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VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura (pdf, scaricabile) - di Federico La Sala

(...) al di là della contrapposizione della storia sacra e profana, rivelata e ragionata, e al di là dello “stato di minorità” - senza cadute in uno stato di super-io-rità!
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C’era un lord in Lucania.... *
Se pochi filosofi e letterati sanno dell’omaggio di Ugo Foscolo al filosofo delle “nozze e tribunali ed are” (“Dei sepolcri”, v. 91), moltissimi “addottrinati” ignorano ancora e del tutto che Vico per circa nove anni decisivi per la sua vita ha abitato a Vatolla, nell’antica Lucania (in particolare, nell’attuale Cilento, a poca distanza dall’antica Elea-Velia, Ascea, Paestum, Palinuro, Agropoli) e, al contempo, che James (...)

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> VICO, PENSATORE EUROPEO. -- "L’uomo delle origini e la tarda cultura" (Arnold Gehlen) . L’ordine collettivo nasce dalla pulsioni (di Luca Corti)

domenica 26 giugno 2016


L’ordine collettivo nasce dalla pulsioni

Antropologia filosofica. Mentre ci introduce alle istituzioni primitive, dal matrimonio all’arte, dall’ordinamento statale all’amicizia, Arnold Gehlen spiega la genesi stessa della natura umana: "L’uomo delle origini e la tarda cultura"

di Luca Corti (il manifesto, Alias, 26.06.2016)

Charles Taylor, il grande filosofo canadese, diceva che l’uomo è l’animale che interpreta se stesso. Eppure la domanda sull’uomo non ha riscosso un interesse costante nel tempo. L’antropologia, specialmente in alcune sue forme, passa non di rado per essere una «disciplina di crisi». Come quei personaggi dei romanzi che entrano in scena nelle situazioni di stallo, anch’essa sembra farsi avanti con più forza in quei momenti storici in cui alcune visioni del mondo tradizionali vacillano, alcune costellazioni istituzionali e campi di certezze crollano, portando l’uomo a sentirsi un problema del quale egli stesso deve fornire una spiegazione. E questo non vale solo per gli esordi della antropologia, quando sotto i colpi della rivoluzione scientifica e delle nuove scoperte geografiche, la fiducia in una natura umana uguale per tutti venne minata alle fondamenta, ma anche per epoche più recenti, quando - per esempio - cominciò a prendere piede la tradizione della antropologia filosofica.

Negli anni venti del Novecento, in Germania, lo sviluppo delle scienze cambiò profondamente la visione dell’uomo: una biologia e una psicologia rampanti (si pensi all’influenza di Darwin e all’impatto di Freud, ma non solo), assieme alla nascente etologia (l’esempio di Lorenz valga su tutti), tentarono di mettere a nudo il lato naturale dell’essere umano. L’epoca, d’altro canto, era percorsa dalle tensioni scaturite dall’esperienza della prima guerra mondiale, che offrivano pane ai denti di una giovane sociologia.

La questione dell’uomo tornò così a esercitare una certa urgenza, e il bisogno di dare una risposta globale, unitaria e comprensiva alla domanda sull’essere umano si fece sentire più forte. «Siamo la prima epoca in cui l’uomo è divenuto completamente e interamente ‘problematico’ per se stesso - scrive Max Scheler - egli non sa più che cosa è, ma al contempo sa anche di non saperlo».

Insieme a Scheler e a Helmuth Plessner, il più giovane Arnold Gehlen entrò nel triumvirato che avrebbe posto le basi della antropologia filosofica. Una buona occasione per tornare su alcune delle questioni più importanti sollevate da questa disciplina ci viene ora dalla ristampa presso Mimesis, dopo ventisei anni dall’edizione del Saggiatore, di un libro del 1956 L’uomo delle origini e la tarda cultura (a cura di Vallori Rasini, traduzione di Elisa Tetamo, pp. 326, euro 25,00), in cui Gehlen riprende e sviluppa le tesi del suo saggio più celebre, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, scritto nel 1940.

Come ricorda Vallori Rasini nella sua introduzione, Gehlen aderì al partito nazionalsocialista, con conseguenze innegabilmente positive anche per la sua carriera. Sebbene non abbia costituito un «caso» analogo a quello di Heidegger, e malgrado abbia preso parzialmente le distanze dal nazismo, nella sua opera resta tuttavia evidente una componente conservatrice, che al tempo stesso non va misconosciuta né deve squalificare le sue idee, di grande importanza, delle quali va saggiata, innanzi tutto, la tenuta teoretica.

I capisaldi del progetto di Gehlen appaiono al lettore fin dalle prime pagine, a cominciare dal tentativo di mettere in piedi una filosofia basata sui risultati delle scienze dell’epoca: l’antropologia, la biologia umana e in particolate l’etologia, ma anche la archeologia e la sociologia entrano negli interessi del filosofo, che nutre su di esse competenze da esperto. Allo stesso tempo, Gehlen ne utilizza i risultati per andare alla ricerca di quelle che chiama le «categorie» fondamentali o le «qualità essenziali» dell’uomo. Il modo in cui combina l’anima empirista delle sue analisi con l’indagine sulla natura umana è tanto interessante quanto oggetto di controversie.

In primo luogo, Gehlen non condivide le idee di Darwin, o almeno non del tutto: fa leva su alcune critiche al darwinismo presenti nella biologia a lui contemporanea, critiche provenienti da scienziati cari all’antropologia filosofica come Adolf Portmann e Jacob von Uexküll - ai quali peraltro anche filosofi come Heidegger e Deleuze si rifanno di frequente.

Gehlen ne utilizza le teorie per attaccare la derivazione diretta dell’essere umano dalla scimmia. L’uomo - sostiene - non è una scimmia particolarmente evoluta, bensì discende da un ramo indipendente dell’evoluzione, che lo rende unico già dal punto di vista biologico, prima ancora che metafisico o teologico.

Ma in cosa consiste questa specificità biologica? È qui che Gehlen ci fornisce l’immagine dell’uomo che lo ha reso celebre: l’uomo - scrive facendo eco al filosofo settecentesco Johann G. Herder - è un essere per natura determinato da una serie di «carenze», l’unico privo di strumenti «naturali» che lo mettano in grado di assicurarsi la sopravvivenza. È privo di rivestimento pilifero, ad esempio, che lo protegga dalle intemperie, ma anche di organi difensivi naturali, così come di una struttura morfologica che gli permetta la fuga. Inoltre «difetta di istinti autentici», grazie ai quali tutti gli altri animali selezionano i segnali biologicamente vantaggiosi nell’ambiente e da questi si fanno guidare in maniera quasi «automatica».

L’uomo invece non ha neppure una nicchia ambientale, un habitat a lui specifico. Da qui il modo peculiare in cui il bipede implume si aggira, disorientato, nel mondo: le sue percezioni non sono selettive, ma rispondono a un caotico profluvio di stimoli; le sue azioni sono indeterminate, perché altrettanto disorganizzate e plastiche sono le sue pulsioni.

Nella Genealogia della morale, Friedrich Nietzsche aveva detto che «l’uomo è l’animale non ancora stabilmente determinato», coniando un’immagine che Gehlen fa sua in maniera originale. L’uomo, che è animale manchevole, deve determinarsi: in altre parole, deve farsi uomo, prendendo posizione rispetto al mondo, a se stesso e agli altri.

Ora, se non dalla natura, da dove proviene l’ordine che è tuttavia presente nell’agire umano? La risposta di Gehlen è chiara e costituisce il motivo centrale del suo testo: la fonte va cercata nel costituirsi di quelle che egli chiama le istituzioni, vere protagoniste della riflessione condotta nel 1956.

Dal matrimonio alla rappresentazione artistica, dall’ordinamento statale all’amicizia, la maggior parte delle forme umane di comportamento ordinato (se non tutte) sono per Gehlen fissate in istituzioni, ovvero in modi di agire e di organizzare il proprio comportamento collettivo: modi stabili e controllati. Le istituzioni regolano, incanalano, imbrigliano e ordinano le pulsioni, che di per sé sarebbero magmatiche (non è difficile rintracciare qui l’influsso di una certa psicologia del profondo).

Ma sarebbe sbagliato considerare le istituzioni solo come briglie tramite le quali l’uomo tiene a freno le sue pulsioni. Gehlen lo scrive chiaramente: le istituzioni nascono sì da plessi istintuali (fame, sete, istinto di riproduzione e conservazione), ma allo stesso tempo li plasmano e li orientano in vari modi, rivestendoli di nuovi significati, talvolta fino a renderli del tutto irriconoscibili.

Parafrasando Kant - di cui Gehlen ricoprì per qualche anno la cattedra all’Università di Königsberg - potremmo dire che le pulsioni senza le istituzioni sono cieche, le istituzioni senza le pulsioni sono vuote.

«Quali sono le vie attraverso le quali l’uomo arcaico compie esperienza di sé e intrepreta se stesso?». Gehlen formula esplicitamente questa domanda verso la metà del suo libro, mentre guida il lettore attraverso un percorso in varie tappe, dove si assiste al costituirsi delle prime forme istituzionali. Dicendoci che noi siamo animali profondamente istituzionali, e introducendoci al percorso di formazione delle istituzioni primitive, Gehlen intende spiegare la genesi stessa della natura umana. E va incontro, così, all’interrogativo che Charles Taylor riteneva costitutivo per l’essere umano.

Muovendosi su un territorio di confine, in equilibrio tra scienza e filosofia, la professione di «filosofia empirica» di Gehlen costituisce un’arma a doppio taglio. Da una parte il costante richiamo alle teorie scientifiche vuol essere un punto di forza nella sua argomentazione; dall’altra, egli stesso riconosce che qualsiasi teoria scientifica fornisce risultati provvisori e rivedibili; e infatti oggi, anche alcune delle sue tesi rischiano di apparire meno convincenti.

La biologia teoretica di von Uexküll, ad esempio, così influente su molti filosofi e importante per storia della antropologia filosofica, può essere affiancata da teorie concorrenti e più classiche sull’evoluzione, in cui la distanza tra capacità animali e capacità umane risulta assai ridotta, mentre l’idea di una origine filogenetica arcaica e peculiare dall’uomo, da cui deriverebbero le sue «manchevolezze» (idea che Gehlen deriva dal biologo olandese Luois Bolk), se non falsa, risulta oggi quantomeno controversa e minoritaria.

Stephen Gould, celebre biologo di Harvard e famoso divulgatore, la definì ad esempio «datata e un po’ pazza, ma ragionevole all’epoca e supportata in maniera cogente». Dal portamento eretto, alla «nudità», fino alle dimensioni del cervello, le caratteristiche umane sembrano oggi assai più specifiche e funzionali di quanto Gehlen pensasse, e risultano anch’esse da concepire come il frutto di un graduale processo di adattamento.

Ma l’altra grande anima dell’impresa di Gehlen, ovvero la sua ricerca di quali siano le «qualità essenziali» dell’essere umano, sembra potersi separare da questa tendenza scientifico-naturalista: è qui che risiede il potenziale maggiore del suo pensiero per le ricerche odierne.

L’immagine che Gehlen ci fornisce della costituzione dell’umano, la sua prospettiva sull’istituzione e sui motivi che animano le dinamiche della vita associata - motivi che non appartengono né possono appartenere al discorso scientifico-naturale - sono ancora oggi assai interessanti e potenti.

In fondo, nonostante i suoi proclami, Gehlen non è così «empirista» quanto crede (o vuole far credere), anche se non manca un certo bipolarismo nel suo argomentare, e malgrado la stessa letteratura critica fatichi a capire in che misura egli sia vittima di un autofraintendimento «naturalista». Se di autofraintendimento si tratta, gli va riconosciuto comunque quell’alto alto tasso di creatività che è intrinseco, di per sé, a tutto il pensiero della antropologia filosofica.


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