Le frontiere della tecnoscienza
Se l’uomo si fa Dio
Intelligenza artificiale, bioingegneria, robot sono la nuova frontiera. E tornano a dividere i filosofi tra apocalittici e visionari. Che ne sarà della specie umana?
di Marco Pacini (l’Espresso, 01.04.2018)
Una delle fotografie più nitide di questo primo tratto di strada che abbiamo imboccato verso il “salto antropologico” l’ha scattata il sociologo e filosofo Edgar Morin all’alba del millennio: «L’umanità è ancora in rodaggio e siamo già nelle vicinanze della post-umanità. L’avventura è più che mai ignota». Come spettatori un po’ attoniti, sospesi tra l’ammirazione e l’inquietudine, assistiamo alla grande partita della tecnoscienza, dove la posta in palio è il futuro di una specie, la nostra. Lo chiamano post-human, senza nemmeno un accordo su un significato univoco. Ma la partita è iniziata da tempo e non può attardarsi in sottigliezze semantiche.
Nella squadra A giocano i tecno-umanisti (o transumanisti), evangelisti di una religione che potremmo chiamare datismo: non siamo altro che sistemi di elaborazione dati e in quanto tali possiamo migliorare, cambiare la nostra natura senza porre limiti alle acquisizioni e applicazioni delle due discipline madri, informatica e biologia (intelligenza artificiale e ingegneria genetica).
La squadra B schiera i postumanisti che anche quando salutano con favore la fine del dualismo natura-cultura, mettono in guardia sugli sviluppi “fuori controllo” della tecnoscienza e sul nuovo capitalismo cognitivo e genetico che potrebbe generare scenari distopici. E vorrebbero almeno aspettare l’arbitro, prima di iniziare la partita.
Ma dell’arbitro sembra non esserci bisogno. Perché «tutto funziona, e questo è appunto l’inquietante», come disse allo Spiegel nell’ultima intervista postuma Martin Heidegger, antesignano del pensiero della (o sulla) tecnica.
Quell’intervista diventò un libro intitolato “Solo un dio ci può salvare”. E forse nemmeno di quel dio c’è più la necessità, dato che saremo noi stessi come specie, o una parte di noi, potenziati da dispositivi frutto della santa alleanza tra bioingegneria e informatica, a trasformarci in “Homo deus”, come ha suggerito lo storico del futuro Yuval Noah Harari.
L’intelligenza si sta separando dalla coscienza, avvertono alcuni degli analisti del futuro postumano come Harari; e una volta liberata dalla coscienza l’intelligenza sviluppa una velocità vertiginosa. Quella dei postumani immaginati nei templi dello “human+” come Google e dei suoi sacerdoti come Ray Kurzweil. Gli esseri umani - assicurano - non sono più in grado di gestire gli immensi lussi di dati, sono arrivati al capolinea e ora potrebbero passare il testimone a entità di un tipo del tutto nuovo.
Scenario entusiasmante. O apocalittico, come pensa il filosofo Michel Onfray, che conclude il suo ultimo lavoro, “Decadenza”, con una diagnosi senza speranza: «Un pugno di postumani riuscirà a sopravvivere al prezzo di un’inaudita schiavitù delle masse, cresciute come bestiame (...) Le dittature di questi tempi funesti faranno passare quelle del Novecento per inezie. Google lavora oggi a questo programma transumanista. Il nulla è sempre certo».
Meno catastrofista, ma “in allerta”, Adam Greenfield, che in “Tecnologie radicali” rilette: «Non so cosa significherà essere umani nell’era della post-umanità (...). Capisco perfettamente perché chi crede, per quanto incautamente, che da queste circostanze (la post-umanità frutto del matrimonio tra I.A. e bioingegneria ndr) trarrà il massimo beneficio e un potere inattaccabile voglia arrivarci così in fretta. Quello che non capisco è perché lo vogliano anche gli altri».
Ma forse è inutile preoccuparsi di un futuro postumano alla Onfray, se dovesse realizzarsi la situazione in cui per la parola “umano” non ci sarebbe semplicemente più posto, con o senza prefisso. Lo ipotizza il filosofo Nick Bostrom (fautore del potenziamento umano e studioso dell’Intelligenza artificiale tra i più accreditati) nel suo ultimo saggio “Superintelligenza”: quando l’I.A. supererà quella umana potrebbe sterminare l’umanità intera. Sulla base di queste previsioni, nel gennaio 2015 Bostrom firmò una lettera aperta, sottoscritta da molti altri scienziati, tra cui Stephen Hawking, per mettere in guardia sui potenziali pericoli di uno sviluppo eccessivo dell’I.A.
Nel frattempo, finché con o senza “post” ci saremo, le frontiere continuamente superate dall’intelligenza artificiale e dall’ingegneria genetica (ne parlano negli articoli che seguono Nicoletta Iacobacci e Gianna Milano) pongono con sempre maggiore forza un problema. Anzi, il problema: ci spingeremo in dove si "può", o in dove si "vuole"?
È vero, l’ibridazione è già avviata da tempo. Siamo già in parte nel postumano. «La nostra seconda vita negli universi digitali, il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le tecnologie riproduttive sono gli aspetti ormai familiari di una condizione postumana. Tutto questo ha cancellato le frontiere tra ciò che è umano e ciò che non lo è, rivelando le fondamenta non naturalistiche dell’umanità contemporanea», ha scritto la filosofa del posthuman Rosi Braidotti.
Ma forse una parte di ciò che la migliore fantascienza ci ha fatto intravedere e che si presenta ormai sotto forma di possibilità ulteriore, esponenziale, rappresenta un “salto” più che una continuità di questa condizione postumana. Ed è di fronte a quel salto che il “postumanesimo critico” rivolge interrogazioni sempre più pressanti alla tecnoscienza che “funziona” e procede. Segnalandole l’incrocio tra il si può e il si vuole.
Il soggetto di quel volere dovrebbe essere un noi che si interroga ed è interrogato. Ma che per ora sembra assistere attonito alla partita senza arbitro. Ed è quasi inutile ricordare che l’arbitro assente è la politica, ormai da qualche decennio costretta ad arrancare dietro alla tecnoscienza e all’economia o al loro sodalizio (basti pensare agli algoritmi che ogni giorno sui mercati decidono autonomamente di spostare miliardi in nanosecondi).
Quel noi ha il volto, per esempio, di chi si vede uscire dalla mostra “Human+” (viaggio tecnoartistico sul futuro della specie, in corso a Roma al Palazzo delle esposizioni). E la cui espressione sembra dire: lo voglio o non lo voglio quel “più” per i miei figli e nipoti? Ma soprattutto: potranno deciderlo?
Il nuovo inizio è la vita
colloquio con Rosi Braidotti
di M.P. (l’Espresso, 01.04.2018)
«Quando si parla di postumano non si può parlare solo di ricerche neuronali, intelligenza artificiale, bioingegneria. Non c’è niente di nuovo su questo, solo un’accelerazione. Quello che dobbiamo fare è trovare una convergenza tra i saperi».
Raggiunta al telefono nel suo studio all’Università di Utrecht, dove insegna da anni, la filosofa italiana Rosi Braidotti prova a mettere ordine. A sottrarre il dibattito sul postumano ai singoli saperi, ai tecnologi e tecnocrati, per riconsegnarlo alla filosofia. O meglio al pensiero critico. Ha da poco pubblicato in inglese “The Posthuman Glossary”, scritto con Maria Hlavajova. Ma il suo lavoro principale è “Il Postumano”, uscito anche in Italia nel 2014 per DeriveApprodi.
Professoressa Braidotti, siamo all’ennesimo “post”, ma questa volta sembra decisivo.
«Sì, e chiama in causa insieme lo sviluppo tecnologico e le realtà sociali. Si può pensare all’accelerazione tecnologica come a una rivoluzione, ma anche una tragedia sociale, all’antropocene come alla catastrofe ambientale senza ritorno... C’è un clima di ansia. Ma io resto ottimista, perché può far scattare la convergenza tra i saperi, un pensiero critico ma non nichilista».
Il suo postumano parte dalla fine dell’antropocentrismo e dell’opposizione natura-cultura. Verso quale inizio?
«L’inizio è considerare la struttura vivente in sé vitale e contemporaneamente non naturalistica. Costruire un’etica non antropocentrica che consideri tutti i viventi, sperimentando le possibilità della scienza senza timori».
Non vede nelle istanze postumaniste e tecnoumaniste un prevalere di queste ultime ma nella forma di nuovi spazi di dominio?
«Sul postumano stanno lavorando le grandi compagnie della Silicon valley. Si deve ragionare su come il capitalismo cognitivo si è impossessato delle humanities. Si deve ricostruire un terreno comune per discutere su cosa sta accadendo. Il potenziamento umano è diventato centrale in queste discussioni e ciò che lo rende perverso è che lo presentano come l’ultimo capitolo dell’illuminismo. Io dico il contrario. La grande mutazione non avviene nel vuoto, ci sono le implicazioni sociali. Bisogna negoziare su che cosa siamo capaci di diventare. Riorganizzare i saperi, posizionarsi come cittadini, reinventarsi in un’emergenza epistemologica. Spinoza scrisse l’Etica per questo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura" (e non solo)