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RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") DEL GOVERNO DI ZAPATERO ...

CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO: RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE - E ANDARE OLTRE. IL MESSAGGIO DELLA "CAPPELLA SISTINA" CARMELITANA (1613) RITROVATO A CONTURSI TERME (SALERNO). Documenti e materiali sul tema - a c. di Federico La Sala

DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Note sul "Poema" rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989). La prefazione di Fulvio Papi e parte della premessa del lavoro di Federico La Sala
martedì 5 novembre 2013 di Federico La Sala
In fondo, in pdf, un pieghevole sulla Chiesa del Carmine di Contursi Terme (Salerno).

CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
[...] Nel 1608, in piena bufera controriformistica, pochi anni prima che in tutta Europa divampassero le guerre di religione e che il filologo Isaac Casaubon (De rebus sacris et eccleslasticis exercitatíones
XVI. Ad Cardinalis Baronii (...)

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> CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE" --- IL «SISTEMA IMPERIALE SPAGNOLO»: "FILIPPO IV" (A. MUSI). IL SOVRANO E LE "CARTAS DE SOR MARIA DE AGREDA" (di Paolo Mieli).

domenica 18 aprile 2021

IL SISTEMA IMPERIALE SPAGNOLO E L’ATTENZIONE DI AURELIO MUSI SU "TRE RITRATTI DI FILIPPO IV" ... *


Il sovrano e la monaca. Il malinconico re di spagna Filippo IV fu sorretto da suor Maria de Agreda

Un saggio di Aurelio Musi ricostruisce la vita di un personaggio roso dai sensi di colpa, giunto sul trono mentre il suo impero si avviava al declino. Negli ultimi anni con l’aiuto di una religiosa dimostrò notevoli doti di statista

di Paolo Mieli ( «Corriere della Sera», 30 marzo 2021)*

Filippo IV di Spagna, detto anche Filippo il Grande o il Re Pianeta, regnò tra il 1621 (quando aveva sedici anni) e il 1665. Una durata lunga, per di più in un’Europa sconvolta da un conflitto che ha lasciato un segno nella storia: la guerra dei Trent’anni (1618-1648). La stagione di suo padre, Filippo III (che regnò dal 1598 al 1621) era stata caratterizzata da una profonda crisi economica che, dopo l’epidemia di peste del 1600, aveva investito soprattutto la Castiglia. Crisi con radici lontane, quantomeno dalla bancarotta del 1596 che aveva fatto vacillare il trono di suo nonno, Filippo II (1559- 1598). Quel Filippo II già provato dalla catastrofica sconfitta dell’Invincibile Armata ad opera dell’Inghilterra (1588). Intendiamoci, la Spagna, a cavallo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, era ancora la più grande potenza europea. Un’Europa che nel 1571 aveva sconfitto i turchi a Lepanto, in un’epoca nella quale la Spagna aveva sì perso i Paesi Bassi con la proclamazione delle Sette Province Unite, ma aveva incorporato l’impero portoghese. Quella che si intravede nel libro di Aurelio Musi Filippo IV. La malinconia dell’impero (Salerno) è una Spagna che vive la fine del Siglo de Oro con una crisi di identità e si avvia a cedere alla Francia di Luigi XIV lo scettro del primato continentale.

Musi nota che il 1621 è ad un tempo l’anno dell’ascesa al trono di Filippo IV e della pubblicazione dell’opera L’anatomia della malinconia (Bompiani) dell’autore inglese Robert Burton. Un accostamento che, scrive Musi, «non deve apparire improprio». La crisi d’identità della Spagna, di cui si è detto, si poteva già individuare - come scrivono Carlos Alvar, José Carlos Mainer e Rosa Navarro nella Storia della letteratura spagnola (Einaudi) - nel capolavoro di Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia (Bompiani) dato alle stampe in dieci anni tra il 1605 e il 1615. Don Chisciotte, ha scritto John H. Elliott in Il miraggio dell’impero. Olivares e la Spagna dall’apogeo al declino (Salerno), è un libro nel quale «oltre tante parabole, c’era anche quella di un Paese lanciatosi in fiera battaglia solo per accorgersi poi di essere andato a sbattere con la testa contro dei mulini a vento». Sicché tutto era finito nel disinganno, dal momento che «l’illusione non poteva resistere troppo a lungo all’urto della realtà». La malinconia era stata l’effetto di questo disinganno.

Scrisse Robert Burton all’inizio del Seicento che, se c’è un inferno sulla Terra, esso risiede nel cuore di un uomo malinconico. Poi però anche i regni, sottolinea Musi, «possono essere un inferno perché, come corpi politici, sono soggetti alla malinconia». In che senso? Il «corpo infermo dello Stato si manifesta con turbamenti che hanno la loro causa primaria nell’assenza di buon governo». A questo punto «tutto è desolazione abbandono, inciviltà, paradiso trasformato in deserto». La malinconia non è «solo malattia dell’individuo, angoscia esistenziale della sua anima [...] essa è anche la malattia di una collettività, o di una forma di governo, quella monarchica che per Burton resta il modello di Stato migliore». Nella condizione umana di Filippo IV «si può leggere il disordine umorale che turbò il corpo sociale dell’Impero asburgico e l’affezione saturnina dell’epoca barocca».

Qualcosa che si può capire meglio da una rilettura di La vita è sogno (Adelphi) il dramma filosofico-teologico scritto nel 1635 dal drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de La Barca. «La vita è sogno», scrive Musi, «riunisce in un’espressione contratta i molteplici fili della sensibilità barocca» che, nell’età di Filippo IV, giunge alla sua massima maturazione. Nel libro di Calderón de la Barca troviamo il «labile confine tra veglia e sonno»; la «complementarità tra vita e sogno; tra «luce e ombra»; lo «spostamento della realtà nell’immateriale»; la «sospensione contemplativa»; il tempo della produzione simbolica che, per citare Fernando R. de la Flor, «si dà come oggetto un oltre di sé stessa cercando, nella sua strategia in essenza malinconica, di salvare le cose nei linguaggi formali dei caratteri allegorici». L’ingresso dei significanti in un «regime di delirio».

Per spiegare meglio questi concetti Musi fissa l’attenzione su tre ritratti di Filippo IV. Nel primo - del 1626 (attualmente esposto al Museo del Prado) - «se lo sguardo si sposta dalla sporgenza della mandibola rispetto alla mascella verso gli occhi, l’espressione di intensa malinconia non può sfuggire». Nel secondo - dei primi anni Trenta del Seicento (oggi alla National Gallery) - Filippo ha i baffi, abiti di insolito splendore, con vello e catena d’oro e vuole essere rappresentato «nella sua piena maturità». Nel terzo, una figura equestre (al Museo del Prado), «ritorna la grazia malinconica dello sguardo e la stessa espressione è colta da Velázquez nei ritratti dei figli del sovrano».
-  Ritratti, scrive Musi, che più di tutti gli altri ci rimandano ad un «monarca malinconico»; «l’interprete della malinconia di un impero che, nel giro di qualche decennio, oscillò tra apogeo e declino, tra luce e ombra, fra il delirio imperialistico e lo svanire della speranza di continuare ad essere il centro del mondo». Se ne può dedurre che lo «sprofondamento malinconico» del re sia stato quello dell’impero spagnolo.

Da dove si può immaginare che abbia avuto origine la malinconia del sovrano? C’è innanzitutto un dato di carattere biografico. La prima fase della vita di Filippo IV è segnata dalla perdita della madre, Margherita d’Austria, all’inizio del 1608, quando il futuro re aveva tre anni. La morte della moglie di Filippo III, sostiene Musi, condizionerà profondamente l’intera vita del figlio: «la depressione, l’ossessione della morte, provate fin da piccolo» lo accompagneranno per tutta l’esistenza. A ciò si accompagna la fragilità fisica, ereditata - secondo Voltaire - dal padre, che gli provocherà, a sette anni, una grave malattia. In seguito riceverà un’educazione «spiccatamente repressiva», nel segno dell’austera ortodossia della morale cattolica. Un’educazione che gli verrà impartita proprio nel momento in cui, nel fiore della pubertà, proverà «una sfrenata sensualità, stimoli e pulsioni sessuali assai spinte anche se necessariamente dissimulate».

Suo padre morì, quarantatreenne, dopo la drammatica cacciata dei moriscos cioè i musulmani più o meno sinceramente convertiti al cristianesimo ai tempi della Reconquista. La morte di Filippo III avviene nel pieno della crisi economica di cui si è detto, mentre è appena iniziata la guerra dei Trent’anni. Filippo IV sedicenne può contare sul conte-duca di Olivares (che abbiamo incontrato nel titolo del libro di Elliot). Questi sarà suo primo ministro dal 1621 al 1643, una lunga fase della vita (ventidue anni), nella quale, assecondato da Olivares, Filippo «supera i limiti imposti dalla repressione infantile e della prima adolescenza» e si dà alla seduzione di «donne di ogni ceto sociale, dame di Corte, attrici, cantanti, prostitute anche di basso livello».
-  All’inizio degli anni Quaranta alcune sconfitte militari, l’intervento francese in Catalogna, la crisi portoghese fanno vacillare la monarchia asburgica. Olivares viene messo alla porta, ma il «malessere» del Paese non si placa. Le rivolte del 1647-48 a Napoli e in Sicilia, i costi della lunga guerra con l’Olanda provocano una nuova crisi economica.
-  Filippo, ora senza Olivares, dà prova di una grandissima (fino a quel momento insospettabile) capacità di governo. Ma è ancora tormentato per la «dolorosa contraddizione fra le sue profonde convinzioni religiose e la coscienza di essere schiavo dei peccati della carne». E dall’ossessione della morte. Ossessione che si fa più intensa allorché al decesso della madre e del padre si aggiungono la drammatica scomparsa dei fratelli, della prima moglie (Isabella di Borbone), di dieci dei suoi tredici figli, tra i quali Baltasar Carlos, quello a lui più caro.
-  A questo punto è impossibile capire il «mistero» di Filippo IV senza dedicare attenzione al suo rapporto con suor Maria di Gesù. Suor Maria fu badessa del monastero di Agreda dal 1627 e Filippo la incontrò facendole visita nel 1643, l’anno dell’uscita di scena di Olivares. Filippo ne fu «folgorato», scrive Musi, «tanto da chiederle di iniziare una corrispondenza». Una corrispondenza non occasionale: 614 lettere (314 della badessa, 30o del sovrano) per uno scambio che durò oltre vent’anni dal 1643 al 1665.

Quando Filippo la incontrò, Maria era già famosa per ben cinquecento episodi di bilocazione nel corso dei quali, pur essendo rimasta nel suo monastero, avrebbe «visitato» numerose tribù del Nuovo Messico, del Texas, dell’Arizona, della California. Tribù che, quando furono raggiunte dai missionari, erano già state catechizzate da una misteriosa signora vestita d’azzurro (la dama azul) che «compariva e scompariva senza rivelare la sua identità e provenienza». Poi fu l’arcivescovo di Città del Messico a raccontare di una giovane monaca di Castiglia che, pur non essendosi mai mossa dal suo convento, in alcune sue lettere descriveva l’America come se le fosse familiare. E furono i missionari di cui si è detto ad associare il nome della dama azul a Maria de Agreda. La quale, interrogata dal padre superiore della provincia del Nuovo Messico che le fece visita nel 1631, fu in grado di rivelargli i nomi di tutti i missionari e fece riferimenti molto circostanziati alle tribù catechizzate.

Le esperienze della Agreda, scrive Musi, si inquadrano nel profetismo francescano spagnolo che predicava una conquista pacifica dei territori extraeuropei e l’espansione missionaria affidata alla «potente mano della Madonna». Le apparizioni miracolose della dama azul si comprendono meglio se inquadrate nel contesto «dell’evangelizzazione prima francescana poi gesuita che ebbero un’impronta fortemente mariana». Il personaggio di Maria de Agreda è sicuramente, secondo Musi, uno tra i più affascinanti tra quelli che affollarono la scena delle «sante vive», cioè quelle donne che andavano continuamente «soggette a fenomeni estatici e visionari durante l’età barocca».

Alla fine dell’Ottocento Antonio Silvela pubblicò e curò le Cartas de sor María de Agreda e Joaquin Sánchez de Toca dedicò a queste carte uno studio critico destinato a divenire fondamentale per comprendere appieno la personalità di Filippo. Da quell’ampio carteggio Sánchez de Toca, riassume Musi, traeva la convinzione che «la debolezza fosse il tratto determinante e il difetto principale del carattere di Filippo IV».
-  E in quest’ottica, sempre secondo Sánchez de Toca, andava interpretata la corrispondenza con suor Maria che, rispetto alla fragilità del suo interlocutore, rivelava «una forza straordinaria» e si accreditava come «la più affascinante figura» tra le donne che ebbero accesso al favore del sovrano. Suor Maria «riuniva in misura eccellente tutte le qualità necessarie al consigliere di un principe» ed era «la testimone della dipendenza emotiva del re dall’autorevolezza della sua guida, spirituale e non solo».

Ma il sostegno spirituale della dama azul non fu sufficiente. Gli storici sono concordi nel datare l’inizio del definitivo declino dell’impero molto più tardi ai tempi della guerra di Successione spagnola ai primi del Settecento. Ma, giustamente, Musi ne individua alcuni segni evidenti già nell’ultima fase del regno di Filippo IV dall’estromissione del conte-duca a quando l’«imperatore malinconico» morirà all’età di sessant’anni. La capacità di governo di cui diede prova in questa ultima parte della vita è fuori discussione. Anzi, è quasi sorprendente se si tiene conto del lungo periodo in cui, su spinta di Olivares, si era dato ai bagordi. Ma a dispetto del suo talento, le paci di metà secolo, di Vestfalia (1648), Pirenei (1659) e Oliva (166o) «ridimensionano fortemente il peso mondiale del re cattolico». E il sistema imperiale spagnolo, nei primi decenni della seconda metà del Seicento, appare sempre più limitato «dal complesso e multipolare sistema di Stati europeo». Con la Spagna di Filippo IV si eclissava un mondo e ne veniva alla luce uno del tutto nuovo.

* FONTE: NUOVA RIVISTA STORICA.


SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

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