Emanuele Severino: Storia, gioia
di Francesco Roat *
Le tematiche affrontate nell’ultima opera di Emanuele Severino ‒ “Storia, gioia” ‒ sono sempre le stesse su cui, fin dall’inizio della sua riflessione speculativa, s’incentra il pensiero del più noto filosofo italiano contemporaneo. A fondamento della sua teoresi permane dunque l’idea che il divenire non esista, stante il convincimento ‒ di derivazione parmenidea ‒ che: l’essere è e non può non essere; mentre il non essere non è, e non può essere. Da questa premessa, per Severino, gli essenti (ogni cosa, pensiero, animale o persona) risultano eterni, giacché non è possibile che quanto è ‒ divenendo ‒ si annichili: passando così dall’essere al non essere. All’obiezione dell’uomo della strada secondo il quale invece appare chiaro che ‒ ad esempio ‒ un ciocco di legna a cui è stato dato fuoco si trasforma in altro da sé, Severino risponderebbe che, coerentemente alla propria premessa di fondo (a suo dire indubitabile/ineccepibile), tale ciocco non si è davvero trasformato, bensì ha solo smesso di evidenziarsi nel “cerchio dell’apparire”. Ovvero è scomparso dal nostro scenario percettivo, pur rimanendo essente nel “cerchio originario del destino”.
In tale visione del mondo la “storia” risulta l’infinito e vasto apparire degli eterni immortali (ad onta dell’illusoria loro mortalità, vista qui come mera fuoriuscita dalle quinte del teatro mondano); non essendo costituita da res gestae: da cose che son fatte esistere e che poi escono dall’esistenza. Pertanto il ritenere che ciò che è possa trasformarsi in nulla ‒ ribadisce in ogni suo scritto Severino ‒ è quella che lui chiama la “follia estrema” dell’Occidente e l’errore che sta alla base della filosofia quale è oggi concepita nell’era del nichilismo e della tecnica. Follia che fa credere/temere la morte come “annientamento”, rispetto alla quale vanamente il sapere e l’operare tecnocratico cercano di opporsi tramite una pseudo-potenza che però “sa di essere estrema impotenza”.
Credo risulti evidente al lettore la tendenza severiniana alla rigida/astratta formulazione concettuale, che non gli consente di uscire dai formalismi della logica classica (aristotelica), tutta giocata sul principio di non contraddizione e del terzo escluso. Logica messa peraltro in crisi non solo da Nietzsche ma dalla fisica quantistica, laddove essa ritiene che un quanto può venire espresso da due rappresentazioni opposte che dicono d’una medesima realtà (onda e/o particella). Ma oltre Parmenide e Aristotele sembra proprio che Severino non intenda, né abbia mai inteso procedere. Persuade comunque assai poco la sua ipostatizzazione di ogni “essente”, cristallizzato in una forma immutabile. Questa visione appare davvero frutto di un’ottica filosofica che si auto-costringe in una teorizzazione concepita/concepibile appena tramite assiomi sedicenti incontestabili.
Dire, infatti, che un essente è e che non può mai tramutarsi in ciò che non è (negazione del divenire) significa definire o congelare in modo del tutto arbitrario un aspetto/fenomeno senza tener conto che tale operazione è possibile solo astraendolo dal suo contesto esistenziale. Si pensi solo ad un atomo qualsiasi, impossibile da immobilizzare, è la cui immagine statica dunque è virtuale, giammai reale. Il mutar configurazione da parte dell’atomo (e delle particelle subatomiche che lo compongono) è costante e, per dirla con Severino, la sua essenza sta giusto nel non avere una forma definibile una volta per tutte. Non parliamo poi d’un qualcosa denotato da maggiore complessità, tipo un organismo animale, che eguale a se stesso non è praticamente mai, cangiando di continuo la conformazione/interazione delle sue cellule.
Ben altro sarebbe il discorso di Severino se egli, dismessa la saccenza assertoria del logos, recuperasse la saggezza del mythos. Se egli si facesse filosofo-poeta, con altro sguardo coglieremmo questo suo ultimo scritto; magari finendo per apprezzarne la felice poiesis, la intuizione creativa d’un linguaggio avente il coraggio di parlarci della “storia autentica” di una terra non più isolata/destinata all’annichilazione, ma che ai suoi occhi risulta storia “infinita” ed è al contempo “il dispiegamento senza fine della Gloria”. Accompagnata dalla Gioia, intesa come “la manifestazione infinita del Tutto”.
Bello sarebbe il racconto del Nostro se egli concepisse il suo dire nel segno della metafora, dell’allusività e del simbolo; in una parola: all’insegna di un dire poetico. Allora forse apprezzeremmo l’estrema e misteriosa liricità di una frase come questa, altrimenti irricevibile: “nemmeno un filo d’erba può essere trasformato, fatto diventare altro”. O di quest’altra: “i cerchi del destino non hanno più da temere la morte e il dolore (...) Essi sono semplicemente aperti al sopraggiungere sempre più concreto della Gioia”.
Che nostalgia di assoluto, che fame di eternità, che sete di infinito, in tali espressioni! Sì, Severino ‒ nella seconda parte dell’opera ‒ talvolta dismette i panni sussiegosi del loico assumendo veste e toni mistico-poetici che destano stupore se non ammirazione; come quando descrive gli uomini odierni avvolti pur dalle tenebre, ma che “nella loro vera essenza essi sono innanzitutto eterne luci infinite. Ogni luce, un infinito. Una costellazione infinita di luci infinite”. O altrove, quando scrive: “L’essenza dell’uomo è la manifestazione finita del Tutto”. O, ancora, sembrando avere indossato le vesti d’un maestro Zen, egli nota, a mio parere condivisibilmente, “per quanto ampio e profondo, il dolore finito è pur sempre un «punto rispetto all’infinità della Gioia”. O infine, allorché trova la forza di ammettere: “il dolore è tale solo in quanto è rifiutato”. A quando un Severino mistico a tutto tondo?
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