di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 11.06.2010)
È adeguato alla serietà delle questioni sollevate dal disegno di legge del Governo sulle intercettazioni telefoniche e sulle limitazioni alla libertà di stampa il dibattito, anzi la rivolta, che ne è seguita. Siamo alle fasi finali della procedura parlamentare ma la procedura parlamentare non chiuderà la partita, anche se l’impostazione della legge è ormai definita. I poteri d’indagine penale risulteranno ridotti e, parallelamente, l’impunità della criminalità sarà allargata; i vincoli procedurali, organizzativi e disciplinari saranno moltiplicati a tal punto che i magistrati inquirenti ai quali venisse ancora in mente, pur nei casi ammessi, di ricorrere a intercettazioni saranno scoraggiati: a non fare non sbaglieranno; a fare correranno rischi a ogni piè sospinto. La libertà degli organi d’informazione d’attingere ai contenuti delle intercettazioni disposte nelle indagini penali sarà ridotta fortemente e la violazione dei divieti sarà sanzionata pesantemente.
Tutto in proposito è stato ormai detto. Nulla potrebbe ancora aggiungersi e nulla potrebbe togliersi.
Al di là delle valutazioni circa le singole disposizioni, è stato anche colto il significato che una legge di questo genere non può non assumere presso l’opinione pubblica avvertita, nel momento attuale della vita pubblica del nostro Paese, mai come ora intaccata dalla corruzione: l’auto-immunizzazione con forza di legge di "giri di potere" oligarchico che intendono governare i propri interessi al riparo dai controlli, siano quelli della legge o siano quelli dell’opinione pubblica.
Tutto è stato detto per ora, ma la partita non si chiuderà di certo in Parlamento, nella dialettica tra la maggioranza e l’opposizione. La prima potrà sconfiggere la seconda con gli strumenti parlamentari di cui può far uso e abuso (la questione di fiducia in materia di diritti fondamentali) e così mettere per iscritto la volontà di chi comanda e fare la legge. Ma al di là della legge c’è pur sempre il diritto, e col diritto la legge deve fare i conti. Forse mai come in questo caso legge e diritto, lex e ius, queste due componenti dell’esperienza giuridica, sono apparsi così nettamente distinti, anzi, contrapposti. Quando ciò accade, la forza della legge è debole perché è avvertita come arbitrio e, prima o poi, anche se con costi e sofferenze, l’equilibrio sarà ristabilito.
Che cosa sia la legge, basta guardarne il testo. Che cosa sia il diritto, è cosa meno semplice ma più profonda. Innanzitutto, la legge dovrà passare alla promulgazione del Presidente della Repubblica, il cui potere di rinvio alle Camere è un’espressione non del capriccio personale ma del diritto. Poi la legge sarà sottoposta all’interpretazione, entro le coordinate dei principi del diritto; poi sarà sottoposta al controllo della Corte costituzionale, nel nome del diritto più profondo, su cui ogni legge deve appoggiarsi; poi sarà forse sottoposta a una valutazione popolare, in nome di quel diritto legale di resistenza che è il referendum abrogativo. Questo, nell’insieme, è il diritto con il quale questa legge dovrà fare i conti e questi sono i suoi strumenti. A ciò oggi si aggiunge il diritto dell’Europa, da cui la validità della legislazione degli Stati che ne fanno parte è condizionata.
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Alla luce di questo quadro complesso, la legge che il Parlamento s’accinge a varare non supera il vaglio del diritto, soprattutto per quanto riguarda quello che a me pare il vizio macroscopico, che macroscopicamente tradisce una mentalità illiberale, o meglio autoritaria, di chi l’ha impostata, presumibilmente senza nemmeno rendersene conto (poiché altrimenti, pronunciando ogni giorno parole di libertà, certamente avrebbe evitato...).
In ogni regime libero, l’informazione è un delicatissimo sistema di diritti e di doveri, in cui l’interesse dei cittadini a essere informati e il connesso diritto-dovere dei giornalisti di fare cronaca, onesta e completa, dei fatti di rilevanza pubblica incontra i soli limiti che derivano dal rispetto dell’onore e della riservatezza delle persone. Sono le persone offese che, ricorrendo al giudice, in un rapporto per così dire, paritario con il giornalista o il giornale, possono chiedere la riparazione del loro diritto violato. Il potere politico, governo o parlamento, non c’entrano per niente. Non possono prendere provvedimenti o stabilire per legge quel che i giornali, gli organi d’informazione in genere, possono o non possono pubblicare. Possono certo stabilire casi di segretezza o di riservatezza, per proteggere l’interesse al buon andamento di funzioni pubbliche (ad esempio, trattative diplomatiche, operazioni dei servizi di sicurezza, svolgimento di indagini giudiziarie, ecc.) e, a questo fine, possono prevedere sanzioni a carico dei funzionari infedeli che violano il segreto e la riservatezza. Ma non possono estendere il divieto e la sanzione agli organi dell’informazione i quali, quale che sia stato il modo, siano venuti in possesso di informazioni rilevanti e le abbiano portate alla conoscenza della pubblica opinione.
In breve: il potere politico può proteggersi, ma non può farlo imbavagliando un potere - il potere dell’informazione - che ha la sua ragion d’essere nel controllo del potere. Potrà sembrare un’anomalia che la lecita auto-tutela della politica non si estenda fino alle estreme conseguenze, non investa la stampa. Ma in ogni regime libero un’anomalia non è, perché l’informazione appartiene a un’altra sfera e non può diventare un’appendice, una funzione servente, un organo della politica e del governo (come avviene nei momenti eccezionali della guerra o del pericolo per la sicurezza nazionale). È la separazione dei poteri (e l’informazione è un potere) a richiederlo e a determinare la possibilità della contraddizione. Sono i regimi autoritari, quelli in cui non vi sono contraddizioni. Ma allora, lì, la stampa vive delle informazioni che il potere politico, caso per caso o per legge non fa differenza, l’autorizza a rendere pubbliche; vive degli ossi che il padrone le butta.
Da dove traiamo questo principio d’autonomia e libertà della stampa? Innanzitutto dalla cultura e dalla civiltà costituzionale, cioè dal quadro di sfondo che dà un senso alla democrazia. Poi dall’art. 21 della Costituzione, che proclama il diritto alla libertà d’informazione senza limiti diversi dal buon costume, vietando per sovrapprezzo, e come rafforzamento, le autorizzazioni e le censure, cioè gli strumenti di asservimento della stampa conosciuti sotto il fascismo.
Oggi poi è la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, da quando, nel 2001, è assurta a livello costituzionale e al medesimo livello si collocano le interpretazioni che ne dà la Corte di Strasburgo, altra base sicura del diritto alla libertà della stampa. L’art. 10 § 2 della Convenzione ammette bensì "formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", ma solo quando siano "misure necessarie in una società democratica" per tutelare certe esigenze di sicurezza, ordine pubblico, ecc., che nel caso della legge italiana certamente non ricorrono in generale.
La Corte europea ha precisato che le limitazioni possono derivare solo da "bisogni sociali imperativi" (non esigenze di funzionamento di pubblici poteri), che le misure prese "non devono essere di natura tale da dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione di problemi di legittimo interesse generale" e, nel celebre caso Dupuis contro Francia (7 giugno 2007), riguardante la pubblicazione di notizie coperte dal segreto processuale, che quando c’è di mezzo il diritto all’informazione, "il potere di apprezzamento degli Stati si arresta di fronte all’interesse delle società democratiche ad assicurare e mantenere la libertà di stampa". Si trattava, per l’appunto, di giornalisti che si erano documentati attraverso fughe di notizie o documenti e conversazioni confidenziali: tutte cose che le società libere non demonizzano affatto (pur cercando di impedirle da parte dei funzionari pubblici), quando vengono nelle mani di giornalisti.
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Il disegno di legge che sta per essere trasformato in legge non tiene conto di tutto questo, anzi lo contraddice. A carico dei giornalisti e degli editori sono stabiliti divieti tassativi di pubblicazione. Sanzioni penali, disciplinari e amministrative li collocano in una ragnatela di condizionamenti, esterni e interni alle imprese giornalistiche, certamente incompatibile con la libertà della stampa di fare il proprio dovere "in una società democratica". Questi condizionamenti, altrettanto certamente, sono tali (si pensi a che cosa rappresenta per le piccole imprese giornalistiche la sanzione in denaro che può raggiungere diverse centinaia di migliaia di euro) da "dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione dei problemi di interesse generale" come, tanto per fare un esempio di fantasia, la pubblica corruzione. Ci sono tutte, e sono evidenti, le ragioni per le quali questa legge finirà col cozzare contro quel diritto.