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MATERA 2019: UN VIAGGIO IN BASILICATA CON DON GIUSEPPE DE LUCA. Un ’ricordo’ - di Federico La Sala

mercoledì 9 maggio 2018
NELLA FOTO, ROCCO A. PETRONE (1926-2006)
Sasso di Castalda, sospesi tra cielo e terra a 120 metri sul Ponte della Luna
LUCANIA, OGGI: MEMORIA (E PROFEZIA) DI CARLO LEVI, DI "UN TORINESE DEL SUD", SEPOLTO AD ALIANO.

SUI LUOGHI DELLA (...)

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> MATERA 2019: UN VIAGGIO IN BASILICATA CON DON GIUSEPPE DE LUCA. -- L’enigma di Sasso di Castalda (di Nicola Fanizza)

lunedì 26 marzo 2018

L’enigma di Sasso di Castalda

di Nicola Fanizza (Nazione indiana, 26 marzo 2018)

L’ombra della Montagna Sacra cominciò ad abitare nei mei pensieri sin da quando frequentavo la scuola elementare. Ricordo che quel pomeriggio nel gennaio del 1959 faceva davvero molto freddo. Il vento invernale aveva costretto Benedetto ad aprire la porta di casa sua a noi ragazzini che giocavamo nella strada. Appena fummo seduti intorno al braciere, Benedetto ci regalò dei tarallini zuccherati. Subito dopo iniziò il suo racconto che era incentrato sulla sua permanenza a Sasso di Castalda, un villaggio della Basilicata, che aveva lo stesso nome della montagna.

Disse che era stato lì, come confinato, per più di un anno. Vi era giunto da Mola, verso la fine del 1941, per aver pronunciato una battuta irriverente nei confronti del regime fascista: «Saluti al Duce. Di sera senza luce, di giorno senza pane, e la notte con l’areoplano!».

La Commissione provinciale di Bari, sulla scorta della denuncia di un delatore, era stata inesorabile nei suoi confronti. Per una sola battuta, lo aveva condannato a due anni di confino.

I diciotto mesi passati a Sasso di Castalda - così ci disse - erano stati tra i più belli della sua vita. Era rimasto incantato dal suo cielo, dai suoi boschi, dalle sue acque, dai suoi luoghi senza gloria, così poveri e antichi. Aveva imparato ad amare la generosità dei contadini lucani, la loro disponibilità a ospitare persino lo straniero di cui non conoscevano neppure il nome.

I pastori gli avevano detto che la montagna era situata a una distanza pari fra l’Adriatico, lo Ionio e il Tirreno e che dalla vetta, quando il cielo era limpido, era possibile vedere scintillare insieme le tre marine!

Da qui il suo desiderio di raggiungere la sua sommità più alta. Un’esigenza che diventa comprensibile se si tiene presente che nel nostro immaginario la Montagna rimanda da sempre al legame fra la Terra e il Cielo.

Quando Benedetto arrivò in cima alla montagna, il cielo azzurro gli apparve così vicino da poterlo toccare. Vide scintillare insieme le tre marine e si rese subito conto che in quell’inedito spazio esistenziale non avvertiva più la differenza fra l’alto e il basso, fra il vero e il falso, fra la salita e la discesa.

Il racconto di Benedetto mi aveva a tal punto coinvolto sul piano emotivo da farmi dimenticare i dolci che avevo nelle mani. Cominciai a sognare ad occhi aperti. Salivo anch’io sulla cima di quel monte fantastico e vedevo da lontano lo scintillio delle tre marine. Mi ripromisi che, non appena ne avessi avuta la possibilità, sarei andato anch’io in Basilicata per salire sulla vetta di quella montagna meravigliosa.

Benedetto lo chiamavano «u fascianaise» (il fasanese), poiché era nato per l’appunto a Fasano. Si era poi trapiantato a Mola e abitava in via Pascasio, ossia nella stessa strada in cui era ubicata la casa dei miei genitori. Era un contadino benestante e senza figli. Possedeva un bellissimo sciaraballe* (calesse), impreziosito sulle sponde del cassone da due dipinti simmetrici in cui erano raffigurati, sullo sfondo celeste, due cesti di uva nera.

Mentre la moglie Francesca era piuttosto minutina - la chiamavano «a cordelécchie» (la piccolina) -, Benedetto, invece, era longilineo. Il suo viso era roseo sul fondo scuro della barba incolta; aveva gli occhi di poeta e parlava in modo frizzante e saporito. Era simpatico, carico di sorrisi e di cordialità, allegro e generoso con tutti.

Era un uomo che sapeva vivere. Ogni fine settimana organizzava delle feste, in cui si beveva a volontà, si discuteva di politica, si parlava del libero amore, si ascoltava la musica e si cantava.

Benedetto era anarchico e tuttavia non si perdeva mai una processione. Andava in giro con la giacca piena di «pizzini» su cui riportava gli aforismi dei pensatori anarchici e quando gli capitava l’occasione li tirava fuori e li leggeva.

D’altra parte, rivendicava la sua devozione per San Nicola, di cui raccontava un’antica leggenda: «San Nicola mentre si recava attraverso la steppa russa a un incontro con Dio, non poté impedirsi di arrivare in ritardo, poiché si era attardato a liberare dal fango la vettura impantanata di un mugik!».

Grazie agli insegnamenti di San Nicola - il santo della carità -, Benedetto era penetrato fino al midollo di quel senso universalistico della fraternità che si configura come ciò che accomuna tutte le religioni e che sta a fondamento di ogni cultura. La carità per Benedetto era coestensiva alla pietà. Era insomma una categoria antropologica.

Quando dopo alcuni anni feci notare a mia madre la sua contraddizione, lei mi disse che ero ancora troppo piccolo per capire certe cose e che «Benedetto era un uomo straordinario, un individuo che trovava il tempo e il modo per fare tante cose insieme!».

Benedetto era un individuo sovrano, un uomo che aveva fatto della sua vita un dono. Era, infatti, generoso con i poveri e, in modo particolare, con Ciccillo «u mamaune» (lo scemo), il quale era goloso di maccheroni.

Ricordo che quest’ultimo era anche egli altissimo, aveva una corporatura massiccia, l’andatura era callosa e si trascinava a passi lenti e pesanti. Viveva da solo e nell’ora di pranzo si recava ogni giorno dai suoi parenti per ricevere il «rancio» quotidiano, che consumava, però, a casa sua.

Ciccillo aspettava sempre con ansia le festività più rilevanti, poiché in quelle occasioni avrebbe mangiato i suoi adorati maccheroni. E tuttavia proprio nel giorno della festa patronale accadde l’imponderabile.

Ciccillo si recò come al solito dai suoi parenti per prelevare ciò che aspettava da diversi mesi, ma, quando tornò a casa, fu investito da una triste meraviglia: nel piatto non c’erano i maccheroni, bensì le fave!

Lo vidi fare avanti e indietro nella strada, e lo sentii manifestare la sua amarezza, ripetendo ad alta voce: «Nooo. Oggi è la festa della Madonna, io le fave non le mangio: voglio i maccheroni con la carne!».

I vicini uscirono in strada per commentare - divertiti - l’accaduto, ma solo mia madre e Benedetto recepirono la sua accorata richiesta. Ciccillo, però, accolse l’invito di Benedetto: sapeva che alla sua tavola non mancavano mai i maccheroni con la carne!

L’occasione per andare a Sasso di Castalda mi capitò solo dodici anni dopo, grazie a mia sorella Caterina, la quale conosceva il mio desiderio di salire sulla vetta della montagna di quel paese. Caterina si era sposata da appena due anni con Francesco, un funzionario del Banco di Napoli. Tuttavia, subito dopo il matrimonio, il marito fu inviato dalla sua banca presso la filiale di Senise in Basilicata, in provincia di Potenza, e Caterina era stata costretta a seguirlo. Da qui il suo invito a raggiungerla a Senise, che dista settanta chilometri dal paese in cui Benedetto era stato confinato.

Prima di giungere nel paese, vidi che stavano costruendo una diga in terra battuta, che frenando il corso del fiume Sinni creava un lago artificiale. Caterina aveva cominciato ad amare quel lago che era appena nato per l’azzurro delle acque, il giallo ocra della sabbia, il verde dei suoi boschi. Tutto ciò - mi disse Caterina - contribuiva a rendere quello specchio d’acqua un «angolo di pace e tranquillità».

Il giorno successivo al mio arrivo a Senise, ci mettemmo in cammino, con la macchina di mio cognato, per raggiungere Sasso di Castalda. La strada era sconnessa e tortuosa come un cavatappi. Da lontano vidi un pugno di case, abbarbicate a uno scoglio aspro, coperto a tratti dal muschio di colore verde.

Quando iniziammo la salita, si unì a noi un uomo che era già avanti negli anni. Capelli bianchi, corporatura esile, viso lentigginoso, occhi verdi, l’uomo che camminava, col passo lento, al nostro fianco sembrava un norvegese e, invece, ci disse che era francese. Senza che nessuno lo invitasse a parlare, asserì che quello per lui era un bel giorno. Aveva cercato per trent’anni il luogo in cui si trovava la Montagna Sacra e, finalmente, l’aveva trovata: era a Sasso di Castalda!

Dopo aver ascoltato le sue parole, gli chiesi di parlarmi del mistero di Sasso di Castalda e del perché la ritenesse una Montagna Sacra.

Il Francese rispose solo in parte alle mie due domande. Si limitò a dire: «ragazzo ricordati che ogni ascesa è anche una discesa!».

Eravamo giunti a un centinaio di metri dalla vetta, quando mi resi conto che il Francese non era più con noi. Rivolsi più volte il mio sguardo sia in alto sia in basso, ma non lo vidi più. Avrei voluto sapere come si chiamava. Avrei voluto parlare più a lungo con lui. Avrei voluto fargli altre domande ... Niente. Il Francese senza nome era scomparso!

Ci fermammo, infine, su una radura e di lì, grazie all’assenza di nubi, vedemmo le tre marine inondate dalla stessa luce color verde-oro, iridescente. Era una luce meravigliosa. Una luce reale e, insieme, irreale!

Dopo quella salita sulla vetta di Sasso di Castalda, mi accadde di pensare più volte alle parole che il Francese senza nome aveva detto nel corso della nostra ascesa. Ma col passare del tempo la mistica dell’alpinismo si fece sempre meno pervasiva, fino a scomparire del tutto dai miei pensieri.

Ciò che riaccese in seguito il mio interesse per l’enigma di Sasso di Castalda fu il mio amico Federico La Sala. Quest’ultimo mi parlò di uno scritto autobiografico di don Giuseppe De Luca, il quale era nato proprio a Sasso di Castalda.

De Luca aveva svolto la sua funzione di «mediatore» fra la cultura profana e quella sacra, era stato amico e collaboratore di Giovanni XXIII, e va ricordato soprattutto per aver dato il via al progetto e al lavoro dell’«Archivio italiano per la storia della pietà».

Grazie anche alla sua scrittura ispirata, De Luca aveva attribuito una notevole valenza simbolica a Sasso di Castalda. Nella sua rappresentazione la vetta della montagna si trovava sul vertice di una piramide, la cui base era delimitata dai lati di un triangolo, su cui battevano le onde di tre mari diversi: il Tirreno, lo Ionio, l’Adriatico. Sul Tirreno, c’era Elea, la città in cui era nato Parmenide, il fondatore della metafisica (immanenza); sullo Ionio, Metaponto, la città in cui aveva vissuto Pitagora, il fondatore della filosofia religiosa (trascendenza).

E, tuttavia, De Luca aveva taciuto sul terzo tassello, capace di risolvere l’enigma di Sasso di Castalda!

E’ probabile che abbia taciuto volontariamente. De Luca era un uomo dotato di una grande cultura sapienziale. E come spesso accade, i sapienti non mettono per iscritto tutto ciò che sanno, per lasciare al lettore la possibilità e il piacere di svelare ciò che essi hanno volutamente taciuto o nascosto.

In seguito mi sono venute in mente le parole con cui il Francese senza nome mi aveva invitato a mediare fra ciò che sta in alto e ciò che sta in basso. Ho ripensato, inoltre, a Benedetto che voleva rinnovare lo spazio sociale con le pratiche che stazionano nell’atmosfera del dono. Ho rivolto, infine, l’attenzione alle città che sono disseminate sulla costa del Mar Adriatico e, in particolare, alla Terra che mi ha visto nascere. Qui i miei occhi si sono fermati - improvvisamente - sulla città di Bari, che custodisce le reliquie di San Nicola, il santo della carità ...

* Carro a un solo asse piuttosto elegante trainato da un cavallo, generalmente adibito al trasporto di persone. Il termine deriva dal francese «char à banc», che designava il carrozzino utilizzato, per lo più, dai proprietari terrieri per recarsi in campagna a controllare i loro poderi o per fare delle passeggiate con la famiglia.


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