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Esami di maturità 2008: le tracce della prova di italiano

mercoledì 18 giugno 2008 di Emiliano Morrone
Le tracce degli esami di maturità del 2008 riguardano:
1) la donna;
2) Eugenio Montale;
3) il lavoro;
4) la Costituzione.
Cinquecentomila studenti si cimenteranno con la prova di italiano dell’esame di maturità. Il tema di italiano sarà uguale per tutti gli indirizzi di studio.
Il ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini ha detto: "Non voglio fare retorica ma l’esame di maturità è una tappa fondamentale nella crescita educativa e umana dei ragazzi. In questo momento so bene che tra (...)

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> Esami di maturità 2009: le tracce della prova di italiano --- LA PRIMAVERA AMERICANA.

giovedì 6 novembre 2008


-  Non c’è nulla di diverso nel paese di stamattina. Eppure tutto è diverso
-  una "primavera americana" che ancora non si vede, ma si sente

-  La lunga notte della rivoluzione
-  che ha cambiato il volto degli Usa

-  Gli ultimi lustrascarpe ricordano ancora la rivolta di Washington
-  ora che un "brother" dormirà nella casa che avrebbero voluto mettere a sacco

-  di VITTORIO ZUCCONI *

WASHINGTON - La notte che ha cambiato tutto si stempera in un giorno di esausta, civile normalità, che produce in noi ammirazione, stupore e qualche invidia.

È cambiato tutto. Si sono rovesciati 40 anni di storia, tra le rivolte dei ghetti del 1968 e l’annuncio della vittoria del figlio di un kenyano, nelle tre ore passate fra i primi risultati incerti dalla Florida, dalla Virginia, dall’Ohio, fino alla valanga di voti del West alle 23 e un minuto, ora della capitale.

Ma sulla nuova America che ha stravinto, come su quella vecchia che ha straperso, sulla insurrezione elettorale dei giovani che hanno respinto la tentazioni della protesta e hanno trovato lo strumento politico per manifestare la loro voglia di antipolitica, dei neri, dei bruni, delle donne, è già scesa la pace. Sotto la coperta rassicurante della Costituzione, delle regole da rispettare e rispettate, della civiltà politica, dell’accettazione di vittorie come di sconfitte, l’America oggi riposa esausta e si distende.

Gli americani hanno fatto una rivoluzione e tutto quello che posso raccontare di scomposto è la folla che spontaneamente si era raccolta attorno alla Casa Bianca a mezzanotte, per cantare "Bye Bye George" e fare la serenata a un presidente detestato da 3 americani su 4, senza che volasse un ciottolo.

Perché rivoluzione è stata e la nuova carta politica dell’America, che i pennelli elettronici delle network andavano disegnando, i messaggi frenetici dei blog e dei siti internet raccontavano e le ricerche sui voti confermavano, è un continente umano e politico che sembrava scomparso ed è invece riemerso. Non un’"altra America", come vogliono i luoghi comuni, ma un’America che non aveva trovato il messaggio e il messaggero per uscire dall’incantesimo dei falsi "valori", del moralismo, della xenofobia, dei miti fiscali spacciati da coloro che avevano tutto da guadagnare e nulla da restituire, e ora l’ha trovato. E’ sbalorditivo che tutti gli stracci agitati per un decennio dalla destra, nessuno, neppure la questione dell’aborto che ormai è vissuta come una storia conclusa e acquisita, abbiano fatto la loro comparsa in questa elezione. Forse questo, il mancato ricorso agli spettri delle paure, spiega la quiete dopo la notte.

Barack Obama ha vinto ovviamente perché i suoi fratelli di sangue hanno votato come mai avevano fatto prima, fino al 95% con lui, dopo che si era insinuato che lui "non fosse abbastanza nero", per non essere cresciuto nei casermoni dell’edilizia popolare, i projects, sforacchiati da sparatorie e da crimine. Ma ha vinto perché le donne lo hanno scelto, nella speranza che lui sia colui che finalmente darà sicurezza sanitaria a quelle madri single che allevano figli senza alcuna protezione assicurativa e hanno visto in lui, bambino allevato da donne, la madre sola e la nonna, la rivincita della loro fatica quotidiana. Ha vinto con i latinos, stanchi di essere trattati come usurpatori di terre nelle quali fanno i lavori che permettono ai bianchi di farne di migliori. Ha vinto fra quei "colletti blu" delle acciaierie in agonia, delle fabbriche d’auto che oggi vendono un terzo meno dell’anno scorso, quei "democratici di Reagan" che la strategia repubblicana era riuscita a sedurre agitando le bandierine dei "valori", morali, patriottici, militari. Ha vinto addirittura nel West, dove il rude cowboy immaginario ha da tempo lasciato le prateria ai nuovi americani dei sobborghi, della tecnologia, dei diritti. Ha vinto perché è il segno, e il volto, dell’America nuova, contro un partito vittima del proprio successo con un’America Vecchia che esiste sempre meno, persino nella Florida dei vecchi.

Ci sarebbero infinite ragioni di rancore, voglie di conti da saldare, paure per l’immaginario "radicalismo marxista" di un ultra liberal, che si rivelerà molto più probabilmente come un centrista moderato al massimo con qualche istinto blandamente socialdemocratico, ma se ci fossero state voglie di rese dei conti, le avrebbero spente, prima che la notte degenerasse in un giorno di mazzieri, le avrebbero subito spente le parole proprio dei due protagonisti, uniti da uno stesso filo: io ho perso, ora deve vincere l’America e l’America è colui che è stato eletto. Io ho vinto "ma dovrò governare anche per coloro che hanno perso", come ha detto Obama. E le braci accese da secoli si sono spente e raffreddate anche in quel parco di Chicago dove i figli degli hippies e dei sessantottini piangevano abbracciando i vecchi poliziotti in pensione che il sindaco Daly aveva mandato a sprangare a sangue i loro padri e le loro madri, nell’estate del 1968.

Non c’è niente di diverso, nella Washington dove esco dopo il voto. I giovanotti di colore che mi riempiono il sacchetto del supermercato sono gli stessi di ieri e non sono diventati presidenti degli Stati Uniti né direttori del negozio alle 23 e 30 di martedì, quando uno come loro è diventato il Capo dello Stato ed è probabilmente soltanto la mia immaginazione di cronista che vede nei clienti che spingono il carrello e li ringraziano un’ombra di rispetto in più, come se trattarli male, da oggi, potesse scatenare sull’uomo bianco sgarbato con il garzone nero la furia del nuovo governo federale e un immediato accertamento fiscale.

Eppure tutto è diverso, come se vivessimo in una "primavera americana" che ancora non si vede, ma si sente. Guido l’auto nel centro di Washington, la capitale molto "romana", molto sorniona e cinica, che aspetta l’arrivo del nuovo Cesare, il 20 gennaio prossimo, e delle sue centurie, senza scomporsi, sapendo che sopravviverà anche a questo ribaltone storico, culturale, morale come ha saputo sopravvivere ai sudisti che la bombardavano, ai mercenari inglesi che la invasero e ai dementi di Al Qaeda che le schiantarono un Boeing 757 di linea contro il Pentagono, senza che il cuore della città perdesse un colpo. E’ questo, il momento della transizione da un imperatore all’altro, avvenuto 41 volte in 220 anni per 43 presidenze, nel quale si vede la magnificenza civile della nazione. Non si sentono urla e grida, non ci sono vincitori che insolentiscono i trombati, o sconfitti che digrignano i denti, anche grazie alla stangata senza equivoci di Obama, e del partito democratico, che ha conquistato seggi e allargato la maggioranza al Congresso, Camera e Senato, costruendo un "monocolore" democratico nel cuore del governo nazionale come non si vedeva da decenni.

Il sovrano deposto dalla Costituzione e bocciato dal voto, Bush, che è il vero sconfitto come ammettono anche i suoi ultimi supporter come Bill Kristol o Fred Barnes, i boia chi molla della destra estrema, si fa vedere sul pronao della Casa Bianca semplicemente per congratulare colui che da 21 mesi va ripetendo che proprio Bush è stato una catastrofe, per dire che lui è da questo momento a disposizione del successore, che Obama ha ragione quando dice che l’America è la nazione dove tutto è possibile e i messi del nuovo Cesare avranno libero accesso e saranno d’ora in poi, giorno dopo giorno fino alla inauguration fra 70 giorni, messi al corrente di tutti gli affari di Stato.

Chi oggi attraversa questa capitale lubrificata dall’esperienza delle transizioni e dal senso di responsabilità nazionale e internazionale che porta sulle spalle, non può non ricordare come la trovò trent’anni or sono, e cerca invano i segni delle lingue di fuoco che annerivano la facciata degli edifici del centro, all’incrocio della 14esima strada e della F Street, a 100 metri dalla Casa Bianca, dove l’insurrezione del ghetto nero arrivò con la armi, le fiaccole, le spranghe in mano, fermato dalla Guardia Nazionale in assetto di guerra, dopo la notizia dell’assassinio di Martin Luther King, nel 1968.

Gli edifici affumicati, che contemplavo dalla finestra dell’ufficio nel palazzo della stampa, sono stati abbattuti, ci sono shopping center, caffetterie, condomini di lusso, negozi di chincaglieria costosa. Soltanto i vecchi, gli ultimi lustrascarpe ricordano ancora la sommossa di Washington e lustrascarpe rimangono, anche ora che un brother, un fratello di sangue, dormirà nella casa che loro avrebbero voluto mettere a sacco. Il primo giorno del resto della nostra vita, come vuole un detto americano, è un giorno normale, pacifico, qualsiasi, dopo una notte che avrebbe potuto, altrove, scatenare piazze e furori.

Questa "primavera di Washington", che fiorisce in autunno, fa piangere in silenzio, compostamente, come ha pianto ieri notte Colin Powell, che si era esposto per dare la propria investitura a Obama e fa piangere coloro che in buona fede, avendo ascoltato le farneticazioni della cacciatrice di alci, rivelatasi una prevedibile zavorra dopo la fiammata di curiosità iniziali, davvero crede che dal 20 gennaio prossimo gli Usa diverranno gli "Ussa", gli "Stati Uniti Socialisti d’America" e Obama porterà via il negozio di souvenir o la cassetta delle spazzole ai lustrascarpe, mentre i "neri" la faranno da padroni, vendicandosi dei padroni.

E tutto quello che è successo è che la mappa elettorale dell’America torna finalmente a corrispondere alla propria diversità, come la faccia di chi l’ha disegnata, ha il volto di una nazione che riassume in sé il dna del mondo. E se la nonna di Obama non lo ha visto vincere per 24 ore, Ted Kennedy è riuscito a resistere al male che lo sta uccidendo, per vedere il ritorno dell’America che finalmente i suoi fratelli avrebbero riconosciuto.

* la Repubblica, 6 novembre 2008


Sull’argomento, si cfr. anche:

"CHANGE WE NEED". BARACK OBAMA, SULLE ALI DELLO SPIRITO DI FILADELFIA E DI GIOACCHINO DA FIORE, HA GIA’ PORTATO GLI U.S.A. FUORI DAL PANTANO. - per leggere l’art., cliccare sul rosso).


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