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"Non lasciateci soli".

SALVARE Il manifesto !!! Ciò che è in gioco è la libertà d’informazione, la democrazia - a cura di Federico La Sala

Non è come le altre volte, non è la solita ciclica difficoltà, è una faccenda molto più seria.
mercoledì 1 ottobre 2008 di Federico La Sala
[...] Perché sappiate che questo nostro esperimento antimercato rischia di chiudere. Noi ce la mettiamo tutta ma la risposta spetta a voi lettori de il manifesto e ai non lettori che tuttavia pensano che questo giornale sia un utile personaggio nella commedia, o tragedia, che stiamo vivendo [...]

LA RESA DEI CONTI. ECCO PERCHE’ RISCHIAMO LA PELLE
di Francesco Paternò (il manifesto, 24 giugno 2006)
E’ anomalo che un’anomalia duri da più di (...)

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> SALVARE Il manifesto !!! ---- Un giornale e una parola (di Aldo Tortorella)

domenica 4 marzo 2012

Un giornale e una parola

di Aldo Tortorella (il manifesto, 03.03.2012)

Già altri, aderendo all’invito cortese di Valentino Parlato, hanno detto dei loro stati d’animo nell’ intervenire sui temi proposti da Rossana Rossanda. Poiché Rossana incita il manifesto a guardare in se stesso per intendere la propria crisi, a Tronti è venuta in mente la lunga storia della introspezione com’è maturata nella cultura cui apparteniamo, dalle Confessioni di Agostino in poi. Posso confessare anch’io, dunque, un imbarazzo e un timore. Temo il ripetersi di una consumata discussione sul "nome e la cosa", anche se "la cosa" questa volta non è un partito ma un giornale. E avverto l’imbarazzo di chi, compartecipe della caduta delle sinistre italiane, sente di non aver proprio niente da sentenziare, ma al tempo stesso non vuol fare la parte di chi evita il tema scabroso posto dalla parola "comunismo".

Penso che la discussione di oggi sul declino della sinistra e dei suoi giornali dovrebbe concentrarsi sui motivi della crisi delle sue culture, resa manifesta dalla cattiva prova che hanno dato e stanno dando davanti al disastro economico, poco o per nulla previsto ieri e, oggi, fronteggiato senza proposte realmente alternative a quella del tentativo di ricominciare come prima.

Questo è logico per quella parte della sinistra che ha fatto proprio il pensiero neoliberista, sia pure temperato. Lo è apparentemente di meno per quella sinistra che ha sempre denunciato il neoliberismo: ma se non si entra nel merito con conoscenza effettiva, il "cambiamo tutto" diventa sinonimo del non cambiare niente. Può darsi che nei toni palingenetici ci sia di mezzo la parola «comunismo». Se suscita discussione il dire, come ha fatto Rossana, che il comunismo è cosa di domani significa che c’è qualcosa di rimosso di cui occuparsi e che non basta dire che c’è "ben altro" di cui discutere. È vero, c’è ben altro, ma, soprattutto chi ha vissuto la vicenda che è alle nostre spalle ha il dovere di pronunciarsi.

Quando, ormai più di venti anni fa, si ragionava di come intendere la parola "comunismo" nella mozione congressuale che si opponeva a quello che ci sembrava, e fu, la dissoluzione del Pci, Cesare Luporini si pronunciò, e ne scrisse sul manifesto, per definirla come un "orizzonte" - cioè, com’è ovvio, un luogo irraggiungibile - e si ebbe una severa replica del giornale in nome della effettualità del termine. Per fortuna Valentino, caro compagno e amico, che si era assunto l’onere della risposta a Luporini, non si accorse in quella occasione che io avevo fatto di peggio, proponendo (e ottenendo, se non ricordo male) che si definisse il comunismo non già come una soluzione, ma come un "punto di vista sulla realtà". Un punto di vista, nutrito dalla lunga storia del pensiero critico, che individua nella costituzione economica della società una origine determinante, seppure non unica, di molti dei problemi e dei drammi con cui la realtà contemporanea si è trovata e si trova a fare i conti. E che, dunque, propone volta a volta soluzioni ispirate dal bisogno di rimuovere quelli che appaiono i motivi degli ostacoli posti alla libertà e alla uguaglianza, sapendo di essere una posizione tra le altre in una competizione democratica.

Mi sembrava questo il vero senso della parte migliore della tradizione dei comunisti italiani, quella che ne aveva fatto il maggiore partito della sinistra rendendolo utile ai lavoratori e al paese nella resistenza al fascismo, nella costruzione della democrazia italiana, nelle lotte del lavoro. Era, certo, un’esperienza già in crisi per tanti motivi, ma temevo, assieme a molti altri, che negando anche ciò che a me sembrava giusto conservare di quella tradizione, piuttosto che venirne un’innovazione ne sarebbe venuta solo una frattura insanabile in una comunità umana, certo piena di contrastanti passioni e di molti errori, ma tuttavia fertile e utile per le classi lavoratrici e per il paese. È quello che in effetti è avvenuto. Ma quella posizione appariva - ma non avrebbe voluto esserlo - come la difesa di una eccezione.

È vero, infatti, che quel nome fu usato, ovunque diventava potere, solo come marchio di assolutezza dogmatica, il marchio tipico di tutte le vicende collettive (religiose e no) che ritengono di fondarsi su verità indiscutibili. Ne vengono gli scismi (le scissioni), le reciproche scomuniche, le lotte fratricide, le guerre intestine, l’assassinio dei fratelli di ieri. Il primo tentativo di fondare una economia sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, trasformatasi rapidamente in proprietà statale e poi in dominio burocratico, approdava al capitalismo selvaggio. La speranza di una possibile riforma di quel sistema si dimostrava perdente. Quel nome può assumere un significato diverso e opposto? È astrattamente possibile, ma non da questa discussione può nascere un’alternativa alla destra e può essere ricostruita la nuova sinistra di cui ci sarebbe bisogno.

Di un punto di vista critico, però, c’è necessità più che mai : ciò che si è dimostrato alla lunga fallimentare non è l’analisi marxiana (oggi tornata in voga). Il vecchio Marx aveva ragione scrivendo, undici anni dopo la delusione delle speranze nutrite nel ’48, che un sistema economico e sociale «non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa offra spazio sufficiente». E aveva ragione sia nella esaltazione della potenza del capitalismo sia nel ricercarne, quali che siano stati i suoi limiti, le possibili contraddizioni interne. La fragilità o l’assenza di una capacità di analisi critica di quello che andava succedendo nella economia reale e la totale ignoranza di quel che accadeva nel mondo della finanza dopo la grande svolta conservatrice degli anni ’80 e dopo la scelta del mercato unico dei capitali e delle merci ha lasciato la sinistra europea, in ogni sua parte, disarmata di fronte al sopravvenire di un fallimento economico di straordinaria proporzione. È perciò che la via di uscita dalla crisi è interamente affidata a quelli che l’hanno generata e, in più, si va estendendo il pericolo dell’avanzare di una destra estrema, già al governo di alcuni stati europei e in espansione in altri.

A me sembra che il compito urgente di oggi, cui tutti dovrebbero dare una mano, è la costruzione di una alleanza credibile e sufficientemente ampia per contrastare la destra becera e quella più signorile, anche in vista delle elezioni che in ogni caso non sono lontane. Uno dei guasti più pesanti indotti nella cultura della sinistra è la trascuratezza delle distinzioni. Non tutto è identico. Non è vero che chiunque vinca le elezioni è la stessa cosa. Certo, non deve decadere l’obiettivo della ricostruzione di una grande sinistra, ispirata dalle idee di trasformazione sociale e capace anche di proposte per il breve periodo. Ma non mi pare che sia una meta vicina. Credo che sia giusto dire - come, se non sbaglio, dice Rossana - che non si può pensare nessuna sinistra senza la consapevolezza che il conflitto di classe non è una escogitazione d’altri tempi ma un dato essenziale della realtà in atto. Il recupero di questa consapevolezza, anche a mio parere, è essenziale, ma non basta.

Credo che oggi sia più chiaro di quanto non fosse qualche anno fa che, se non si vuole costruire sulla sabbia come è già accaduto, la rinascita di una sinistra degna ha bisogno di un accordo su nuove fondamenta morali, economiche, politiche. Queste si vengono costruendo nella vita reale di tante esperienze e lotte diverse ma molto faticosamente e lentamente: anche la concordanza su singoli obiettivi - per esempio quelli referendari - non indica una comune visione d’insieme, come si vede nel mondo della rete. Ma vi sono pure sentimenti e passioni comuni, e molte riflessioni e analisi simili.

Per aiutare il coagulo di queste esperienze, per togliere ciascuna di esse dall’isolamento e dalla chiusura in se stesse, ma anche per vedere incongruenze e contraddizioni reciproche, un giornale può fare molto. Perché, se sono convinto che le nuova fondamenta nascono entro i movimenti reali, come è sempre accaduto, è anche vero che la riflessione aiuta. Il mondo è radicalmente cambiato, come tutti sappiamo. Se si desidera trasformarlo bisogna prima di tutto conoscerlo nelle sue novità, tutte da interpretare, e nelle sue permanenze, mai eguali a ciò che era prima. E non c’è avvenire se si lasciano indistinte le parole della propria speranza, se non le si analizzano una per una, o, peggio, se diventano una affabulazione confusa.

Il manifesto, che ha rispecchiato - se non ho letto male le sue pagine - una molto vasta e varia parte delle molteplici sensibilità e tendenze presenti nella sinistra che vuole essere alternativa ha molto aiutato nella costruzione di una nuova cultura, anche se non sempre sono state rese esplicite le differenze di accento tra le diverse pagine, come se non comunicassero tra di loro. Non saprei indicare un altro quotidiano più sensibile alle parole delle minoranze senza voce, alla denuncia delle vergogne dell’esclusione e della emarginazione sociale, alle culture nuove e a quelle di confine. Come lettore ho sempre avuto molto da imparare.

Forse, però, non è stato utilizzato tutto lo straordinario patrimonio di collaboratori, di militanti e di amici per informare prima di altri sui problemi che per i mutamenti indotti dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione nascevano nella vita dei più, entro le classi lavoratrici e gli strati produttivi. E, forse, sul funzionamento reale del poter finanziario ai danni della collettività o sulla degenerazione dei centri di potere, c’è stata una attenzione critica minore che in altri campi lasciando così troppo spazio al populismo o ad una indignazione poco costruttiva di una politica realmente nuova. Ma di ciò che è necessario al Manifesto per rinnovarsi i suoi artefici, da Rossana ai redattori a chiunque vi lavori, ne sanno più di ogni altro. Intanto, cerchiamo di garantire tutti insieme che la sua voce non venga soffocata.

-  L’articolo di Rossana Rossanda a cui si fa riferimento è uscito il 18/2. Sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2), Alberto Burgio (24/2), Mario Tronti (26/2), Luciana Castellina (28/2), Valentino Parlato (29/2), Luigi Cavallaro (1/3), Mariuccia Ciotta e Gabriele Polo (2/3)


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