di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2011) *
Le due foto di copertina valgono più di una prefazione: nel frontespizio del libro un Giovanni Paolo II accigliato e a braccia conserte ascolta il vescovo che ebbe uno scambio di lettere con l’onorevole Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano; nell’ultima di copertina, un Papa sorridente con le mani e col volto dimostra il dissolversi delle sue perplessità. Il vescovo in questione è monsignor Luigi Bettazzi, una figura notissima dell’episcopato italiano, divenuto nel 1962 vescovo ausiliare di Bologna a soli 39 anni col titolo di Tagaste, la città nativa di sant’Agostino. Trasferito nel 1966 a Ivrea, guidò quella diocesi per ben 33 anni, dal 1966 al 1999. Ora egli propone una sua riflessione - profondamente intrisa di spirito conciliare (Bettazzi è, infatti, uno dei pochi vescovi che hanno potuto partecipare a quasi tutto il Concilio Vaticano II) - su uno dei temi più frementi nel dibattito ecclesiale e politico dei nostri giorni, quello della "laicità" e del "laicismo" irreligioso, sotto il titolo provocatorio Vescovo e laico?
Forte del suo lungo impegno nel dialogo tra credenti e non - in un certo senso egli è stato il precursore di quel «Cortile dei Gentili» voluto da Benedetto XVI e messo ora in azione proprio del Pontificio Consiglio della cultura, il dicastero vaticano che presiedo - , monsignor Bettazzi delinea un originale profilo del "laico" autentico attraverso quelle che paradossalmente sono le virtù per eccellenza "teologiche", ossia fede, speranza e carità. Accostando la duplice declinazione di questa triade da parte del cristiano e del laico a partire dalla carità-amore, passando attraverso la fede-pensare, fino alle speranze storiche e alla speranza ultima, egli dimostra che "laico" e "cristiano" non sono un ossimoro e neppure sono necessariamente un contrappunto dialettico, ma costituiscono una suggestiva coincidentia simbolica, purché si esorcizzino gli estremi devastanti dell’integralismo sacrale e del laicismo aggressivo, del fondamentalismo acceso e del sincretismo incolore.
Non è nostra intenzione ora riassumere le pagine di questa limpida eppur appassionata riflessione: la lettura sarà fruttuosa per vescovi e sacerdoti, per laici ecclesiali e laici civili, per credenti e per agnostici. Noi, prendendo spunto proprio da questa «spiegazione per gli amici», come è sottotitolato lo scritto, suggeriamo una nostra modesta ed essenziale considerazione sul dialogo tra chi crede e chi si classifica come ’’laico" nel senso "profano" che questo termine di matrice ecclesiale ha ormai assunto.
È un incontro possibile quando si lasciano alle spalle le apologetiche feroci e le dissacrazioni devastanti e si toglie via la coltre grigia della superficialità e dell’indifferenza, che seppellisce l’anelito alla ricerca delle ragioni profonde della speranza del credente e dell’attesa dell’ateo. È ciò che monsignor Bettazzi aveva fatto anni or sono nel suo dialogo con l’onorevole Enrico Berlinguer, Segretario del Pci, espresso appunto nella famosa Lettera a Berlinguer (1976) e nella relativa risposta. Quando si dialoga, tenendo però ben saldi i piedi ciascuno nel proprio territorio ideale senza facili concordismi, le identità non creano cortine di ferro invalicabili, perché gli sguardi si incrociano e gli orecchi e la mente ascoltano le ragioni dell’altro. Come insegna anche in questo libro monsignor Bettazzi, per un simile incontro non ci si deve armare di spade dialettiche, ma di coerenza e di rispetto: coerenza con la propria visione dell’essere e dell’esistere, senza slabbramenti sincretistici o sconfinamenti fondamentalistici o approssimazioni propagandistiche; rispetto per la visione altrui alla quale si riservano attenzione e verifica oggettiva.
L’ostacolo più grave nell’atmosfera culturale contemporanea per questo dialogo è forse uno solo, quello della superficialità che stinge la fede in una vaga spiritualità e riduce l’ateismo a una negazione banale o sarcastica. Per molti, ai nostri giorni, il «Padre nostro» si trasforma nella caricatura che ne ha fatto Jacques Prévert: «Padre nostro che sei nei cieli, restaci!». O ancora nella ripresa beffarda che il poeta francese ha escogitato della Genesi: «Dio, sorprendendo Adamo ed Eva, / disse: Continuate, ve ne prego, / non disturbatevi di me, / fate come se io non esistessi!».Far come se Dio non esistesse, etsi Deus non daretur, è un po’ il motto della società del nostro tempo: chiuso come egli è nel cielo dorato della sua trascendenza, Dio (o la sua idea) non deve disturbare le nostre coscienze, non deve interferire nei nostri affari, non deve rovinare piaceri e successi.
È questo il grande rischio che mette in difficoltà una ricerca reciproca, lasciando il credente avvolto in una lieve aura di religiosità, di devozione, di ritualismo tradizionale, e il non credente immerso nel realismo pesante delle cose, dell’immediato, dell’interesse. Come annunciava già il profeta Isaia, ci si ritrova in uno stato di atonia: «Guardai, ma non c’era nessuno; tra costoro nessuno era capace di consigliare, nessuno c’era da interrogare per avere una risposta» (41,28). Il dialogo è proprio per far crescere lo stelo delle domande, ma anche per far sbocciare la corolla delle risposte. Almeno di alcune risposte autentiche e profonde.
* Luigi Bettazzi, Vescovo e laico?, Dehoniane, Bologna, pagg. 106, € 9.