di Italo Mancini (Avvenire, 13 dicembre 2013)
Fede, come dovrebbe essere intesa secondo la mia ricerca, deve realizzare nella sua definizione un senso teologico forte, tale da liberarla, quasi surrealisticamente, dalle catture antropocentriche. Il punto di riferimento della distinzione è dunque il mondo del soggetto, mentre il punto di riferimento della comprensione è dato dall’oggetto, o meglio, per usare l’espressione di Hegel, dall’«oggetto immenso». Fede pertanto è qui intesa come il mondo dell’oggetto teologicamente immenso, totalmente imprevedibile per l’essere e per il fare dell’uomo. Il senso della fede nasce così dalla differenza, anzi da una infinita differenza qualitativa con ogni forma di essere, avere, sperimentare mondani da parte dell’uomo.
La teologia classica conosce bene questa figura quando distingue tra fides quae creditur, ossia la fede come oggetto della confessione di fede, e fides qua creditur, ossia la fede come confessione dell’oggetto dogmatico. Questo è l’atto di fede; quello è la norma, l’oggetto, il campo della fede, come quando si dice di uno che è morto per la fede. La fede grande è questa, e la possiamo esprimere con il Credo maiuscolo, quello che si recita per professare la fede, mentre per il nostro atto di fede non possiamo fare uso che del credo con la minuscola.
Peccato che la lingua italiana non abbia due parole diverse per indicare valori totalmente differenti; se così fosse, non sarebbe tanto costante la tentazione di fare coincidere la fede con il nostro modo di credere, invece che con il dono di Dio, munificamente insequestrabile, e soprattutto si potrebbe notare la totale subordinazione dell’atto nostro all’apriori divino, che in questo campo è, deve essere, sovranamente all’origine come primum ontologico, logico, epistemologico e normativo.
Q uanto sia corroborante e decisiva per le nostre impostazioni successive questa distinzione e l’assoluta primogenitura che in essa abbiamo stabilita può essere indicato attraverso due fenomeni teologici, che indicherò in modo sintetico.
Il primo, svoltosi nel decennio successivo alla prima guerra mondiale e nella compagine della confessione protestante, ha preso il nome di teologia «dialettica», ha avuto in Karl Barth la sua figura vistosamente egemone, e nella dichiarazione della tutt’alterità del mondo teologico e della sovrana autofondatività e autosufficienza della sua epistème, ossia del suo im-porsi veritativo e pratico, ha avuto quel recupero cui non si torna senza un rinnovato senso di gioia e di liberazione in rapporto ai prodotti dell’orgogliosa, anche quando è fatta con le migliori intenzioni, cattura umana, bramosa fino all’odio teologico in questi contesti come mai altrove, visto che qui si tratta di ciò che è decisivo.
Il secondo fenomeno, svoltosi più recentemente, e non senza connessione con il primo, stavolta nel contesto cattolico, e pertanto non è più soltanto un fenomeno teologico, ma soprattutto un fenomeno ecclesiale (non è teologia delle personalità, ma della comunità: questa potrebbe essere una delle più vistose forme di differenziazione tra la teologia protestante e quella cattolica), è legato alla intenzione giovannea di un concilio ecumenico che presentasse di nuovo al mondo il messaggio cristiano nella sua genuina essenza evangelica, con un aggiornamento che non fosse altro che la proiezione in avanti permessa dal recupero antico e originario, sì che giovani legami fossero stretti non in forza di espedienti mondani e culturali, ma in forza dell’impeto nativo e della risorsa specificamente teologica.
Quanto sia corroborante e decisivo anche per la prassi privata e pubblica del credente questo recupero del senso oggettivo e fondante in senso radicale della prassi può essere detto con queste tre osservazioni.
P rimo. L’attuale fase culturale è caratterizzata dalla crescente egemonia del pensiero radicale... Ora, quale risposta migliore può dare il cristiano se non quella di proporre il suo progetto puro, radicalmente evangelico, sciolto da abbracci quasi sempre soffocanti con le culture dominanti?
S econdo. Quando, nel genuino rispetto per l’ordine degli esseri e dei valori, i cristiani porranno a criterio del loro operare non la salvaguardia di pur validi interessi soggettivi e il puntellamento dal basso della signoria di Dio, ma il riconoscimento del supremo interesse dell’oggetto e della sua autonoma volontà di irraggiare e fermentare dall’alto il libero mondo degli uomini, quale capovolgimento di criteri e di interessi si creerebbe in questo modo di considerare le cose, dove quello che più preme non è il tenersi sempre più saldo della istituzione, che va salvaguardata costi quel che costi, ma il dono di Dio da elargire a tutti con trepida testimonianza, sempre più angosciati di giudicare la propria fedeltà al mondo del Signore che non di condannare fanaticamente il comportamento degli altri; e lungi dal fare dell’errore altrui un motivo ideologico per la separazione, ci si batte insieme il petto per non essere in grado di creare una società che eviti questi processi di morte, che sia capace di salvare Moro, e di procurare a tutti gli uomini il soddisfacimento dei bisogni elementari, come il diritto al cibo, all’abitazione? Quando si pensa tutto nella luce di Dio, tutto è messo in crisi, come tutto viene considerato degno di perdono.
Nell’autobiografia del prete Avvakum, che è considerato un testo fondamentale della letteratura russa delle origini, ed è, insieme, da ritenersi il manifesto di quei vecchicredenti che tanto filo da torcere hanno dato alla Chiesa ortodossa, Avvakum espone la sua visione del mondo cristiano come un immenso cerchio; chi vi cammina dentro in movimento verso il centro, non solo si avvicina a Dio, Signore di quel centro, ma, identicamente, si avvicina ai fratelli, perché verso il centro tutti i raggi si fanno più prossimi e vicini.
T erzo. Una volta che si sia riconosciuto e accettato, per rispetto della storia, che non è un ripostiglio di rifiuti ma un provvidenziale srotolarsi dell’essere, che sono irreversibilmente entrate in crisi forme peraltro importanti nel modo di fare sangue delle vene e delle arterie della terra il lievito cristiano, e penso al tema del partito politico dei cattolici, che la complessità della realtà storica e una più vigile coscienza dell’essere cristiano hanno quanto meno giudicato insufficienti per esprimere un pur legittimo travaglio, quello che irosamente Lutero rimproverava a Thomas Müntzer, che invece coglieva nel segno, e cioè di «rendere carnale la libertà di Cristo», una volta - dico - che si è riconosciuto vero tutto questo, quale gesto più politicamente produttivo può compiere il cristiano di quello che consiste nel testimoniare il puro evangelo, il dono della grazia, la dignità di tutti gli uomini, una riserva non solo critica, ma pure escatologica, di fronte al già fatto, di cui non ci si sente mai paghi, e in vista di un non-ancora, o di quella patria, come dice Ernst Bloch, che l’uomo ha intravisto fin dai sogni dell’infanzia e che non ha ancora posseduto?