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EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...

KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI"). Una pagina di Kant e una nota di Federico La Sala

sabato 18 gennaio 2014
Foto. Frontespizio dell’opera di Thomas Hobbes Leviatano.
[...] un medico, un giudice, o un uomo politico, può avere in capo molte belle regole patologiche, giuridiche o politiche, al punto da poter diventare egli stesso un profondo insegnante in proposito, e tuttavia cade facilmente in errore nell’applicazione di esse, o perché manca di capacità naturale di giudizio (...) o anche per il fatto che egli non è stato sufficientemente addestrato per questo giudizio, mediante esempi e pratica (...)

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> KANT E SAN PAOLO. --- RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO”!

martedì 3 marzo 2020

CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO”! *


Pensare dentro l’emergenza

di Igino Domanin (Le parole e le cose, 1 Marzo 2020)

Mi trovo a una piccola riunione tra amici, è sabato 22 febbraio, arrivano le prime notizie, ormai le conferme, sul Coronavirus. Ha fatto la sua apparizione improvvisa e contagiosa a Codogno, nel Lodigano, in realtà un centro vicinissimo a Milano. Non sono molto cosciente di cosa sta per succedere, ma uno dei convitati mi ha appena detto di essere passato al supermercato per una spesa fuori del normale. Provviste di scatolame, qualche pacco di pasta, non sia mai che scarseggino. Ammetto che questa situazione mi coglie impreparato, fino a quel momento la visione della città cinese, dove tutto è nato, appariva lontana e virtuale. Mi faceva venire in mente la miniserie su Chernobyl.

Gran parte delle nostre percezioni sono rivolte a costrutti, artefatti, manipolazioni, cose che non esistono come fatto naturale ed esterno alla nostra azione. Siamo parecchio abituati a pensare che la nostra condizione di fondo sia in realtà un prodotto, qualcosa che esiste, in fondo, solo per noi e che dipende da noi. Un forte anestetico che allenta la necessità di avere dolorose reazioni empatiche alle catastrofi quotidiane che appaiono nel nostro mondo mediatizzato. La Natura sembra non preoccupare molto, si muore sempre più tardi, molte malattie si curano e si prevengono. Anche se qualche giorno prima di quel famoso sabato, un assicuratore mi ha proposto una polizza per cure a lungo termine. In pratica, mi dice: lo sai che ti toccherà vivere a lungo e ti pare bello, ma la vita, quando invecchi peggiora, e può essere costosissimo viverla se diventi dipendente da qualcuno che si occupi di te. Ho visto gente distruggere il patrimonio, forse è meglio che ci pensi adesso a pararti con una bella polizza. Quando ti capiterà (ed è statistico), che ti becchi una invalidità, l’assicurazione ci pensa. Ah ecco, siamo dentro il crepuscolo della probabilità, inchiodati in un corpo destinato a una lentissima malattia, ma ostinatamente sopravvivente. Non è mica tanto vero, quindi, che non ci attende la natura, che possiamo vivere anestetizzati come una sorta di parodia della sostanza pensante cartesiana. Dobbiamo preoccuparci in modo opaco della nostra corporeità, impegnati in un lavorio assiduo, dipendente da circostanze accidentali e fortuite, ma potenzialmente incombenti.

Ed eccomi alla domanda che mi sono posto, rispetto a certa abitudine filosofica tardonovecentesca d’infilare tutta la realtà nella finzione, nella mediatizzazione, nel dispositivo e finanche nelle baggianate dello storytelling. Cosa succede, invece, quando arriva un pericolo esterno, un’aggressione della nostra natura umana, che non è in nostro potere e che sconvolge quella idea molto radicata per cui il tratto fondamentale della condizione umana parrebbe determinato da questa onnipotenza del volere, da una supposta artificializzazione assoluta, da una decisione a cui è appesa l’intera possibilità della realtà? In effetti, il disagio che provoca la situazione dell’epidemia di Coronavirus, in me e in molti altri, è la mancanza di risposte. Un’alterità insorta naturalmente, che si rapporta a me e che non dipende da me e che mi condiziona in modo radicale fino a minacciare sordamente la mia stessa esistenza. Un’alterità che non è costrutto, che esorbita dalla mia decisione, che è un Fuori, una Esteriorità senza ancora un linguaggio in grado di descriverla, ma posso solo nominarla: Covid 19.

Questa premessa per rispondere a un articolo di Giorgio Agamben che pretende d’inquadrare nel paradigma dello “stato d’eccezione” la dimensione sociale dell’epidemia di Coronavirus. Non mi convince affatto, perché cala dall’alto la certezza di un modello storico novecentesco senza metterlo alla prova. Si parte dall’idea che l’epidemia, l’evento virale e patogeno e tutte le sue conseguenze siano appunto un costrutto, una macchinazione politica, un “dispositivo” che produce un certo tipo di realtà fondata sulla necessità del controllo e della normalizzazione medica. Insomma tutta la pesante assiomatica che ruota intorno a questa surrettizia metafisica della decisione, non a caso dipendente da una teologia politica, che ignora la cogenza ontologica della natura e dei suoi eventi. Una natura, cioè, che è irriducibile all’uomo, al sapere, al linguaggio, ma che entra prepotentemente in relazione con noi fino a provocare il trauma: l’assenza di altra parola certa che non sia l’ostinazione del nome, dell’evocazione costante e ripetuta del “coronavirus”, una realtà ancora non spiegabile eppure esistente in modo drammatico e incombente.

Abbiamo scoperto di essere esposti costitutivamente al rischio, in modo massivo e imprevedibile. In realtà, a ben vedere, la nostra società è calata nell’azzardo e nella esposizione continua a rischi catastrofici, con i quali deve convivere, pena la regressione e l’annientamento. In altri termini, non abbiamo scelta in termini metafisici, siamo destinati storicamente a rapportarci con una esteriorità che c’invade e ed entra in contatto, che può contaminarci fino ad ucciderci, ma che possiamo però rendere ospitale e convivente. Non possiamo stare nei nostri confini senza un po’ di barbarie. Non esistono fondamenti metafisici ai quali riferirsi, non ci sono evidenze scientifiche, nemmeno principi etici inderogabili ed assiomatici. L’indecidibilità, il rischio, l’incertezza, la vulnerabilità ed altro ancora disegnano una nuova figura storica della condizione umana.

Jean-Luc Nancy ha giustamente insistito in una replica, piuttosto secca, ad Agamben che si tratta appunto di aprire un rapporto positivo con l’esteriorità, con ciò che resta esterno e non assimilabile, venire a patti con un’alterità che si sa minacciosa e inconoscibile, ma che appunto impone nuove forme di convivenza su cui scommettere. Negli anni Ottanta, prima la discussione sul Principio di Responsabilità formulato da Hans Jonas, poi la Società del rischio teorizzata da Ulrich Beck e le ricerche antropologiche di Mary Douglas su Purezza e Pericolo, misero in campo una nuova prospettiva. La condizione umana è immersa in rischi potenziali insondabili e opachi, non possiamo uscire dalla esposizione alla catastrofe. In fondo Gunther Anders si era spinto a pensare a una ormai definitiva immanentizzazione dell’escatologia. La catastrofe è il nostro presente attuale, la nostra quotidianità, il nostro rischio costante. Nessuno può ritenersi protetto da un’immunità già stabilita, tutti devono fare i conti con nuovi modi contingenti e flessibili di pensare la sicurezza. Tra gli eccessi euforici dell’ordoliberismo e dell’accelerazione capitalistica dei flussi transnazionali e la paranoia sovranista che promette una sicurezza basata sulla mera reazione, forse si dovrebbe mettere in pratica pazientemente una nuova etica della responsabilità, che a mio avviso resta importante ancora oggi e dentro l’attualità di questa emergenza. Se l’epidemia del Coronavirus ci costringe a pensare dentro l’emergenza, dentro la contingenza spoglia e radicale dell’evento, allora possiamo riprendere confidenza con alcune virtù antiche, ma illuminanti. La prudenza, l’attesa, la pazienza sono l’antidoto morale a una visione paranoica e complottistica del male e della malattia, risorse morali cui attingere senza pretendere di uscire dall’incertezza.


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CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO”!

APPUNTI SULLA “ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE... *

[...] PER IMPARARE “a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia”, CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di “come nascono i bambini” (a tutti i livelli)! [...] Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per “concepire” noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!

L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle “favolette” e di ogni “illusione di un altro Messia”. Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche “uomo supremo” o “superuomo”!):

PONZIO PILATO «disse loro: “Ecco, ve lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa”. Uscì dunque Gesù, portando la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato disse loro: “«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)”. Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro inservienti gridarono: “Crocifiggi! Crocifiggi!” Disse loro Pilato: “Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui colpa”. Gli risposero gli Ebrei: “Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto figlio di Dio”» (Gv. 19, 4-7).

SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i “sovranisti” laici e religiosi di ieri e di oggi ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5269)?!

Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo “Ecce Homo” e non capire una “H” (acca)?!

* Per ulteriori precisazioni, mi sia consentito, cfr. “Dal “che cosa” al “chi”: nuova ermeneutica e nuovo principio di “carità” ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5728#forum3156994).

Federico La Sala (Le parole e le cose,, 02 marzo 2020)


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