Il mistero dell’intervista scomparsa
Perché chiedere un’intervista a uno dei più prestigiosi giuristi europei (di cui sono stranote le posizioni politiche e lo stile comunicativo) per poi non pubblicarla? Perché comportarsi in modo così offensivo verso uno degli intellettuali italiani più stimati e rispettati (anche dai suoi avversari) per la qualità, il rigore, l’indipendenza del suo lavoro? Un episodio che riempie di amarezza e incredulità.
di Franco Cordero
L’arte docile del giornale
Le premesse remote risalgono a quando scrivevo in «Repubblica». M’aveva invitato Ezio Mauro (novembre 2001): centinaia d’articoli e il Bagutta 2004, sul filo del rasoio perché Divus Berlusco regnava e i cautelosi rabbrividivano, ma non la direi mésaillance se bene o male è durata quindici anni. Due mesi fa esce Rutulia (Quodlibet), dove confluisce largo materiale d’allora. Il «Venerdì» manda qualcuno a intervistarmi, 24 ottobre: non so chi sia, né figura nel folto onomasticon del quotidiano e settimanale; ero sul chi vive, perciò lascio che parli a dirotto sfogliando il libro costellato da scarabocchi. Niente in contrario quando chiedo quesiti scritti. Arrivano e li sciolgo nella stessa forma. L’indomani canta genuflesso (26 ottobre): «Professore, grazie mille»; usciremo l’11 novembre; qualche giorno prima manderà l’intero testo affinché io lo riveda. La formula perentoria smentisce i sospetti ma il séguito rimane nella luna. L’ufficio stampa Quodlibet s’informa presso l’intervistatore: l’hanno spostata al 25 novembre; rinascono i dubbi, più gravi; e quel mattino non ne appare nemmeno l’ombra. Interpellato dall’editore, il predetto racconta un’historiette: le risposte erano nello stile dei miei articoli, quindi «non adatte» all’intervista (mai uditi argomenti simili), sicché lui e il direttore hanno deciso di non pubblicarla; in graziosa vece propongono una recensione. Il verbo “proporre” suona equivoco: l’homo in fabula accondiscenda e sarà benvoluto; altrimenti sibila la frusta recensoria. Forse erano servizi alla Leopolda, i cui adepti temono le lame affilate. Secondo questo canone, l’intervista, genus letterario, è ammissibile in quanto vi coli broda tiepida. Non interessano le opinioni cliniche sulla storia recente d’un paese afflitto da qualche tabe ereditaria.
Tali i fatti, ed ecco l’opus svanito in mano ai maestri stilisti del «Venerdì» (ogni capoverso risponde a uno o più quesiti).
Divus Berlusco regnabat. Ottant’anni gli pesano addosso, senza contare le gaffes accumulate nel quarto di secolo, ma resta temibile. Nello schieramento referendario sceglie “no”: è mossa tattica non sappiamo quanto credibile; niente lo fa supporre rassegnato alla vecchiaia quieta. L’animale biblico Leviathan nuota sott’acqua, sornione, cacciatore inesorabile: inganna le prede; lo servono uccelli parassiti; apre le fauci e gli puliscono i denti mangiando i residui del pasto. Nel caso suo è lacuna utile non avere l’organo pensante, nonché quello dei giudizi morali: risparmia fatica e dubbi tormentosi; operazioni d’istinto gli riescono a meraviglia.
Le «larghe intese» erano l’obiettivo d’una politica quirinalesca d’impronta monarchica, tenacemente perseguìta. Sarebbe enorme la grazia pretesa dal pirata dopo «l’attentato alla democrazia» che la Corte ha perpetrato applicandogli le norme. Qualche cortigiano ventila «guerra civile» e lascia pochi dubbi la fulminea nota con cui il Quirinale manda lodi al condannato, chiedendo riforme giudiziarie.
L’attuale presidente sta agli antipodi del predecessore. Temporibus illis (giovedì 26 luglio 1990) s’era dimesso con quattro ministri quando l’impudente Andreotti poneva la fiducia sulla legge Mammì, intesa al profitto parassitario d’un Re Lanterna già padrone delle Camere, sebbene non avesse ancora identità politica.
I 101 voti tolti a Prodi nel coup de scène 19 aprile 2013 gonfiano d’euforia l’Olonese: «meno male che Giorgio c’è», canta al microfono e dal complotto notturno nasce un governo a due teste, presieduto da Letta junior, nipote del mellifluo plenipotenziario d’Arcore; il séguito sarebbe diverso se la parola contasse qualcosa nel conclave politicante.
Storia tenebrosa d’una prigionia. Il recluso era Aldo Moro, nel «carcere del popolo». L’hanno rapito le Brigate Rosse abbattendo i cinque della scorta, tamquam non esset. Al Viminale, sotto Francesco Cossiga, tiene banco la P2, ferocemente ostile al sequestrato, fautore d’una cauta apertura al PCI e presidente della Repubblica in pectore. Le messinscene poliziesche durano 55 giorni, incluso lo scandaglio d’un Lago della Duchessa. Dovevano salvarlo. Fallite le ricerche, trattino. Lo Stato non può, dicono rigoristi ignoranti del codice penale (art. 54, stato di necessità). L’introvabile scrive lettere disperatamente lucide, spiegando che delitto sia lasciarlo lì. «Non è più lui», dicono i santoni, nella cui favola il misteriosamente recluso è succubo dei terroristi; muoia com’erano morti i cinque della scorta. I brigatisti hanno l’occasione d’un colpo formidabile (lo suggeriva caritatevolmente Paolo VI), quale sarebbe restituirlo senza contropartite scatenando una crisi nel sistema, ma inviluppati in formule subintellettuali, non sanno risolversi; alla fine l’ammazzano con intuibile sollievo degli «imperialisti» contro cui declamano. Assente il cadavere, Tartufi sanguinari fingono lutto in San Giovanni. Hanno vinto, Andreotti, P2, Cossiga, il quale non cambia mestiere vergognandosi dell’inettitudine: nient’affatto, vola ad sidera; successore d’Andreotti in due governi, presiede il Senato e da Palazzo Madama sale al Quirinale; poi infesta le acque politiche, caso clinico e mina vagante. Che vita rimarrebbe al povero «irriconoscibile» se rapitori con la testa sul collo, senza disegni occulti, l’avessero liberato, guidandolo in salvo perché ormai incuteva paura agli pseudolegalisti eroi sulla pelle altrui? Vita cattiva, da homo sacer, esposto al malanimo pubblico. Eventi simili lasciano segni indelebili nel corpo sociale. L’Italia esce marchiata come paese infetto.
Che l’antiberlusconismo «non conduca da nessuna parte» e Sua Maestà d’Arcore sia idoneo al cursus honorum, era giaculatoria corrente nel Pd: Enrico Letta riteneva fattibile una «piccola legge» immunitaria che lo liberasse dalle rogne penali; Neapolitanus Rex s’era immischiato nell’invalido privilegio; e fin dalla XIII legislatura oligarchi postcomunisti garantivano Mediaset. Non s’è mai parlato sul serio del conflitto d’interessi. Enrico Letta difendeva con le unghie l’innaturale premiership costruita dal Colle sull’asse berlusconoide Pd-Pdl: l’unico possibile, salmodiavano cercatori d’ingaggio; la «ripresa» è dietro l’angolo ma svanisce se il governo cade (dopo quattro anni l’aspettiamo ancora). Reduce dal Golfo Persico, vantava 500 milioni lasciati cadere nel cappello dagli Emiri. In via Arenula custodiva i sigilli l’ex prefetto Anna Maria Cancellieri, cara al Colle e puntuale nel sostegno della famiglia Ligresti. Eventi esterni rompono l’immobilità verbosa.
Il fattore dirompente è l’uomo nuovo, la cui apparizione spariglia i conti: ha stravinto le primarie, infliggendo un avvilente 68% contro 18% alla vecchia guardia; la segreteria del partito era obiettivo preliminare; punta all’en plein quando siano riaperte le urne. I conoscitori lo descrivono animal politicum dalle rotte sicure: boy scout, campione d’un concorso televisivo (Canale 5), presidente della provincia, sindaco fiorentino. La mainmise sul Pd svela un cuculo rapace. Nelle immagini dagli schermi pedala bardato in bicicletta. Non incarna l’icona perfetta e volano sospetti ma i gerarchi sconfitti non offrono soluzioni raccomandabili. Ovvio che l’aborrano: è titolo a suo favore; avevano mani in pasta nelle «larghe intese». Va colpita l’immagine d’innovatore. L’offerta avvelenata è una premiership che l’abbindoli nel marasma: l’equivoca maggioranza gl’inibirebbe ogni serio tentativo; sono maestri nell’arte del tagliare teste. Napolitano spranga l’unica via negando lo scioglimento delle Camere: resti vivo l’esecutivo inerte; e loda chi lo presiede.
Lo sottovalutavano: in scena appare «veloce» (un Filippo Tommaso Marinetti senza insegna letteraria); è scaltro, insonne, famelico, ingordo, sicuro d’essere predestinato, molto pragmatico, pronto a muoversi in ogni verso. I suoi mondi mentali ignorano le ideologie. L’evanescente Letta apriva larghi spazi, ormai derelitto dal Quirinale, sicché una lieve spinta lo manda ai pesci. Agl’italiani piacciono i numeri da palcoscenico e i notabili Pd hanno poco appeal. Così ribalta le prospettive seminandosi un futuro nell’area postberlusconiana dalla quale l’adocchiano (gli elettori, non i gerarchi, spaventati dal concorrente). Nessuno lo supera come possibile erede del monarca logoro. Figura, gesti, parola, egotismi lo candidano al «partito nazionale». Saltano all’occhio due precedenti. Nella Roma medievale orfana del papa inscena mirabilia l’omonimo giovane notaio latinista, Nicola, abbreviato in Cola, figlio dell’oste Rienzi: s’è qualificato Spiritus Sancti miles, liberator Urbis, et cetera; sfoderata la spada in San Giovanni, taglia il mondo in tre fette, esclamando ogni volta «è mia» (1 agosto 1347). Ed è ancora giovane l’oratore imperioso Benito Mussolini, presidente del consiglio dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943. Non nominiamo Savonarola, il cui pathos tragico è assente nel fiorentino a Palazzo Chigi.
S’è identificato con l’Italia e racconta che la salus Rei publicae stia nel sì al referendum. Se il colpo gli riuscisse, sommando riforma costituzionale e Italicum o norme elettorali equivalenti avremmo in sella l’uomo che decide. Non è prospettiva consolante perché le sventure italiane dipendono da un malaffare economico nel quale l’eredità berlusconiana impedisce ogni serio intervento repressivo (vedi come lobbies industriose sabotino la raccolta delle prove).
p.s.
Sic stabant res domenica mattina 4 dicembre, quando gli uffici elettorali aprono le urne. Davano favorito l’uomo in sella: partito con un handicap, appariva irresistibile; aveva dalla sua organi influenti sull’opinione pubblica. Politici più o meno rusés scioglievano le riserve schierandosi. I conti notturni li deludono: quel referendum somigliava al gesto con cui l’omonimo notaio romano tagliava il mondo in tre fette aggiudicandosele; e lo sconfitto subisce la rovinosa percentuale che quattro anni fa aveva inflitto agli avversari nelle primarie. Stavolta è fallita l’ipnosi, ricorrente nella storia italiana. Bene ma l’orizzonte resta buio, data l’eterogenea motivazione dei «no»: vi figura l’Olonese; sbocceranno «larghe intese», i cui retroscena alimentano cronico illegalismo (vedi banche svaligiate et cetera); e finché la corruzione succhi miliardi, saremo bel paese depresso. L’unica terapia pensabile è un’effettiva legalità.