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ITALIA: 19 luglio 1992 ...

GIOVANNI FALCONE, PAOLO BORSELLINO, ANTONINO CAPONNETTO. UN URLO PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE

giovedì 19 luglio 2007 di Federico La Sala
"C’è un equivoco di fondo.
Si dice che il politico che ha avuto frequentazioni mafiose,
se non viene giudicato colpevole dalla magistratura,
è un uomo onesto.
No!
La magistratura può fare solo accertamenti di carattere giudiziale.
Le istituzioni hanno il dovere di estromettere gli uomini politici vicini alla mafia,
per essere oneste e apparire tali"
(Paolo Borsellino, "Lezione sulla mafia", 1989)
L’ITALIA HA TROVATO IL SUO LOGOPEDISTA "COSTITUZIONALE"!!! CHE PACIFICAZIONE!!! (...)

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> GIOVANNI FALCONE, PAOLO BORSELLINO, ANTONINO CAPONNETTO. UN URLO PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE ---- COSTRUIRE UNA NUOVA ITALIA. uNA LETTERA AI GIOVANI (di Agnese Borsellino)

venerdì 20 luglio 2012

La vedova Borsellino,

una lettera ai giovani

di AGNESE BORSELLINO (La Stamap, 20/7/2012)

Carissimi giovani, mi rivolgo a voi come ai soli in grado di raccogliere davvero il messaggio che mio marito ha lasciato, un’eredità che oggi, malgrado le terribili verità che stanno mano a mano affiorando sulla morte di mio marito, hanno raccolto i miei tre figli, di cui non posso che andare orgogliosa soprattutto perché servono quello stesso Stato che non pare avere avuto la sola colpa di non avere fatto tutto quanto era in suo potere per impedire la morte del padre.

Leggendo con i miei figli (qui in ospedale dove purtroppo affronto una malattia incurabile con la dignità che la moglie di un grande uomo deve sempre avere) le notizie che si susseguono sui giornali, dopo alcuni momenti di sconforto ho continuato e continuerò a credere e rispettare le istituzioni di questo Paese, perché mi rendo conto che abbiamo il dovere di rispettarle e servirle come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato, non indietreggiando nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato attorno a lui.

Io e i miei figli non ci sentiamo persone speciali, non lo saremo mai, piuttosto siamo piccolissimi dinanzi la figura di un uomo che non è voluto sfuggire alla sua condanna a morte, che ha donato davvero consapevolmente il dono più grande che Dio ci ha dato, la vita. Io non perdo la speranza in una società più giusta ed onesta, sono anzi convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia.


-  La vedova Borsellino

-  "Abbiamo il dovere di servire lo Stato"

Rispetto per le istituzioni, speranza nella verità, fiducia nel futuro. Mentre infuria lo scontro istituzionale tra la procura di Palermo e il Quirinale sull’uso delle intercettazioni sulla trattativa Stato-mafia, mentre due fratelli di Paolo Borsellino - il leader delle «Agende rosse» Salvatore e l’europarlamentare Rita - scendono in campo contro il Colle, la vedova del giudice, Agnese, e i suoi tre figli affidano a una lettera il ricordo dell’uomo ucciso vent’anni fa in via D’Amelio e diventato icona dell’antimafia.

Lontani dalle polemiche dirette, ma decisi a dire la loro su quello Stato in cui continuano a credere seppure «non abbia fatto tutto quello che era in suo potere per impedire la morte» del magistrato. Seppure la mancata protezione non sembri la sua «sola colpa». Seppure Manfredi abbia di recente bollato come un processo-farsa quello che a Caltanissetta portò a sette ergastoli in seguito a un colossale depistaggio e abbia accusato il responsabile delle indagini, Arnaldo La Barbera, di essere «uno che aveva molta fretta di fare carriera». Nonostante tutto questo, la famiglia sceglie di ribadire fiducia nelle istituzioni perché «abbiamo il dovere di rispettarle e servirle come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato», dice la vedova nella lettera.

È lei a firmare venti righe rivolte ai giovani, dettate dal letto dell’ospedale dove - scrive - «affronto una malattia incurabile con la dignità che la moglie di un grande uomo deve sempre avere». Righe partorite insieme con i figli, tra le flebo e il via vai dei dottori: un ricovero che non le ha consentito, come già era successo per l’anniversario di Capaci, di partecipare alle commemorazioni del marito. Righe composte e serene che suonano come un controcanto nel giorno della memoria diventato terreno di scontro.

A portare pubblicamente il testimone del ricordo è stato Manfredi, oggi commissario di polizia a Cefalù: mercoledì sera, alla chiesa di San Domenico, insieme con gli scout, a ridare voce al celebre discorso che il padre tenne il 23 giugno del 1992, per il trigesimo di Falcone. Ieri mattina alla caserma Lungaro, insieme con i familiari degli agenti della scorta caduti con il padre: Agostino Catalano, Eddie Cosina, Fabio Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina, tutti giovani. Poi a Palazzo di giustizia, con il figlioletto Paolo - quattro anni e mezzo - aggrappato ai suoi pantaloni, ad ascoltare le parole di Diego Cavaliero, uno dei giudici ragazzini che Paolo formò alla procura di Marsala, e poi di don Cesare Rattoballi, il prete al quale il giudice affidò i pensieri più intimi sulla ineluttabilità della morte alla quale andava incontro. «Non indietreggiando nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato attorno a lui», scrive adesso la moglie, in memoria di un marito amatissimo «che non è voluto sfuggire alla sua condanna a morte, che ha donato davvero consapevolmente il dono più grande che Dio ci ha dato, la vita».

E non perché avesse la vocazione al martirio, non perché volesse lasciare tre figli orfani ma perché - ha chiarito poche settimane fa il figlio - «non toccava a lui pensare alla sua sicurezza personale, perché c’erano altre persone e istituzioni deputate a farlo». Malgrado questo, malgrado «le terribili verità che stanno mano a mano affiorando sulla morte di mio marito», malgrado «alcuni momenti di sconforto” dovuti “alla lettura in ospedale delle notizie che si susseguono sui giornali», scrive, Agnese si dice orgogliosa dei figli perché servono lo Stato, quello stesso Stato in cui credeva il marito.

Manfredi ha reso omaggio a suo padre come è stile di famiglia: lavorando sodo. E raccogliendo i frutti di un’inchiesta che ha portato a dieci arresti tra i paesi delle Madonie. La sorella Lucia è rimasta al timone del dipartimento Salute dell’assessorato regionale alla Sanità. L’altra sorella, Fiammetta, appartata nella sua casetta di contrada Kamma a Pantelleria - l’isola che il giudice adorava - ieri ha fatto celebrare una messa in ricordo del padre. Una messa di campagna, con il parroco del paese, i contadini, pochi amici.

Tutti, come sempre, uniti come una falange. Tutti con nomi scelti dal padre sulla base delle sue passioni letterarie: la Fiammetta di Boccaccio; la Lucia manzoniana; Manfredi, ultimo re di Sicilia.

Tutti e tre desiderosi di un profilo basso, di una testimonianza discreta. Lontani dai clamori, perché «non ci sentiamo persone speciali, non lo saremo mai». Anche ieri, mentre Palermo e tutto il Paese si dilaniava tra accuse e polemiche, tutti testardamente fiduciosi nel futuro. «Io non perdo la speranza in una società più giusta e onesta - dice Agnese ai giovani - sono anzi convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia».

* La Stampa, 20/07/2012


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