’Età della pietra era un monumentale centro sacro dedicato al culto del serpente. Vicino alla grotta della nascita di Abramo [...]
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITA’ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo" (...)

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> ADAMO, EVA ... E L’EDEN? ----- L’isola di Robinson ha sostituito il vecchio giardino (di Marco Dotti)

giovedì 27 gennaio 2011

Nel giardino mistico dove abita l’homo faber

di Marco Dotti (il manifesto, 13 gennaio 2011)

«Il mio lavoro, il mio impegno, le mie capacità». Sono queste le prescrizioni di metodo, dai forti «accenti cartesiani» che Robinson Crusoe, disperso in un punto imprecisato dell’estuario del fiume Orinoco, tenta di imporre e di imporsi. In quel luogo staccato dal resto del mondo - un’isola - Robinson costruisce la propria officina, per dare senso al disordine della natura e alla tendenziale anarchia delle cose che lo circondano e la abitano. La ragione tecnica e la smania classificatrice del lavoro, condotto per l’appunto con «capacità» e «impegno», tendono - almeno nelle buone intenzioni del naufrago immortalato da Daniel Defoe nel celebre romanzo del 1719 - ad assimilare l’alterità selvaggia dell’isola deserta a una logica precisa: quella del «produttore», dell’homo faber visto e sentito come l’unico e vero «soggetto della storia». Nel libro che Michel de Certeau non ha mai smesso di considerare come «uno degli ultimi miti occidentali antecedenti Totem e tabù» di Freud, qualcosa in un dato momento, semplicemente, accade.

Tra terrore e bizzarrie

Accade, ad esempio, che l’intero sistema di segni che garantiva la stabilità di Robinson vacilli, consegnandolo a un panico che lo stesso Defoe sintetizza affidandosi a tre termini: «pensieri folli» (fluttering thoughts), «bizzarrie» (whimsies), «terrore» (terror). È un attimo, una modestissima parentesi che - insinuatasi in un piccolo punto della robinsonnade, proseguendo per circa cinquanta pagine - spacca il romanzo in due e apre una falla nell’impresa stessa di Robinson, interrompendone così la «colonizzazione volorantistica e moralizzatrice».

Sul bordo dell’isola, al limite di quello che è diventato il mondo a lui conosciuto, in cui è disperso ma di cui si sente «padrone», Robinson scopre l’impronta di un piede umano. Davanti alla traccia imprevista, il colonizzatore borghese esce letteralmente di sé, sragiona, sembra diventare egli stesso un selvaggio. Ai giorni chiari dell’ordine, si contrappongono ora notti piene di incubi e ossessione: qualcosa fa breccia nella rigida scorza cartesiana del disperso, il suo cogito è letteralmente perforato da un «fuori» inassimilabile.

La paura diabolica di essere divorato da un mostro antropofago alimenta nel naufrago la pulsione a divorare l’ignoto. È una partentesi, ma non di meno è importante, perché - come ha scritto a più riprese de Certeau, in particolare nell’Absent de l’histoire, libro pubblicato nel 1973, e tra le pagine di Storia e psicoanalisi, (uscito in Italia da Bollati-Boringhieri nel 2006) - ciò che per un attimo porta disordine nell’ordine di Robinson è un tratto estremamente precario e transeunte dell’esistenza, un «quasiniente di passaggio», un altro-assente, che non ha né autorità, né luogo. Esposte all’altro, le cose e il mondo stesso di Robinson si alterano. Alterazione e alterità si coimplicano a tal punto che la reazione del naufrago è quella di gettarsi letteralmente «out of myself», consegnandolo ai tortuosi movimenti di un mare più profondo di quello da cui è scampato: l’incubo.

Un’ombra emerge dai margini, modifica con la sua sola traccia tutto un territorio - l’isola -, lo perturba, fino a quando Robinson non ristabilisce il pieno controllo su di sé. Ma per farlo, gli occorre prima vedere, sostituendo - così scrive Michel de Certeau nell’Invenzione del quotidiano, recentemente riedito dalle Edizioni Lavoro (e recensito da Vanni Codeluppi su queste pagine, il 17 luglio scorso) - «all’indice della mancanza un essere tangibile, un oggetto visibile: Venerdì».

In più punti della propria opera, Michel de Certeau si è richiamato all’episodio dell’orma nella sabbia, per esemplificare e spiegare un lavorio storiografico particolarmente fine e, pertanto, da sempre concentrato sulle voci che, filtrando tra la sabbia e il tempo, ci vengono dall’«absent de l’histoire».

Nulla - osservava, citando la poetessa mistica del XIII secolo Hadewijch d’Anversa - inquieta più di questa «presenza dell’assente», di questa modalità selvaggia di apparire propria di un fantasma che - come il fantasma del padre di Amleto, che si aggira tra le mura del castello - irrompe dai bordi.

La storiografia parla precisamente delle impronte lasciate da questo fantasma, costruisce un «racconto», una «finzione» nel senso letterario del termine, mettendo in rapporto il presente, le sue fratture e le voci che vi fanno breccia. Come Robinson Crusoe, lo storico percorre i bordi del suo tempo presente, ne visita le spiagge, sicuro di sé e della propria opera. Addirittura, «vi si installacon la propria industria» e, a partire da impronte definitivamente mute, egli «costruisce una messa in scena dell’operazione che confronta l’intelligenza con questa perdita», organizzando così il discorso di una «presenza mancante».

Un mondo sfuggente

Nel 1969, ripercorrendo un cammino di ricerca che già si presentava come esemplare, parlando della storia religiosa del XVII secolo, in un dibattito pubblico Michel de Certeau confessava: «quel mondo in effetti mi sfuggiva o, per essere più precisi, cominciavo ad accorgermi che mi sfuggiva. È a partire da quel momento, sempre scaglionato nel tempo, che comincia davvero a nascere lo storico. Ed è proprio questa assenza che costituisce il discorso storico: la morte dell’altro lo colloca al di fuori della porta d’accesso e, con ciò, definisce lo statuto della storiografia stessa, vale a dire del testo storico».

E non è un caso che, proprio a questa morte e a quel testo rimandino i saggi recentemente raccolti, per la cura di Domenico Bosco, in un’utilissima silloge titolata Sulla mistica (pp. 270, euro 20), pubblicata per i tipi della Morcelliana. Testi brevi e folgoranti per profondità, ma anche per l’intensità irrequieta di una scrittura che ama farsi «alterare» e inquietare. E non è neppure un caso che i nomi di Daniel Defoe e del suo Robinson Crusoe ritornino proprio in uno dei testi più densi della raccolta, il saggio sull’Enunciazione mistica, originariamente apparso in rivista nel 1976.

L’isola di Robinson, vi afferma Michel de Certeau, ha sostituito il vecchio giardino mistico (studiato d’altronde nella prima parte di Fabula mistica, a cura di Silvano Facioni, Jaca book, 2008) occupato non più da delizie, ma «dal lavoro e non da un’alterazione beatificante». Un giardino che si trasformerà, di lì a poco, in proprietà privata, in isola, distretto industriale e infine - in giorni a noi più prossimi - in una deserta isola globale. Con la speranza, alzi la certezza, che prima o poi altre tracce, altre impronte preannunceranno l’arrivo di un’estraneità capace di farci gioiosamente sragionare, provocando anche in noi quei «pensieri folli», quelle «bizzarrie» e in fondo anche quel «terrore» a cui Robinson non ha voluto, o forse non ha saputo rispondere.


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