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Fuori dalla "preistoria". Al di là della “concezione edipica del tempo”(Vattimo).

DANTE, VIRGILIO E IL ’CODICE’ DI MELCHISEDECH. DIO è AMORE (Charitas), in ‘volgare’!!! E LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMICOMICHE”! Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino

Con Lutero, oltre. Sacerdotalità e Sovranità - universali.
domenica 24 giugno 2007 di Federico La Sala
[...] Anche il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli sicuramente ricordava: divenuto papa, prenderà il nome di Giovanni XXIII ... e cercherà di correre ai ripari. Una nuova Chiesa, per credenti e non-credenti, che sappia essere finalmente, “Mater et Magistra” ... come la Maria di Gesù e la Beatrice di Dante! “Pacem in terris”: un nuovo Concilio, subito!!! [...]
MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”.
AL DI LA’ DELLA TRAGICA (...)

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> DANTE, VIRGILIO E IL ’CODICE’ DI MELCHISEDECH. DIO è AMORE (Charitas), in ‘volgare’!!! ---- CHE ILLUSIONE AF-FIDARSI ALLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA. Gianfranco Ravasi pensa ai tre monoteismi e incapace di pensare l’ "Uno" del Monoteismo!!!

martedì 3 agosto 2010

CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA-CATTOLiCA:

-  MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! Ha dimenticato l’esortazione di Papa Wojtyla ("Se mi sbalio, mi coriggerete")?!

L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA.


Che illusione affidarsi al «concordismo»

di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 01.08.2010)

«Molti anni fa un uomo, in Oriente, possedeva un anello inestimabile, un dono caro. La sua pietra, un opale dai cento bei riflessi colorati, aveva un potere segreto: rendere grato a Dio e agli uomini chiunque la portasse...». Comincia così la parabola che Nathan, un saggio ebreo gerosolimitano, narra al sultano Saladino nel 1192, durante una parentesi delle lotte tra musulmani e cristiani in Terrasanta. Questa parabola è nota a tutti nel suo esito finale, anche perché secoli prima che Ephraim Lessing nel 1779 la incastonasse nel suo poema drammatico Nathan il saggio, fatto di 3.849 pentapodie giambiche, il nostro Boccaccio l’aveva messa in bocca a "Melchisedech giudeo" nella terza novella della prima giornata del suo Decameron.

L’anello, lasciato in eredità di generazione in generazione, «giunse alla fine a un padre di tre figli, tutti e tre ugualmente obbedienti e da lui amati allo stesso modo... Così, con affettuosa debolezza, egli promise l’anello a tutti e tre». Ma come alla fine assegnarlo? La soluzione è nota: ne fece cesellare altri due identici e, in punto di morte, chiamò i figli uno per uno e a ciascuno consegnò un anello. Nessuno dei tre sapeva quale fosse quello vero.

La metafora è sciolta da Lessing nello spirito della tipica liberalità illuministica, che animava il nostro autore tedesco e che sarà celebrata anche dal famoso elogio della tolleranza intessuto da Voltaire.

I tre monoteismi, incarnati dai tre anelli, devono coesistere in spirito ecumenico e armonico. Sarà ciò che espliciterà il giudice a cui i tre figli ricorrono per dirimere la questione dell’autenticità e, quindi, del primato: «Ognuno di voi ebbe l’anello da suo padre, ognuno di voi sia sicuro che esso è quello vero. Egli vi ha amati ugualmente tutti e tre; non volle, infatti, umiliare due di voi per favorirne uno solo. Sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizi! Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra del suo anello! E aiuti questa virtù con la dolcezza, con indomita pazienza, con la carità e con profonda devozione a Dio».

Giustamente nella nuova edizione di questo "dramma di idee", il curatore Leo Lestingi appaia alle parole del giudice un passo del Corano molto significativo di cui il testo di Lessing sembra essere quasi una «riscrittura laica»: «Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto una comunità unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quello che vi ha dato. Gareggiate, allora, nelle opere buone perché tutti a Dio tornerete e in quel momento Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia» (5, 46-48).

Non è ora nostro compito illustrare la tesi di Lessing, secondo il quale la vera religione è quella che rende migliore l’uomo, adottando così un parametro veritativo esistenziale, etico e antropologico. Come osserva Lestingi, per lo scrittore tedesco «ciò che conta non è il fatto di essere cristiani, ebrei o musulmani, se ciò porta a oscurare la dignità umana, ma è l’essere uomini; decisivi sono i valori e i compiti di un umanitarismo qualitativo».

Questa concezione esalta, certo, il pluralismo, ribadisce che ogni religione ha un suo frammento di verità, ma anche introduce consequenzialmente una sorta di soggettivismo e persino di relativismo.

Infatti, i tre devono adattarsi a considerare come autentici tutti e tre gli anelli, ignorando la realtà oggettiva per la quale uno solo è l’anello vero. A questo proposito desidererei accennare molto sinteticamente a una questione più attuale e più complessa nelle sue formulazioni teoriche e pratiche.

Intendo riferirmi al dialogo interreligioso che ai nostri giorni ha un rilievo straordinario, soprattutto con l’irruzione della globalizzazione e con l’affacciarsi impetuoso di un monoteismo, quello islamico, nelle nostre città cristiane. Il dialogo tra le religioni è diventato, quindi, anche un nuovo capitolo della teologia contemporanea. Anzi, aveva ragione il teologo Heinz R. Schiette quando, già nel 1963, nel suo saggio Le religioni come tema della teologia osservava che «ci si trova di fronte a un terreno dogmaticamente nuovo, paragonabile alle zone in bianco degli antichi atlanti».

Al tradizionale paradigma dell’ “esclusivismo” (extra ecclesiam nulla salus) si è sostituito quello dell’ “inclusivismo”, suggerito soprattutto dal famoso teologo tedesco Karl Rahner, mentre il Concilio Vaticano II ha dato impulso «al dialogo e alla collaborazione dei cristiani coi seguaci delle altre religioni» (Nostra Aetate 2), così come si sono tentate mediazioni ulteriori tra i due paradigmi citati attraverso la proposta di un cristianesimo "relazionale".

Si è, però, corso anche il rischio di procedere verso la deriva di un pluralismo che in pratica faceva perdere l’identità alla teologia cristiana stingendone, se non estinguendone, il volto proprio. Si pensi, ad esempio, al cosiddetto paradigma "geocentrico" proposto dal teologo presbiteriano britannico John Hick nelle sue opere Dio e l’universo delle fedi (1973) e Dio ha molti nomi (198o), destinato a cancellare la speciticità cristologica. In sede meno teorica e più etico-politica - e, quindi, con minore assertività - si è mosso anche il noto Progetto per un’etica mondiale, elaborato nel1990 da Hans Küng (in italiano fu tradotto da Rizzoli nel 2001) e adottato dal "Parlamento delle religioni" di Chicago nel 1993: esso si basava su un consenso morale minimo verso cui le grandi tradizioni culturali e religiose dovevano convergere per essere al servizio dell’humanum, così da creare un mondo «giusto, pacifico e sostenibile».

È significativo notare che Küng rimandava proprio a Lessing, affermando che la bontà o meno di una religione, e quindi la sua "verità", dipende dalla sua promozione autentica della dignità dell’uomo e del bene comune.

Se è vero che il fondamentalismo etnocentrico e integralistico è la negazione esplicita del dialogo interreligioso e dell’ecumenismo, lo sono però anche le forme di sincretismo e relativismo, che più facilmente tentano civiltà stanche e divenute meno identitarie come quelle occidentali.

Anche questo atteggiamento - come quello che propone vaghe religioni "unitarie" su pallidi e inoffensivi denominatori comuni (ne sono esempi le tesi dello storico inglese Arnold Toynbee o del pensatore indiano Vivekananda) - si oppone al vero dialogo. Esso, infatti, suppone nei due soggetti un confronto di identità e di valori, certo per un arricchimento reciproco, ma non per una dissoluzione in una generica confusione o in un appiattimento.

Come l’eccesso di affermazione identitaria può diventare duello non soltanto teorico, ma anche armato, così il concordismo generico può degenerare in un incolore uniformismo o in una "con-fusione" relativistica. Conservare l’armonia della diversità nel dialogo e nell’incontro, come accade nel duetto musicale (che crea armonia pur nella radicale differenza dei timbri di un basso e di un soprano), è la meta di una genuina e feconda esperienza multiculturale, interculturale e interreligiosa.

Lestingi è, comunque, convinto che Lessing «non abbia mai voluto sfilarsi di dosso il cristianesimo come una vecchia tunica logorata, ma ha inteso interpretarlo in maniera nuova e ardita facendogli fare un salto in avanti». Un salto, però, piuttosto rischioso che ha sotto di sé anche il vuoto di uno smarrimento della specificità e dell’autenticità teologica.

Gotthold Ephraim Lessing, «Nathan il saggio», a cura di Leo Lestingi, Palomar, Bari, (via Nicolai, 47), pagg. 246, € 24,00.


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