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MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA: CONTIAMO E PENSIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN

CONTARE E PENSARE: MARE, "NUMERO E LOGOS". Un’intervista a Paolo Zellini di Antonio Gnoli - a cura di Federico La Sala

Mito e logos si incontrano nel quarto libro dell’Odissea (...) Faccio notare che siamo già alle soglie del problema filosofico di come l’unità si mantiene nel molteplice. E di questo senso originario è permeata la filosofia pitagorica (...)
venerdì 8 ottobre 2010 di Federico La Sala
[...] «Il mare, nella tradizione greca come pure in quella ebraica, era metafora del disordine, ma anche della sofferenza e della prova. Navigare sui flutti - affermava Porfirio - era un modo per "placare il demone della nascita", allo scopo di raggiungere un approdo finale nella terra promessa. Ma appena fuori dei flutti si incontra il numero. Nell’Odissea Proteo, dio del mare tanto ambiguo quanto veridico, appena fuori dall’acqua passa in rassegna il suo gregge di foche contandole cinque (...)

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> CONTARE E PENSARE: MARE, "NUMERO E LOGOS". --- Perché saper fare i puzzle aiuta a risolvere i problemi (di Paolo Zellini).

giovedì 19 gennaio 2012


Perché saper fare i puzzle aiuta a risolvere i problemi

-  Tutto ruota intorno ai concetti di numero, algoritmo, complessità E ciascuna teoria dà una prospettiva diversa
-  Le matrici, il punto fisso, la questione del commesso viaggiatore: ogni dimostrazione aggiunge altri quesiti
-  Cosa studiano oggi gli esperti della disciplina più pura? Ecco come ogni nuova scoperta s’intreccia alle altre in un gioco di tessere

di Paolo Zellini (la Repubblica, 19.01.2012)

Nella ricerca, osservava il celebre matematico André Weil, nulla è più fecondo delle oscure analogie e dei torbidi riflessi che rimandano da una teoria all’altra. Nebbie inesplicabili e seducenti circondano spesso le idee e i confini ancora incerti tra diverse aree di indagine; e nulla dà più piacere al ricercatore di questa eccitante imprevedibilità. Arriva poi il giorno in cui il vagheggiamento si dissolve e diventa certezza. Le teorie rivelano la loro fonte comune e, come insegna pure la dottrina indiana della Bhagavad Gita, si conquista la conoscenza assieme all’indifferenza. «La metafisica», concludeva Weil, «è divenuta matematica, pronta a formare la materia di un trattato la cui fredda bellezza non saprebbe più emozionarci».

Tuttavia questa indifferenza è sempre un momento intermedio, un passaggio obbligato per scorgere altri collegamenti, altre possibili combinazioni. La ricerca matematica ha il carattere di un’estesa, imprevedibile e proteiforme moltiplicazione, di un incessante spostamento di confini e di una ricombinazione dei dati. Non è tanto importante, allora, accumulare successi nel risolvere singoli problemi, quanto svelarne il significato in un quadro sempre più ampio e generale, che si delinea a poco a poco nel riconoscere temi affini o confinanti. È come tentare di comporre un gigantesco e inesauribile puzzle, in cui molte singole tessere, pur provviste di senso proprio, ricevono ogni volta un significato più ampio e profondo dal paragone reciproco: un compito senza fine, che richiede un continuo riassestamento dei pezzi. E alla fine non possono non restare enigmi irrisolti, perché le formule viaggiano attorno a concetti centrali ed elusivi come quelli di caso, di informazione, di numero, di complessità, di algoritmo. Il puzzle ne svela nuovi aspetti, ma essi rimangono sempre suscettibili di qualche revisione critica.

I matematici hanno spesso constatato che le loro formule hanno una forza o un’intenzione autonoma e obbediscono a un principio di unità interna che le lega in sistemi organici sempre meglio connessi e articolati. Gli stessi algoritmi portano in sé implicazioni imprevedibili e un potere ermetico che li costringe a specchiarsi l’uno nell’altro. Anche per questa via si creano nuovi concetti: i numeri complessi si introdussero quasi da sé, nel XVI secolo, combinando l’algebra delle equazioni di terzo grado con le costruzioni della geometria euclidea.

Per quanto peculiari e diversi, molti problemi matematici si rivelano equivalenti e quindi sorprendentemente inclini - si direbbe - ad accorparsi in classi. Questa loro equivalenza, per lo più nascosta a un primo sguardo, è essenziale: risolvendo uno di essi si risolvono automaticamente tutti gli altri. L’ibrido territorio tra la matematica applicata e l’informatica, tra la logica e la teoria della computazione, ne offre svariati esempi. La frontiera della ricerca si sposta su diversi livelli di generalità. Spesso vengono prima questioni specifiche, di immediato interesse pratico. Ma queste suscitano poi questioni molto più generali, palesando una struttura che si ritrova, astrattamente, in altri contesti e merita di essere esaminata in sé e per sé. Chi sospetterebbe l’affinità di un celebre problema come quello del "commesso viaggiatore" - consistente nel trovare il percorso minimo che collega un dato numero di città - con una serie di altri problemi di natura algebrica e combinatoria da cui dipendono importanti settori del calcolo scientifico? Questa affinità permette di definire una intera classe di problemi equivalenti (chiamati NP-completi): se un algoritmo ne risolvesse uno in un tempo accettabile, lo stesso tempo basterebbe a risolvere ogni altro problema della classe. Ma nessuno sa ancora se un simile algoritmo può esistere.

A uno di questi problemi già accennava Kurt Gödel in una lettera a John von Neumann del 1956. Non è un caso. Negli anni ’30 Gödel, e altri con lui, dimostrarono che l’aritmetica, diversamente da quanto molti supponevano, non si può configurare come una specie di discorso logico rigoroso, un sistema formale con assiomi e regole di inferenza. Anche per questo motivo, invece di pretendere che tutto fosse dimostrabile, si cominciò a prestare maggiore attenzione alla complessità dei calcoli e delle dimostrazioni. Infatti il problema che Gödel poneva a von Neumann era il seguente: quanto è difficile decidere se una proposizione in un dato sistema formale ammette una dimostrazione di data lunghezza in base agli assiomi del sistema?

Sappiamo ormai che non è possibile decidere, per ogni proposizione, se è vera o falsa. Ma ammesso che sia vera, quanto è difficile dimostrarlo? La complessità dei calcoli, ancorché finiti, è una delle grandi sfide della matematica moderna, il passaggio inevitabile per tentare di rispondere in modo esauriente a una questione tanto centrale quanto elusiva della scienza dell’ultimo secolo: che cosa può essere automatizzato? In che cosa consiste precisamente l’effettività che siamo soliti attribuire ai processi automatici?

Gli stessi teoremi di Gödel sui limiti del formalismo logico, con le loro implicazioni generali sulla natura della matematica e della stessa ragione astratta, sono ora diventati il tassello di un quadro più generale, di una più ampia scienza computazionale in cui singoli stratagemmi possono incidere sui concetti generali di algoritmo e di modello di calcolo.

Vecchie teorie rivelano imprevedibili significati e pongono nuove domande in diversi contesti. La teoria delle matrici positive del matematico tedesco Oskar Perron, del primo decennio del Novecento, si applica a domini della fisica, della biologia e dell’economia che poco hanno a che fare con i motivi per i quali fu scoperta. Oggi ha importanti implicazioni nei calcoli su cui si basano i motori di ricerca su rete. Ma quei calcoli coinvolgono matrici di enormi dimensioni, e molti quesiti sulla loro complessità sono ancora irrisolti. Lo stesso Perron non avrebbe previsto le implicazioni della sua teoria per una scienza informatica che gli ispirava, ancora negli anni ’70, una caustica diffidenza.

Questa teoria ha pure importanti collegamenti con il celebre teorema del punto fisso: se si trasforma con continuità una sfera (o un suo equivalente topologico) in se stessa, almeno un punto mantiene la sua posizione d’origine. Accade lo stesso nell’esperienza di ogni giorno: se provochiamo un leggero mulinello in una tazzina di caffè e la depositiamo sul tavolo, quando il movimento sarà cessato almeno un punto nel caffè sarà tornato alla sua posizione iniziale. Luitzen Egbertus Brouwer, che scoprì questo teorema un secolo fa, non poteva certo immaginarne le innumerevoli applicazioni.

Ma forse Brouwer le paventava, queste applicazioni, e temeva che la matematica, irrigidita in un sistema dalla bellezza fredda, necessaria e imparziale, potesse infine intrappolarci in un mondo tanto oggettivo quanto tirannico - «ogni necessità rende schiavi» si legge pure nell’Oreste di Euripide. Eppure l’incessante scoperta dei nessi e degli intrecci imprevedibili, in cui consiste la dinamica della scoperta, ha poi il potere di legare la ferrea e oggettiva necessità delle formule alla spontaneità dell’invenzione, e di farci capire come noi stessi, in fondo, desideriamo sottomettere il nostro arbitrio a quella necessità.


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