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mercoledì 17 aprile 2024
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> L’immaginario del cattolicesimo romano. -- Il senso di Costantino per la propaganda. Culto della personalità, slogan a raffica, sapiente uso della disinformazione: un antesignano di Stalin

giovedì 11 settembre 2014

Il senso di Costantino per la propaganda

Culto della personalità, slogan a raffica, sapiente uso della disinformazione: un antesignano di Stalin

di Alessandro Barbero (La Stampa, 11.09.2014)

L’arco di Costantino a Roma, eretto nel 312 per celebrare la vittoria su Massenzio presso Ponte Milvio. Nell’iscrizione si legge: «All’imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il popolo romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò a un tempo lo Stato su un tiranno e su tutta la sua fazione con giuste armi, dedicarono questo arco insigne per trionfi»

Nella cultura di massa, quella dei vecchi sussidiari scolastici, della divulgazione televisiva e delle guide turistiche, Costantino è il primo imperatore cristiano, l’uomo che si è convertito prima della battaglia di Ponte Milvio, dopo aver visto in cielo la croce con la scritta «In hoc signo vinces»; il sovrano che con l’editto di Milano ha concesso la libertà ai cristiani, nonché il fondatore delle prime grandi basiliche di Roma.

In passato la storiografia diffidava di Costantino, vedendo in lui soprattutto un cinico politicante che aveva fatto le sue scelte in base a calcoli elettorali; ma dall’ultimo dopoguerra il vento è cambiato, e fra gli storici si è diffuso un clima di ammirazione e di ossequio verso il protagonista di quella che molti giudicano la più grande svolta storica mai avvenuta. Nessuno più mette in dubbio la sincerità della sua conversione, e molti credono che la croce gli sia davvero apparsa in cielo, con uno zelo che avrebbe fatto ridere gli storici dell’epoca illuminista.

D’altra parte ci sono alcuni fatti sgradevoli che nessuno può negare: Costantino era un usurpatore che è arrivato al trono grazie ai suoi soldati, e nella scalata al potere assoluto ha fatto ammazzare altri tre imperatori romani, che poi erano suo suocero e i suoi due cognati. Rimasto solo al potere, ha fatto uccidere, per motivi ancora oscuri, il figlio Crispo e la moglie Fausta; dopo la sua morte, i tre figli superstiti hanno provveduto all’istante a far ammazzare quasi tutti i propri zii e cugini, e poi si sono ammazzati fra loro finché non ne è rimasto uno solo, Costante, cristiano ariano e famoso persecutore dei cattolici.

Il bilancio, come si vede, è piuttosto contraddittorio e non stupisce che i giudizi di chi aveva conosciuto Costantino siano alquanto incoerenti. Per il suo biografo cristiano, il vescovo Eusebio di Cesarea, Costantino era «il santo imperatore», «l’amico di Dio», scelto dal Signore per insegnare la vera fede a tutti i popoli del mondo, e Dio lo ha reso invincibile e tre volte beato.

Ma suo nipote Giuliano, detto l’Apostata, l’unico scampato alla strage familiare compiuta dai cugini, traccia un quadro ben diverso: lo zio Costantino era un ignorante, che non sapeva governare né fare la guerra, e credeva che bastasse avere tanti figli per garantirsi una tranquilla successione; in fondo non era cattivo, ma era un debole, troppo amante dei piaceri, e per debolezza si lasciò trascinare a commettere infami delitti; poi, quando sentì dire che un certo Cristo cancellava tutte le colpe spargendo un po’ d’acqua sulla testa dei suoi seguaci, trovò il modo di tranquillizzarsi la coscienza, ed è per questo che si fece cristiano.

Certo, i pagani come Giuliano avevano il dente avvelenato; ma, una generazione dopo la morte di Costantino, anche gli storici ufficiali dell’impero romano lo ricordavano in termini piuttosto freddi. L’autore anonimo di un bignamino dell’epoca giudica che Costantino aveva cominciato bene ma era peggiorato col tempo, scatenando guerre immotivate e dissipando nei bagordi le ricchezze dei contribuenti: «per dieci anni lo chiamarono formidabile, nei dodici seguenti bandito, negli ultimi dieci rimbambito».

E i semplici sudditi, cosa pensavano di lui? Sarebbe bello sapere che effetto aveva la martellante propaganda con cui Costantino si presentava alle masse. Le iscrizioni, ad esempio: non c’era opera pubblica, anche finanziata dalle amministrazioni locali, che non fosse ornata di un’epigrafe che ringraziava l’imperatore per quel dono; sulle strade romane, a ogni miglio un cippo ricordava a chi sapeva leggere il nome e i titoli dell’imperatore regnante.

A queste iscrizioni il governo dedicava una cura ossessiva: appena Costantino cominciò a promuovere i figli come suoi successori designati, i loro nomi comparvero accanto a quello del padre nei cippi stradali, ma quando l’imperatore fece uccidere Crispo, il nome del figlio maggiore venne accuratamente scalpellato da tutte le lapidi sparse nell’immenso impero, dalla Britannia all’Egitto.

Invecchiando, Costantino accumulava vittorie e titoli, e le iscrizioni lo celebravano come «amplificatore della città di Roma», «liberatore dello Stato romano», «fondatore della pace», «restauratore del mondo intero», «nato per il bene del genere umano», e via giganteggiando.

Sulle monete che circolavano nelle mani dei sudditi, al culto della personalità si aggiungeva una raffica di slogan di propaganda che trasmettevano alle masse informazioni accuratamente calibrate. Le immagini e le scritte sulle monete venivano cambiate ogni pochi mesi, sicché la produzione delle zecche è un barometro sensibilissimo del modo in cui l’imperatore desiderava essere percepito. Un bell’esempio sono gli alti e bassi della sua relazione col collega, e cognato, Licinio.

Dopo il loro accordo di Milano a favore dei cristiani, le monete di Costantino esaltavano la «concordia dei nostri Augusti», la «pace eterna» e la «sicurezza dell’impero». Quando fra i due scoppiò la guerra, i riferimenti alla concordia sparirono e si cominciò a esaltare il «valore dei soldati» e la potenza degli eserciti di Costantino («vincitori dappertutto»); nello stesso momento i governatori provinciali ricevevano l’ordine di far scalpellare da tutte le lapidi il nome di Licinio.

Conclusa la prima guerra e rifatta la pace, le zecche tornarono a diffondere messaggi rassicuranti: «beata tranquillitas», garantivano le monete. Qualche governatore provinciale fu così ingenuo da crederci, e far incidere di nuovo il nome di Licinio sulle lapidi; solo per doverlo cancellare un’altra volta quando, di lì a poco, Costantino la fece finita con lui.

Bisogna dire che quest’orgia di propaganda e disinformazione non l’ha inventata Costantino, ma era la norma nell’impero romano, ci piaccia o no. È inevitabile evocare paragoni più recenti, e se a qualcuno viene in mente Stalin, il confronto non è così assurdo: dopo la caduta dell’impero bizantino e della seconda Roma, Costantinopoli, già Ivan il Terribile dichiarava che Mosca era la terza Roma. La bizantinista Silvia Ronchey non ha scritto una volta, scherzando solo a metà, che l’impero romano è caduto davvero solo nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica?


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