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L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...

MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori - a c. di Federico La Sala

MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
sabato 11 luglio 2015
"Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). G.B. Vico, De constantia iurisprudentis, 1721.
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!

STORIA E STORIOGRAFIA. Nel 1723, a Napoli, Giambattista Vico già lavora alacremente alla "Scienza Nuova"; per lui, è più che chiaro: "charus" e "charitas" derivano etimologicamente dai termini greci "charìeis" e "charis", e il significato (...)

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> MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO - E GENOVESI ... "Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo" (Luigino Bruni). Rec. di A. Visalli.

mercoledì 15 novembre 2017

      • II PARTE. Continuazione fine

Cosa è, invece, oggi il lavoro sottoposto alla logica dell’economia manageriale anglosassone? Il principio centrale sembra essere quello di tenere fuori del lavoro la vita ed i suoi impegni, evitare compromissioni con logiche “aliene” e disturbanti come gli impegni, i doni, la gratitudine, la capacità di gratuità; cioè con le relazioni di tipo comunitario e non contrattuale. Tutto deve essere razionalizzato entro le coordinate del contratto e nella sua figura logica. Di fiducia, passione, lealtà, si parla molto, ma solo questo. La loro pratica è poco controllabile, non è gestibile: lega. Il dono lega. Questa la sua natura, crea legami che poi inducono di essere rispettati.

Per questo la cultura del nuovo managerismo ne cerca solo la mimesi, ma al momento del fatto non rispetta mai il credito emotivo accumulato. In particolare nel primo sistema economico. Ne ha fatto esperienza quel dirigente che dopo decenni passati a far tardi la sera, e a pensare al lavoro anche a casa, improvvisamente non serve più. Da un minuto al successivo, ormai anche senza i vecchi riti di passaggio, si trova reciso da tutti i rapporti che credeva veri, mentre erano solo righe su un contratto. Il gioco continuerà con qualcun altro.

Questa cultura del lavoro, priva di ogni spessore, in effetti consuma vite e consuma gioventù. Tiene costantemente aperta la fucina delle sostituzioni. Tanto più quanto è minore il peso dell’attrezzo umano sostituito.

Come dice Bruni: “le grandi parole della vita portano frutto solo se non sono strumentalizzate. Hanno bisogno di grandi spazi, di essere accolte nella loro complessità e, soprattutto, nella loro ambivalenza che le rende generative, vive, vere” (p.23). Esse, in sostanza, “non permettono di essere usate a scopo di lucro, certamente non lo consentono per lungo tempo”. Ignorarlo induce una sofferenza (che con altri termini è oggetto dell’attenzione di Richard Sennett sia in “La cultura del nuovo capitalismo”, del 2006, sia in “L’uomo flessibile”, del 1998) sia psicologica sia morale. Il dilemma è che l’impresa per funzionare davvero ha bisogno di ciò che sui contratti non può essere scritto, dell’entusiasmo, delle passioni, dell’amore, della gioia, della creatività. Ma queste dimensioni dell’uomo sono “solo e tutta libertà”, e quindi possono essere solo donate.

Ecco ciò che non si capisce più, assolutamente: ciò che può essere solo donato richiede reciprocità.

Pretende riconoscimento e rispetto, pretende riconoscenza. “Incentivi” e tanto meno “controlli” non possono ottenerla. L’uomo, davvero, non lavora per il denaro. Questa semplicissima verità era chiara ancora nel XVIII secolo, anche agli scozzesi, ma oggi non è più capita (anche quando è enunciata).

Ma c’era anche un’altra tradizione, nella quale il mercato era interpretato sotto la figura della “mutua assistenza”. Questa tradizione fiorisce direttamente dalla tradizione medioevale ed emerge nell’umanesimo settecentesco nei paesi latini, Italia in particolare.
-  Uno dei più maturi esponenti è Antonio Genovesi, il primo professore di economia d’Europa, nel 1754, nato a Castiglione e vissuto fino al 1738 a Buccino (SA), studia filosofia a Napoli con Vico e dal 1745 è docente di metafisica. Come Smith alcuni anni dopo si occupa di filosofia, ma segue Cartesio e Locke e questo gli costerà la più dura opposizione. Nel dialogo con altre grandi figure come Ludovico Antonio Muratori e Ferdinando Galiani (che nel 1751 scrive “Della moneta”) Genovesi si muta in economista. Nel 1765 pubblica le “Lezioni di economia civile” che abbiamo già citato, opera subito tradotta in tedesco ed in spagnolo. Altre opere di questo periodo sono le “Logica” (1766) la “Della diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto” del 1766 e un commento allo “Spirito delle leggi” di Montesquieu. Muore prematuramente nel 1769 a cinquantasei anni.

Nella antropologia “socievole” che Genovesi mette a punto si contrappongono quelle che chiama “forze concentrive” (egoismo ed amor proprio) con quelle “diffusive” (altruismo), e devono essere tenute in equilibrio. Se la prima cresce troppo indebolisce la “diffusiva” e ne deriva la sua stessa autodistruzione. Dato che è esattamente ciò che sta avvenendo nel nostro tempo cieco leggiamolo meglio: “la forza concentriva spesso trae a sé soverchiamente, donde nasce un indebolimento della diffusiva, che strugge il fondo medesimo della concentriva” (“Logica italiana”, p.19).

Ma vale anche l’inverso, non si può essere solo diffusivi, ne nascono squilibri. Sarà, alcuni anni dopo, dello stesso avviso un altro grande intellettuale di quella fase felice: il genovese trapiantato a Napoli Paolo Mattia Doria. L’equilibrio e la reciprocità sono la radice della capacità di essere sociali dell’uomo. Dunque anche le relazioni economiche di mercato, allontanandosi dalla posizione che poi sarà di Smith, sono viste come relazioni di mutua assistenza. Non impersonali, né anonime.

Per Luigino Bruni Genovesi non va letto come uno Smith meno preciso, ma come l’approdo di una lunga tradizione che riusciva a leggere le dinamiche economiche entro quelle della vita civile e quindi anche il mercato come espressione di leggi generali (anche qui sotto la metafora dell’attrazione newtoniana) che regolano la società. Una posizione culturale posta all’incrocio tra etica, antropologia ed economia (ovvero, come si diceva, “commercio”). Ma è anche (nella “diocesina”) un anticipatore del tema dei diritti umani in ambito latino, cui aggiunge quello che oggi classificheremmo come un “diritto sociale”, quello al mutuo soccorso: “serbate intatti i diritti di ciascuno, anzi soccorreteli quando sapete, e potete”.

Le parole al centro del suo sistema economico sono diverse da quelle che si consolideranno: fiducia (fides), mutuo vantaggio, felicità. La prima è qualcosa come il tessuto di virtù civili e fiducia che rende possibile di fatto lo sviluppo umano ed anche quello economico (noi lo chiamiamo ora "capitale sociale"). La “fede pubblica” è propriamente parte della ricchezza di una nazione. È questa che manca, a suo parere di più al Regno di Napoli (all’epoca ricco sul piano materiale). C’è troppa “fiducia privata” (legami particolaristici, ed onore) ma troppo poco quella “pubblica”. Questa necessaria condizione di fides è legata strettamente all’altra parola guida dell’intero illuminismo settecentesco italiano: la felicità pubblica.

Mentre quindi altri si occupavano della ricchezza delle nazioni, dice Bruni, questi si interrogavano sulla felicità pubblica attraverso la fides pubblica e quindi equilibrio e reciprocità. Non è proprio la stessa cosa.

Su questa tradizione si innesta la riflessione di un allievo di Genovesi: Giacinto Dragonetti, autore de “Delle virtù e dè premi”. In quest’opera lega virtù e premi, dono e mercato. Le virtù civili, così importanti per la scuola di Genovesi, sono rinforzate molto più che da “I delitti e le pene” (come recita il coevo capolavoro di Beccaria), dai premi perché la virtù è più forte del vizio. Egli, che successivamente diventerà magistrato, si muove nella linea aristotelica, ciceroniana e tomistica valorizzando l’etica della virtù contro la più forte nel secolo tradizione utilitarista (e hobbesiana).

Il premio, dunque. Ma qualcosa di molto diverso dal nostro “incentivo”. Qui non si tratta di ottenere qualcosa, di estorcerlo per così dire, da chi altrimenti non lo farebbe. Sandel, in “Quello che i soldi non possono comprare”, coglie il punto nella sua critica della economicizzazione corruttiva dei rapporti sociali non di mercato attraverso gli incentivi. La virtù, che merita il premio, è rivolta agli altri, si compie con sforzo, ed è utile alla società. Ne deriva un’importante conseguenza: “essendo la virtù un prodotto non del comando della legge, ma della libera nostra volontà, non ha su di essa la società diritto veruno. La virtù per veruno conto non entra nel contratto sociale; e se si lascia senza premio, la società commette un’ingiustizia simile a quella di chi defrauda l’altri sudore”. Sono dunque “servigi gratuiti” e quindi “bastano a se stessi”.

La cosa è molto chiara allora, il premio alla virtù è la virtù. Il premio è un mero riconoscimento. Dunque ha alcune semplici caratteristiche: è pubblico, è ritualizzato, non vale in sé ma come simbolo, è posteriore all’azione, crea legame sociale.
-  Tutto il contrario dell’incentivo, che: è privato, ha valore estrinseco, è ex ante, e tende a rafforzare relazioni individuali e non sociali.

Questa tradizione, sostiene Bruni, si è “immersa”, ma ogni tanto rialza la testa, ne sono espressione Romagnosi (così stimato da Pisacane), Cattaneo, Minghetti, Lampertico, Toniolo, ma anche nel novecento Sturzo, Fuà, Caffè, e oggi Beccatini (con cui l’autore ha scritto dei libri). E poi intellettuali come Verdi, Gioberti e Manzoni.

La scienza economica andrà alla fine in un’altra direzione: verso l’esaltazione del commercio, dell’interesse e delle leggi automaticamente scaturenti dalle “attrazioni e repulsioni”, cioè verso la versione scozzese della “mano invisibile”. La “suprema mano” di Genovesi non era una teoria dell’ordine spontaneo del mercato fondato su un’antropologia pessimistica (come sostiene Max Weber), ma un’idea di provvidenza fondata su una naturale socialità dell’uomo. Negli ultimi anni lo vedrà bene, il commercio non deve essere guidato dallo “spirito di conquista” (p.92), ma è civile se è ispirato al mutuo vantaggio. Se reciprocità e felicità vi dominano. Se non è il luogo della predazione.

Adam Smith (che è però anche l’autore della “Teoria dei sentimenti morali”, che in qualche modo si divide il lavoro con la sua opera economica), è figlio di una madre calvinista e insegna in una scuola calvinista. Segue la tradizione che nasce dall’agostinianesimo di Lutero, secondo il quale la gratia deve essere separata dal mercato. E’ questo infatti lo scandalo originario: i doni della grazia erano fatti mercato. Ne era fatto mercato. Le 95 tesi del 1517 attaccano le indulgenze, ma la cosa diventa ed è più profonda. Dal mondo del dono, della gratuità, va tenuto fuori il mondo. Sono distinti, ogn’uno è retto da leggi diverse e non sono unificabili.

Viene abbandonata per queste ragioni l’etica della virtù di derivazione aristotelica e tomistica, e l’uomo è visto con Agostino (vissuto in epoche tragiche) come malato di egoismo ed incapace di per sé di virtù. Almeno nella “città degli uomini” (nella “città di Dio” la grazia lo soccorre). Resta interesse ed utilità. Lo abbiamo visto già in Hirschman, quindi in Max Weber, questa tradizione ha radici soprattutto in giansenisti e calvinisti, negli ugonotti francesi (che si spostano massicciamente in Inghilterra dopo le persecuzioni), e sono tutti legati ad un’antropologia agostiniana.

Ci sono in entrambe le tradizioni, dice giustamente Luigino Bruni, delle patologie sociali caratteristiche:

      • Quella tomistica-cattolica-latina, della commistione ricercata di “dono e mercato”, inclina verso il familismo amorale e la corruzione negli spazi che si aprono tra il “contratto” e la “fides” (mal riposta, o troppo poco “sociale” e troppo “privata”, per usare i termini genovesiani);
      • Quella agostiniana-protestante-nordica, della separazione tra le “città”, e l’ancoraggio sul solo egoismo degli interessi privati, sul “contratto”, inclina alla solitudine ed all’individualismo; riduzionismo e pessimismo lo dominano, e dunque crea strutture della personalità di questo genere. Dopo due secoli di dominio (intervallato da un quarto di secolo) ormai “sta producendo agenti economici tristi e atrofizzati nella loro capacità di virtù (e quindi di etica del dovere e dell’onore) con risultati in termini di impoverimento antropologico (e quindi relazionale, ambientale, politico) e diminuzione della gioia di vivere [della genovesiana “felicità”] che tutti possiamo costatare”.

Max Weber nell’ultima, profetica e straordinaria, pagina del suo capolavoro lo aveva scritto: “specialisti senza spirito, edonisti senza cuore: questo nulla si immagina di essere asceso a un grado di umanità non mai prima raggiunto”.


SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere

LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006)!!!

"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.

Federico La Sala


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