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IL BUON MESSAGGIO (Eu-angelo, ev-angelo, non ... vangelo, il gelo dell’inferno!). In principio era la Parola del Dio Amore ("Deus Charitas") - non il "logo" di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)!!!

PIRANDELLO E LA BUONA-NOVELLA. DALL’ITALIA, DALLA SICILIA, DA AGRIGENTO, DA BONN, DA ROMA, DA MILANO, DA NAPOLI, DA SAN GIOVANNI IN FIORE, E DA GERUSALEMME: UN "URLO" MAGISTRALE PER BENEDETTO XV ... E BENEDETTO XVI - a c. di Federico La Sala

LA NOTTE DI NATALE. Basta con la vecchia, zoppa e cieca, famiglia cattolico-romana, camuffata da "sacra famiglia"!!!
giovedì 13 settembre 2012 di Emiliano Morrone
[...] Venuta la notte di Natale, appena il signor Pietro Ambrini con la figlia e i nipotini e tutta la servitù si recarono in chiesa per la messa di mezzanotte, il signor Daniele Catellani entrò tutto fremente d’una gioia quasi pazzesca nella stanza del presepe: tolse via in fretta e furia i re Magi e i cammelli, le pecorelle e i somarelli, i pastorelli del cacio raviggiolo e dei panieri d’uova e delle fiscelle di ricotta - personaggi e offerte al buon Gesù, che il suo demonio non aveva (...)

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> PIRANDELLO E LA BUONA-NOVELLA: "UN GOJ" --- Ritratto di famiglia in una grotta: «Edipo a Nazareth» (1981) - Werner Maria Schroeter (di Emanuele Canzaniello).

venerdì 27 novembre 2015

LA "RISATA" DI PIRANDELLO E LA LEZIONE DI FREUD. Ritratto di famiglia in una grotta...


Edipo a Nazareth (1981) - Werner Maria Schroeter

di Emanuele Canzaniello *

«L’arte è una vendetta contro la vita, non ho ancora trovato nulla che riesca a respingere quest’ipotesi nella mia testa», questo dichiarava Schroeter in un’intervista degli anni ’70. E la sua vendetta migliore è consumata oggi con l’uscita del suo Edipo. Non un film ma un music hall d’intertestualità biblica, un Jesus Christ Superstar serissimo, terroso e pieno di scarti di lavorazione da falegnameria. Un teatro di posa all’aria aperta, conversazione e camera mobile.

Ritratto di famiglia in una grotta, con bidè e asciugamani di una modernità infantile, novecentesca e psicanalitica. Grandi liturgie di trucco sul viso degli attori, false e credibili al virare delle luci. Siamo nella storia sacra, ma il repertorio è quello d’opera. Più che nelle musiche lo è nel gesto, nella profondità dei fondali che costantemente si lasciano intuire sulla scena. Il registro musicale tiene la sfida affidandosi alla fama ventilata di arie celebri, ma in splendida maniera incongrua, ostinata e lacera, tirata dentro al film per la tunica. Aida, le piramidi e i calcinacci di Palest(r)ina. Mio dio, il diavolo. Oh tell me the truth about love.

Il padre Giuseppe è così carino, lui sì che è il bello di casa, l’avranno preso su una spiaggia in California, my Hustler, come gli piaceva il mare, anche in Cisgiordania. È la storia di una coppia degli anni ’60 ma ambientata in un deserto serico e scenografico della Galilea, fino a Gerusalemme, luogo della crocifissione. Non si scherza, si arriva fino a lì. Dunque, quest’uomo, Giuseppe, ha trent’anni quando sposa Maria, di soli sei anni più giovane. E come vanno i primi tempi del matrimonio? Benissimo, Maria aspetta la prima figlia dopo nemmeno un anno. Ma com’è questa giovane madre? Maria figlia del tuo figlio, tu, che fai risalire il corso del seme e perverti le generazioni.

Maria non è giovane, è una madre che nasce obesa, anziana e obesa, una signora del sud. Davanti a voi, questa è la donna. Quello il ventre della grazia. Uno scarto magnifico, adipe dello Stabat mater. Il primo figlio maschio è il suo amore, si è incerti se sia lui quello di cui parlano le scritture, il figlio di Davide. È questa l’aspettativa che fa il primo amore. Il matrimonio con Giuseppe s’impoverisce, si annienta ma non si disperde. Come non si disperde il seme su una terra di lavoro, coltivata per dare frutto.

Dall’unione più che tardiva della coppia nasce il secondo maschio, il terzo dei figli di Giuseppe. Il suo nome sarà l’Emmanuele, la sua vita un aborto fino a trentatre anni. La storia sacra viene annotata a margine in scene magnifiche di gelo familiare. La presentazione al tempio riserva tutto il terrore e l’abito della serietà, che la vita è l’irreversibile, vista negli occhi di quel giovane Nazareno nato vecchio, tra genitori imbarazzati dagli anni, dal gesto meccanico dell’accudimento immediato e increscioso.

Il lungo esito del film è di fatto una storia di due fratelli prima che decidano di allontanarsi dalla casa del padre. Fatta dei primi miracoli apocrifi con la sabbia e dei giochi condivisi nonostante l’enorme differenza di età tra i due. Sulla porta della falegnameria la luce migliore d’outremer. Ma non basta, il Nazareno non impara il mestiere dei suoi, legge le scritture ed è solo.

Da solo si masturba e una ricchezza ornamentale mal gestita ci mostra il lungo silenzio e l’affanno del rituale; turgido e imbrattato il lenzuolo intorno al bacino, presagio della deposizione. Con il movimento finale della mano si completa anche il movimento della composizione e l’inquadratura finale, insieme alla musica, ci fornisce l’alibi pittorico per leggervi in quella morte la grande morte rinascimentale sulla croce.

«Provo ad ascoltare Mozart o a finire dal confessore» risponde ad un’amica negli anni che precedono il trentesimo. Nella sua casa, nel suo villaggio, fino ai trent’anni il Nazareno viene salutato a volte, e per errore, con il nome dell’altro, del fratello, il primogenito di sua madre.

Partiti da Canaan, compiuti i primi segni della predicazione, i primi miracoli, il più giovane non lo proteggerà la folla, lo ucciderà il fratello durante una lite. Ricercato dal Sinedrio, il vivo, il sopravvissuto viene protetto dalle sue donne, dalla stessa madre che ha perso l’altro figlio.

Nascosto in casa, viene arrestato solo dopo l’inevitabile perquisizione dei romani. Il venerdì santo, il fratricida, il dio in casa, prende il suo posto in croce in mezzo a due ladri.

Un’operazione di falsificazione imperturbabile, mai rivolta all’occhio di chi guarda, senza neppure l’idea dell’anacronismo, spalle alla storia eppure di un nitore esibito. La chiarezza meridiana e ocra delle pietre antiche di Gerusalemme in riverbero fotografico costante, un set di autentica messa in scena in costume evangelico, e insieme non una parodia ma una rilettura eseguita su un calco sbagliato, su una pietra difforme: l’Œdipus rex. In tutta questa serietà gelosa il meglio che si possa ricavarne è lo sfarzo, pensato in grande e gestito peggio, di fornire al Cristo tratti confusi, irriconoscibili, di una grazia settecentesca vitale, fiorita, immune agli affanni eppure seviziata. Come quando, garbato, il giovane introverso regala delle magnifiche tabacchiere rococò a un Erode non troppo sbalordito ma sorridente. Le implicazioni psicoanalitiche restano del tutto leggibili, ma anche quelle esibite quanto sfigurate, martoriate, prese in giro, riempite di sputi. Il Nazareno non sa di essere il messia, non sa che sua è la varietà di maiale di Gerasa, squisita al taglio. Non conosce il leggero gusto omoerotico che gli ha fornito il suo regista, vuole solo perdere, dormire, nemmeno morire. Non sa che suo è l’odio per i fratelli, l’odio della vita. Non sa che ad essere lui il condannato giustizia è fatta. Non vede, come facciamo noi, la madre che nasconderà il suo assassino, il maggiore, rinchiuso in casa e nutrito come un ebreo protetto dai rastrellamenti. Bella di sole, rapida, estremamente vivida nei rumori, nel vocio in presa diretta, la scena della crocifissione: una liturgia al gusto della menzogna. L’uomo sbagliato muore all’istante, senz’aspettare troppo. Spoglia e cruda: una crocifissione estiva, in pieno splendore di mezzogiorno.

* Emanuele Canzaniello, Elogio cinematografico del suicidio - prima parte (Nazione indiana, 27 novembre 2015).


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