Enrico Terrinoni, Joyce in rosso
di Ana Lopez Rico *
Enrico Terrinoni chiama informalmente il suo saggio su Joyce e la fine del romanzo «il mio libro rosso» e in effetti è questo il primo elemento ad attirare l’attenzione del lettore. Praticamente uniforme e dominante nella quarta di copertina, il colore rosso ha una presenza di circa il 70% nella prima. A spezzare il cromatismo imperante, un dettaglio del ritratto di Joyce di Jacques-Émile Blanche.
Il titolo è il secondo elemento paratestuale rilevante. Ambiguo come lo stesso Joyce, ci fa elucubrare sul suo significato: è la fine del romanzo intesa come finale? come explicit? oppure si riferisce alla morte del romanzo come genere letterario? Queste domande e tante altre che spunteranno con la lettura del volume verranno chiarite man mano che il lettore conoscerà i contenuti, spiegati in modo chiaro, con esempi che toccano molte tematiche: dalla politica alla letteratura, dalla storia alla religione, con non pochi accenni alla dimensione «alcolica» che non mancò di colorire l’esistenza multicolore di James Joyce.
Sei sono i capitoli che costituiscono il volume, ognuno dei quali possiede un titolo notevole, studiato, sulla scia del grande studioso Gabriele Frasca (non a caso il primo capitolo contiene nel titolo un riferimento all’amatissimo Beckett, su cui Frasca ha approfondito le sue ricerche lungo gli anni).
Fin dalla premessa, Enrico Terrinoni segna le basi di quella che sarà la sua scrittura: ambigua, con infiniti significati, concetti ossimorici all’interno dello stesso termine, geniali giochi di parole, osmotici, come lo stesso titolo che fa riferimento al Finnegans Wake, ossia a un finizio, una fine che non ha inizio o che ne ha tanti diversi, e sta al lettore «l’onere della sentenza», perché l’autore non prospetta una fine, non la trova, ma non la cerca nemmeno, è come la fenice che rinasce dalle proprie ceneri, «il romanzo, finendo, rinasce; e lo fa proprio con Finnegans Wake». Terrinoni è consapevole della sfida che lancia ai suoi lettori e lascia che siano loro a interpretare. Insomma, un primo paragrafo che riassume a mo’ di scioglilingua l’intero testo.
Nell’introduzione l’autore realizza un’interessante dissertazione sulla fiction, in cui spiega come essa possa configurarsi usando la dicotomia truth / fiction, e anche attraverso le teorie di autori quali Doody, Michael McKeon, Ian Watt. Innumerevoli sono anche le citazioni del recentemente scomparso Umberto Eco, un omaggio di Terrinoni a colui che seguiva da vicino la sua traduzione, elaborata insieme a Fabio Pedone, dei due libri del Finnegans Wake non ancora tradotti in italiano.
Il saggio è di lettura apparentemente semplice, se non si percepiscono i rimandi continui che collegano i discorsi, profondi e con una solida base formata nelle idee, studi e ricerche maturate dall’autore e radunati in un unico testo; una sorta di flusso di coscienza, un «tutto organico» in cui Terrinoni intreccia la pluralità semiotica del linguaggio e la realtà, a modo di fiction per renderla più letteraria; idea che rimanda in un certo senso a una delle ultime fatiche saggistiche del già citato Frasca, La letteratura nel reticolo mediale (Luca Sossella 2015), il cui argomento attinge anche parzialmente alla morte della letteratura.
Un libro che parla anche del proprio autore: vi troviamo l’amata Irlanda e i suoi autori (Flann O’Brien, Brendan Behan, Seamus Heaney, Oscar Wilde), la critica a un Moravia la cui percezione di un Joyce europeista lo portava a (pre)giudizi riguardo la sua irlandesità, i riferimenti ad autori quali Declan Kiberd e Giorgio Melchiori; a filosofi e traduttori come Giordano Bruno, Giambattista Vico, John Florio, Anthony Burgess e Giulio Giorello, per citare solo alcuni. Gli innumerevoli riferimenti al Finnegans Wake segnalano l’immersione - da tempo in corso - nel progetto colossale di tradurre il «monster-book».
Fin dall’inizio sono presenti giochi di parole e significati nascosti. Molto joyciano, ha uno stile danzante in cui le parole si ripetono mutando elementi, come la frase principale in uno spartito, creando così un flusso discorsivo ritmico e accattivante.
Altri argomenti da sottolineare sono il gioco degli opposti e delle coincidenze, l’interessante analisi di Ulisse da diversi punti di vista: religioso, politico, sociale, della lingua, del colonialismo, nazionalismo, della filosofia, la vita e la morte. Sono anche da segnalare i dubbi che si pone l’autore; si domanda e analizza cos’è un classico, dando una bellissima e nuova definizione vedendo la scrittura come registrazione dell’invisibile, non più la trama come punto focale nella storia, ma il mondo dell’invisibile della mente. C’è spazio anche per sfatare vecchie credenze; l’autore spezza il mito dell’intraducibilità di Joyce e sostiene che, proprio per l’idiosincrasia dello scrittore irlandese, i suoi testi non solo sono adatti a essere tradotti, ma addirittura a essere interpretati e perfino riscritti.
Da segnalare è poi l’apparato di note ricco d’informazioni, citazioni in lingua originale, riferimenti bibliografici e notizie completa una lettura già di per sé ricca di contenuti, una sorta di enciclopedia intertestuale i cui argomenti sono collegati mediante connessioni nella rete comune che è la realtà che tenta «una rincorsa del vero, non del reale».
Anche Enrico Terrinoni, come Joyce, sembra voler rompere con i canoni estetici e lineari che la prigione della tradizione ci impone, soprattutto nella scrittura formale e accademica. La presenza di tante lingue omaggia l’autore cui si è dedicato Terrinoni e il suo intero testo intreccia così l’italiano con altre lingue, usa le stesse espressioni a volte in inglese e a volte in italiano, a volte in corsivo e a volte fra virgolette, o direttamente in caratteri tondi: allo stesso modo in cui Joyce parlava un inglese-Irish, Terrinoni parla Itanglish o, meglio ancora, una lingua idiosincratica in cui mescola rimandi di tutti i tipi, giochi di parole, sonorità e opposti quasi cacofonici addobbati con espressioni integramente inglesi, ma anche latine, francesi... Una scrittura scorrevole agli occhi di chi parla più lingue ed è abituato, nel discorso, a dare più importanza al contenuto che all’uniformità del messaggio. Una scrittura fresca e moderna in cui l’autore si muove e ci fa muovere a proprio agio tra gli spazi di più idiomi, in modo naturale. In modo joyciano.
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