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SOGNO E PENSIERO. SOGNO, DUNQUE SONO CREATIVO

mercoledì 10 giugno 2009
Ansa» 2009-06-08 22:59
DOPO UN SOGNO CI SVEGLIAMO PIU’ CREATIVI
ROMA - I sogni sono un propulsore della creatività, del pensiero creativo che porta alla soluzione ai problemi, infatti è durante la fase REM del sonno, quella in cui si sogna appunto, che il nostro cervello massimizza le sue (...)

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> SOGNO E PENSIERO. ---- Viaggio alla ricerca dell’origine dell’ispirazione. Dove nascono le storie (di Zadie Smith) - Il grande mistero dai sogni (di Alberto Manguel) .

domenica 22 giugno 2014

Dove nascono le storie

Dalla realtà o dall’inconscio? Dall’esperienza o dall’infanzia? Dalla paura o dal piacere? Viaggio alla ricerca dell’origine dell’ispirazione

di Zadie Smith (la Repubblica, 22.06.2014)


SPESSO, i miei soggetti sono le cose più semplici del mondo: la gioia, la famiglia, il clima, le case, le strade. Niente di fantastico. E quando mi siedo al tavolo con questi soggetti, il mio obiettivo è la chiarezza. Cerco di eliminare un po’ della confusione che ho in testa (in effetti, c’è un grande disordine nella mia testa). A volte penso che tutta la mia vita professionale si sia basata su questa intuizione che ebbi all’inizio, e cioè che molte persone si sentono confuse come me, e potrebbero essere felici di seguirmi in questa ricerca della chiarezza, della precisione. È un aspetto che amo della scrittura.

Niente mi rende più felice di sentire un lettore che mi dice: «È proprio quello che ho sempre provato anch’io, ma tu lo hai detto in un modo chiaro». Sento, allora, di aver fatto qualcosa di utile. Spesso, però, tutto ciò mi è sembrato lontano dalla vera narrativa e, a dire la verità, ci sono stati dei momenti, negli ultimi dieci anni, in cui mi sono sentita piuttosto distante dalle storie, e incerta su come raccontarle.

Avevo dimenticato (come i rapper amano dire) che cosa mi avesse spinto a cominciare. Poi ho avuto dei figli. Che storia noiosa “poi ho avuto dei figli”! Però, devo essere sincera. E la verità è che è accaduto qualcosa quando ho avuto dei figli. Sono passata dal non riuscire a inventare una sola storia, al non riuscire più a smettere di vedere delle storie praticamente ovunque mi girassi. Ora, io non sono un’essenzialista biologica, né una di quelle persone convinte che, con la placenta, ci arrivi anche il dono dell’empatia.

La spiegazione, a mio parere, è più semplice, e sono i libri di favole. Per la prima volta dalla mia infanzia, sono tornata nel regno delle storie e dei libri che raccontano storie (tre storie lette ad alta voce a un bambino di quattro anni, ogni sera, pena la morte) e questa pratica ha risvegliato in me qualcosa che credevo di aver smarrito molto tempo fa, forse durante la presentazione di un libro, o nell’ultima fila di un’aula universitaria.

Questa sensazione delle possibilità narrative e dello stupore, questa idea che ogni persona è un mondo. Come avevo potuto dimenticarla? Ero davvero quasi scivolata in quell’anemico percorso intellettuale in cui narrare una storia è considerato volgare e i personaggi macchie sulla purezza di una frase? Quasi, per fortuna.

Oggi sono così grata di poter rientrare in contatto con storie come Il dito magico di Roald Dahl. Mi sdraio sul letto con mia figlia, le leggo ad alta voce questo racconto kafkiano di una famiglia di cacciatori di anatre, che si svegliano una mattina con le ali al posto delle braccia, e torno alla mia scrivania con una facilità e fluidità che non avevo più provato da quando ero bambina.

La storia più inverosimile della mia vita è quella di una ragazza di Willesden, (un quartiere operaio nel distretto londinese di Brent, ndt). C’era una volta, che avevo nove anni. Era estate in Inghilterra, il cielo era blu, ma anche pieno di nuvole. Non ero - come dire - stracarica di amici. Faceva caldo, ma la scuola non era ancora finita, e questo ripresentava l’irrisolto problema della ricreazione, perché non puoi aggirati all’infinito per il cortile facendo finta di cercare i tuoi compagni.

Per nascondere la mia solitudine, passavo un sacco di tempo a guardare le nuvole, e una strana torre coperta di edera che si trovava accanto alla nostra scuola. Decisi che, in cima a quella torre, una giovane donna viveva la sua tragedia, prigioniera di un dio che voleva impedirle di sposare il suo vero amore, Superman. Non aveva senso, ma era una storia e diventai brava a raccontarla. Per attirare l’attenzione su di me, cominciai a raccontarla ai bambini nel cortile. Diventava più complessa ogni volta che la raccontavo, e finivo sempre col giurare sulla testa di mia madre che era tutto vero. Ve lo giuro! Vi giuro che c’è una giovane donna lassù, e manda in cielo segnali di fumo, sotto forma di nuvole: se ne vedi una che assomiglia a Superman, mettiti una puntina sotto la scarpa.

Più persone avranno delle puntine sotto le scarpe, più rumore faranno camminando, e più rumore faranno camminando... oh, non mi ricordo! Doveva avere una sua logica, ma non ricordo più quale. In ogni caso, il messaggio era: puntina sotto la scarpa. Devi metterti una puntina sotto la scarpa o quella poveretta morirà! È vero! Lo giuro su mia madre! È un miracolo che mia madre sia sopravvissuta a quell’estate.

Bene, la gente sembrava appassionarsi alla mia storia, sembrava che tutti ci si appassionassero, davvero; tutti tranne una bambina - si chiamava Anupma - che si mostrò scettica. Era molto intelligente, Anupma, il che era parte del problema. La retorica non la commuoveva. Aveva un problema logico fondamentale con la tripletta segnali di fumo/nuvole/Superman. E un giorno, di punto in bianco, venne verso di me, in cortile, e mi disse: «La tua storia non è vera. È una bugia. Lo voglio dire a tutti». E si mise a correre verso le aule.

Mentre la guardavo correre, provai la versione per bambine di 10 anni di una disperazione profonda. Tutto ciò che avevo costruito, tutti i miei nuovi amici, e la mia stessa autostima, tutto sembrava dipendere da questa storia ridicola. E ora lei minacciava di rivelare quello che era: una bugia. Dovevo impedirle di raggiungere l’aula. Le corsi dietro. Era veloce, non era facile. Ma proprio vicino al recinto della sabbia, misi una gamba davanti alle sue come un calciatore italiano e la feci cadere violentemente: subito, il suo ginocchio lacerato insanguinò il cemento.

Giaceva a terra piangente, sporca, sconfitta, e mi rivolse uno sguardo che non ho mai dimenticato. Vi era una domanda inorridita: che razza di persona è questa? Arrivò l’infermiera; portarono Anupma nell’ambulatorio scolastico per medicarla, e per quanto ne so non disse nulla contro di me, né riguardo alle mie bugie, né alla mia noncurante brutalità. Almeno, mi lasciarono andare via indisturbata perché rientrassi in classe. Raggiunsi i miei compagni nell’atrio. «Che cos’è questo rumore?», chiese l’insegnante mentre entravamo nell’aula. Tap tap tap. Ci misi poco a riconoscerlo. Puntine sotto tutte le scarpe.

Narrare storie è una disciplina magica, spietata. Chi racconta storie è spesso tentato di creare una gerarchia nella sua vita, in cui le storie vengono prima di ogni altra cosa, comprese le persone. Parte della mia ansia, rispetto alla narrazione, sta nella consapevolezza di quella parte monomaniacale di me che è disposta a bloccare a terra una bambina pur di preservare l’integrità di una storia. So che questa parte di me esiste, ma cerco davvero di sopprimerla, perché voglio trovare un compromesso tra il raccontare storie sulla vita e viverla bene.
-  The Independent Newspaper 2014 (Traduzione di Luis E. Moriones)


Il grande mistero dai sogni di Stevenson ai giornali di Flaubert

di Alberto Manguel (la Repubblica, 22.06.2014)


UNA notte, una delle tante notti in cui giacque nel letto sputando sangue, febbricitante e senza fiato, Robert Louis Stevenson, aveva allora 38 anni, sognò una terrificante tonalità di marrone. Fin dalla sua prima infanzia, Stevenson aveva definito i suoi frequenti terrori notturni come «le visite dell’Arpia della Notte», che solo la voce della sua bambinaia poteva calmare con fiabe e canti scozzesi. Le apparizioni dell’Arpia della Notte, tuttavia, continuarono a ripetersi, e Stevenson scoprì che poteva trarle a suo vantaggio esorcizzandole con le parole. L’orrendo colore marrone del suo incubo si trasformò dunque in un racconto. E fu così, ci dice, che nacque la storia del Dr. Jekyll e del signor Hyde.

Gli scrittori si stupiscono quanto i loro lettori dell’esistenza di creazioni letterarie di successo. Dante, riconoscendosi colpevole del peccato di superbia, implora prima le muse e poi Apollo di ispirarlo, ma sebbene ponga queste invocazioni all’inizio del Purgatorio e del Paradiso, il lettore sente che si tratta di riflessioni successive, che i primi barlumi di quel viaggio prodigioso vengono da qualcosa di meno elevato e di molto più banale, forse dal primo giorno in cui si rese conto che non avrebbe mai più rivisto la sua amata Firenze, forse dal primo momento in cui mandò papa Bonifacio all’inferno.

La storia del cavaliere errante in cerca di giustizia venne in mente a Cervantes, come egli racconta, mentre l’autore languiva ingiustamente in prigione; il racconto delle tragiche conseguenze, per Madame Bovary, del sogno di una vita diversa fu ispirato a Flaubert, si dice, dalla lettura di un articolo di giornale.

Bradbury spiega che i primi indizi dello spaventoso mondo di Fahrenheit 4-51 si affacciarono nella sua mente nei primi anni Cinquanta, dopo aver visto una coppia camminare mano nella mano su un marciapiede di Los Angeles, ciascuno intento ad ascoltare la sua radiolina con l’auricolare.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il momento della creazione letteraria ci è sconosciuto quanto quello dell’universo. Siamo in grado di studiare ogni istante dopo il Big Bang perché possiamo leggere (gli scrittori una volta le conservavano) ogni stesura di un libro come A la recherche du temps perdu o le varie versioni dell’ Amleto , ma il momento della nascita della maggior parte dei nostri libri più amati è ancor più misterioso. Che cosa fece balenare la prima idea dell’ Odissea o dell’ Iliade nella mente del poeta o dei poeti che noi chiamiamo Omero? Come ha fatto un narratore, incurante di metterci il suo nome, a ideare l’atroce storia di Edipo che avrebbe poi ispirato Sofocle e Cocteau? Quale triste amante in carne e ossa ha prestato il suo carattere all’irresistibile figura di Don Giovanni, dannato per l’eternità?

Dovremmo leggere la dichiarazione dell’evangelista Giovanni, «in principio era il Verbo », come una confessione d’autore? E se sì, quale era quella magica parola iniziale?

Le confessioni degli autori raramente suonano veritiere. Edgar Allan Poe spiegò, in un lungo saggio, che Il corvo nacque dall’intenzione di scrivere una poesia su quello che lui giudicava «senza dubbio, l’argomento più poetico del mondo», la morte di una bella donna, utilizzando per il suo ritornello le sillabe più risonanti della lingua inglese, ere ore. Le parole never e more (“ mai - più”) si suggerirono subito per il ritornello e, per fare in modo che potessero essere ripetute, scelse non una persona, ma un uccello in grado di pronunciarle: non un pappagallo, poco poetico ai suoi occhi, ma un corvo, più consono al suo cupo immaginario. La spiegazione di Poe è logica, presentata in modo brillante e del tutto incredibile.

Forse dovremmo accontentarci di ammettere che i miracoli sono possibili, senza chiederci come. E poiché crediamo ancora nella relazione di causa ed effetto, pretendiamo una spiegazione per ogni cosa: vogliamo sapere come sia avvenuta, che cosa abbia permesso che accadesse, quale fu il primo battito del cuore che mise in movimento la bestia, da dove venga questa cosa che ora abbiamo davanti.

Fortunatamente per noi, fortunatamente per la sopravvivenza dell’intelligenza umana, gli abomini si possono spiegare, anche se forse troppo tardi per porvi rimedio, attraverso l’analisi storica e psicologica. Altrettanto fortunatamente, per le creazioni letterarie non è così. Possiamo venire a sapere ciò che un autore ci dice sulle circostanze che circondano l’atto della creazione, che libri ha letto, quali fossero le minuzie quotidiane della sua vita, il suo stato di salute, il colore dei suoi sogni. Tutto, tranne l’istante in cui le parole apparvero, luminose e distinte, nella mente del poeta, e la sua mano cominciò a scrivere: «Nel mezzo del cammin di nostra vita...» (Traduzione di Luis E. Moriones)


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