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La Sala

L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

lunedì 6 febbraio 2006 di Emiliano Morrone
SHAKESPEARE, SONETTO 116
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O, no! it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and (...)

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> L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO --- La «Tempesta»: "Vivere nella Tempesta". Un’isola della mente che è approdo della vita (di Corrado Bologna)

venerdì 10 giugno 2016


Shakespeare

Un’isola della mente che è approdo della vita

Alla «Tempesta» che stravolge le esistenze, ma ridà senso alla «passione del vivere», Shakespeare dedicò, nel 1611, il più alto dramma della sua ultima stagione. Oggi Nadia Fusini ne dà una rilettura empatica, per Einaudi

di Corrado Bologna (il manifesto, 10.06.2016)

«Navigare è necessario, non è necessario vivere», diceva il motto della Lega Anseatica, la potente associazione di armatori e mercanti che per secoli dominò i mari del Nord Europa. La vita come opzione: una sfida prometeica. Perfino metafisica e allegorica, poi, l’idea che sia impensabile non andar per mare, non scivolare nello spazio sulla materia liquida che sfugge alla presa e non si ferma mai nel suo ritmo preistorico: la cosa più vicina, sul nostro globo, all’eternità e all’ansia terribile del profondo, dello smisurato. Via via che le scoperte dei nuovi mondi si moltiplicano e compaiono continenti impensati, far rotta sul mare significa sempre più esplorare e conoscere, conquistare l’oltre.

Il regno della dea Fortuna

I poeti interpretano questo bisogno molto concreto di ulteriorità, vi riconoscono la traccia di una memoria arcaica, forse quella mitica dei primi navigatori nel Mediterraneo. Chissà se Dante navigò mai. Certo nella Commedia un immaginario metaforico di straordinaria potenza figurale è imperniato sul mare e sulla navigazione: «la navicella dell’ingegno» su cui si apre il Purgatorio; l’Italia lacerata dai conflitti come una «nave senza nocchiere in gran tempesta» del VI canto purgatoriale; «lo gran mar dell’essere» all’inizio del Paradiso, dove noi poveri marinai «in piccioletta barca» veniamo invitati a non metterci in quell’acqua pericolosa, che «già mai non si corse». Leopardi nell’Infinito, e dopo di lui l’Ungaretti nell’Allegria di naufragi, riprendono e conducono l’allegoria fino al naufragio del pensiero, esito tragico e «dolce» del desiderio dell’oltre nella modernità.

Su tutti e tutto regna la dea Fortuna, incontrollabile sovrana della terra, dell’acqua, dell’aria: fortunale si chiama, infatti, la tempesta che può rovesciare le navi e il destino, la sorte degli uomini e dei loro beni. Signora del caso imprevista, sovrumana, la tempesta è figura del tempo minacciato, del tempo come minaccia, che mette a repentaglio l’economia e la vita. L’immaginario collettivo è ossessionato dalla Fortuna e dai fortunali. Mare e fortunale, onde terrificanti e isole che salvano i naufraghi, riempiono le carte della letteratura: la tempesta è immagine dell’esistenza dall’Odissea all’Eneide, da Robinson Crusoe a Moby Dick.

Alla tempesta che stravolge le esistenze, ma che può restituir senso alla «passione del vivere» trasformando «il mare di guai» in un «mare che salva», Shakespeare dedicò, nel 1611, il più alto dramma della sua ultima stagione, la tragedia di un naufragio e di un salvataggio su un’isola piena di vertigini e di mostruosità, di meraviglie e di terrore: un universo in miniatura, un labirinto e un’utopia, come quelle isole reali verso cui «corrono audaci i capitani di Elisabetta», la regina-isola-vergine sovrana di un’isola imprendibile, che una tempesta ha fortunosamente salvato affondando l’Armada Invencible di Filippo II di Spagna che tentava l’invasione (1587).

L’isola shakespeariana è soprattutto «un’isola della mente», «un’esperienza dell’anima». Così Nadia Fusini in Vivere nella tempesta (Einaudi, pp. 205, euro 18,50) legge i tratti di una «commedia dell’esistenza umana» carica di «una dimensione “spirituale”», un testo-conchiglia da portare all’orecchio per riconoscervi la voce di innumerevoli altri testi, frammisti al «suono della vita».

L’isola del mago-artista Prospero è popolata da «spiriti», da cose e avvenimenti new, novel, strange, da wonder, admiration, amazament, ossia «ombre, demoni, emanazioni celesti, creature evocate grazie all’arte della magia». Su di essa «non fanno che ripetersi naufragi e colpi di stato, mentre la lingua è illuminata da lampi che prefigurano nel modo del ritorno storie antiche».

Il vocabolario della tragedia classica rinasce qui sotto il segno del deinós, del «tremendo» che, come ogni autentico inizio di conoscenza, è nel contempo fear and wonder, «terrifico e meraviglioso», fin dal significato nascosto dei nomi dei personaggi: Miranda, mirabilis seduttrice del lettore, edenica Eva con il suo Adamo-Fernand, figlio del re di Napoli, stupefatti dinanzi al masque che Prospero mette in scena nell’isola-paradiso; l’aereo Ariel, «spirito etereo», «volatile e volubile», arioso angelo mercuriale che però Prospero definisce slave, «schiavo»; il «materiale e pesante» Caliban, this thing of darkness, «la cosa di tenebre» che ancora una volta l’onnipotente Prospero «riconosce sua», spaventoso, selvaggio cannibal caribico mosso dal medesimo «spirito speculativo e ironico del saggio sui cannibali» di Michel de Montaigne, che Shakespeare poté conoscere nella versione inglese di John Florio, del 1603.

Tutto è materia che si disfa

«Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita», scandisce Prospero all’inizio del IV atto della Tempesta. La vita è sogno e il teatro è il suo doppio. Presto si scoprirà che, come ogni altra cosa sull’isola, anche il naufragio è uno spettacolo messo in scena, e che Antonio e Sebastiano fanno parte di una compagnia teatrale. Il mondo intero, il globo e il Globe Theatre in cui la rappresentazione della vita va in scena, tutto si disferà like this insubstantial pageant, «come questo spettacolo senza sostanza».

Al pari di Shakespeare il mago-regista Prospero trama scenari teatrali di ampiezza cosmica; vuole dar forma all’informe dell’esistenza che con la forza di un fortunale sommerge le volontà degli uomini. Tipicamente rinascimentale, modellato su Giordano Bruno e John Dee, il suo (come quello shakespeariano) è un «umanesimo magico, ermetico e alchemico». Ma, «per fortuna», come Prospero anche Shakespeare «sembra voler trafficare più con la vita che con la morte», e il dramma si apre alla commedia, nello stesso senso positivo per cui Dante definì Commedia il suo poema «a lieto fine».

La Tempesta è una commedia delle mutazioni, «un inno alla metamorfosi», a sea-change: il fortunale che sommerge la nave conduce a buona fortuna, e il naufragio diviene «un annegamento battesimale». Il primo a convertirsi è Prospero: la sua metanoia libera Ariel dal dolore, e Ariel a lui insegna la compassione. Dal momento che ogni cosa nella Tempesta teatrale e nella tempesta della vita è spettacolo illusorio e cerimonia iniziatica, il salvataggio dal naufragio, l’approdo sull’isola, si trasformano in un’immersione-riemersione di salvezza.

Qui credo si possa cogliere il centro più originale della lettura di Nadia Fusini: se per l’Europa rinascimentale navigare necesse est, nella Tempesta, «in modo ironico o paradossale, sembra che per vivere sia necessario naufragare». La catastrofe si volge in rinascita, e come la vita anche la tempesta si svela essere una prova rigeneratrice: «chi l’attraversa ne esce trasformato. Il mare sommerge, lava e rigenera, trasforma e muta...». E l’illusoria isola di Prospero, microscopico teatro del mondo, incarna «la fantasia di creare fra terra e mare e cielo un mondo altro».

L’immaginazione di Shakespeare fu certo «infiammata» dai resoconti di chi si salvò su un’isola felice nel naufragio della Sea-Venture del 1609, scomparsa, mentre la Tempesta veniva concepita, tra i flutti dell’Oceano Atlantico durante un viaggio verso la Virginia, terra dedicata alla regina-vergine Elisabetta. In profondità però nella lettura di Nadia Fusini, sempre empaticamente in contrappunto creativo con il testo shakespeariano, la Tempesta si rivela una geniale meditazione sulla vita e sulla morte, sull’illusione e sulla pietà per sé e per gli altri, sull’energia che si sprigiona nello sforzo di salvarsi in quella tempesta che è l’esistere: «i mari minacciano, ma salvano»; e «un uomo è un uomo se lotta contro la morte, non tanto per egoismo, quanto per il rispetto della vita stessa».

Dal salvataggio alla salvezza

«Di vivere si tratta nella Tempesta», che è «una specie di Bildungsroman» in forma di teatro: di vivere, di imparare a vivere; «chi attraverso il rimorso e il pentimento e l’autodisciplina saprà mutare la salvezza materiale in redenzione, quello si salverà. Per lui il salvataggio muterà in salvezza spirituale e la liberazione dall’onda in redenzione».Come nella Tempesta di Giorgione, un fulmine squarcia e illumina il dramma di Shakespeare, permettendo al lettore di «incurvarsi verso l’interiorità», di «guardarsi nell’anima»: così Prospero insegna ai suoi nemici. L’incanto terapeutico dell’immaginazione creatrice, la meraviglia dell’arte, ci fanno riemergere dai naufragi della vita, come Ulisse sull’Isola dei Feaci, come Dante che, «uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata»: e così nasciamo a vita nuova, stupefatti nell’ascoltare il nostro respiro che dopo il panico dell’apnea riprende, ritmato, ad alitare e a farsi voce.


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