A "SCOLA" DI AUTORITARISMO: VESCOVI E CARDINALI CHE SI TOLGONO LA TESTA. Don Primo Mazzolari diceva ai suoi parrocchiani: «Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non vi togliete la testa»
Operazione sant’Ambrogio
di Aldo Maria Valli (Europa, 29 giugno 2011)
Nel 1972, durante la sua visita a Venezia, Paolo VI, nel bel mezzo di piazza San Marco e davanti alla folla, si tolse la stola e la mise sulle spalle di un imbarazzatissimo Albino Luciani, allora patriarca della Serenissima. Gesto eloquente, una vera e propria investitura. Che ebbe conferma e pratica realizzazione sei anni più tardi, alla morte di papa Montini, quando dal conclave uscì eletto proprio il timido patriarca.
All’inizio dello scorso maggio, nel corso della visita in laguna, Benedetto XVI non si è tolto la stola e non l’ha deposta sulle spalle del patriarca Angelo Scola. Non è nello stile di Joseph Ratzinger compiere gesti plateali. Ma, se non l’ha fatto, c’è anche una ragione sostanziale. Ratzinger, a differenza di molti altri dentro la Chiesa, crede nelle regole e nella collegialità.
In queste settimane che hanno preceduto la nomina di Scola a Milano si è detto e ripetuto che il patriarca di Venezia è approdato sotto la Madonnina perché fortemente voluto da Benedetto XVI. Adesso, a nomina avvenuta, sappiamo che è una verità parziale. Che Benedetto stimi Scola da molti anni è fuori discussione. Che ne ammiri le capacità di animatore culturale e di organizzatore è altrettanto certo. Ma non è vero che il papa si sia battuto per la nomina di Scola nonostante le opinioni divergenti degli altri vescovi chiamati a sottoporre al pontefice le candidature.
Anzi, è vero il contrario. Da fonti vaticane risulta infatti che per ben tre volte, davanti a una maggioranza di vescovi che, riuniti nella plenaria della congregazione, indicava una terna di nomi con Scola come candidato più forte per Milano, il papa ha rimandato indietro la proposta chiedendo un ulteriore approfondimento (o, come si dice in ecclesialese, un discernimento).
Lo ha fatto, sicuramente, non per scarsa fiducia in Scola, ma per grande considerazione della collegialità episcopale e del ruolo delicatissimo che la plenaria della congregazione per i vescovi è chiamata a ricoprire, specie quando in ballo c’è una nomina importante come quella che riguarda Milano. Solo che, dai vescovi, è arrivato sempre lo stesso responso: tre nomi, con due candidature oggettivamente deboli e una sola, quella di Scola, in grado di poter essere presa davvero in considerazione.
Al che il papa, proprio in ossequio al rispetto della collegialità, ha dato il via libera. Ora, perché la maggioranza dei vescovi (circa due terzi, a quanto risulta) ha puntato così decisamente su Scola? Paradossalmente l’ha fatto pensando di compiacere il papa. Poiché una campagna di stampa e di persuasione, sapientemente condotta e orchestrata, ha tambureggiato a lungo indicando il patriarca come candidato più gradito a Benedetto XVI, la maggioranza dei vescovi riuniti nella plenaria si è prontamente adeguata e, non volendo risultare in dissonanza con il pontefice, è diventata più realista del re (o meglio, più papista del papa).
Più che dalla strenua volontà di Benedetto XVI, il trasloco di Scola da Venezia a Milano nasce quindi da un’abile strategia di comunicazione e di persuasione messa al servizio di un candidato. Cosa che si ripeterà, c’è da scommetterlo, in caso di conclave, visto il successo di questa che, parafrasando il celebre film Operazione san Gennaro, possiamo ribattezzare Operazione sant’Ambrogio.
Sicuramente il papa non è scontento della scelta di Scola: la sua ammirazione per l’uomo e per il teologo è certa e si è consolidata nel tempo. Quanto al nuovo arcivescovo di Milano, difficile che in lui non emerga, in queste ore, un certo senso di rivincita, visto che diventa il capo di quella diocesi, che è poi la sua diocesi di nascita, nella quale quarant’anni fa non riuscì a essere ordinato prete (dovette “emigrare” a Teramo).
Sullo sfondo, in ogni caso, resta il problema: il funzionamento degli organi decisionali della Chiesa e la capacità di giudizio e di scelta di coloro (oggi i vescovi, domani i cardinali) che sono chiamati a decidere in un’epoca in cui la macchina dell’informazione, se pilotata in un certo modo, può diventare un soggetto determinante nell’orientare il consenso.