Scritture, pensieri, tracce

Giorgio Gaber ed io - di Domenico Monteleone

Una memoria, un sogno, un volo, una meta
sabato 9 luglio 2016.
 

Non c’è mai un motivo serio, valido, definito, un motivo accettabile razionalmente.

di Domenico Monteleone

Già, per abbandonare la strada sin li battuta e cercarne una nuova, diversa, avvolgente, contaggiosa, non c’è mai un motivo serio, valido, accettabile razionalmente. Se segui la ragione, è evidente che rimani lì, sulla strada asfaltata, su quella che stai percorrendo, su quella dove già sei avviato e marci speditamente.

Giorgio Gaber era, in quel periodo, uno dei personaggi più noti al grande pubblico, uno importante, uno di quelli in cui il pubblico identificatava la televisione.

Fama, successo, soldi: aveva tutto Giorgio Gaber. Aveva tutto ma quel tutto non era abbastanza.

Nessuno comprese quella sua intenzione di mollare la televisione e di fare altro, in realtà sembrava una burla, uno scherzo, al più poteva sembrare una provocazione, di quelle che fai per sentirti dire: "ma dai. Resta con noi, sei bravissimo, abbiamo bisogno di te, sei fondamentale".

E Giorgio Gaber, bravissimo e fondamentale lo era per davvero, era quella che si chiama una "icona", un divo con i suoi capelli lunghi, il suo naso smisuratamente ricurvo, quel suo incedere dinoccolato e, soprattutto, quella sua voce traboccante di armonici.

Non era abbastanza tutta la sua televisione ma, meglio dirlo, non aveva nessun vuoto, era già contento così, non aveva, insomma, nessun vuoto da dover riempire. Aveva, però, già deciso di cercare un altro approdo, si: un altro approdo.

Era un’idea che aveva maturato in silenzio, che era cresciuta in segreto e che adesso sentiva ben forte denrtro di Lui.

L’approdo che cercava e che aveva visto dentro di sè, nella sua immaginazione, nella sua capacità di progettare, era un nuovo tipo di teatro. Un teatro fatto certamente di spunti artistici, di canzoni, di trovate, ma era anche un teatro fatto di riflessione, di approfondimento, di ironia, di pensiero, un teatro diverso fatto di reale, metaforicamente datto di terra, di terriccio, di cielo, di fiori, di alito, di schizzi di saliva che escono mentri spari un acuto. Già, perchè sentiva che il pensiero stava cedendo il passo, stava arretrando, stava morendo.

Chi gli stava intorno non credette a questo progetto, di più: non credette che Lui, Giorgio Gaber, avrebbe mai percorso quella strada, quella strada così difficile, così improbabile, così irta di difficoltà.

È un colpo di testa si dissero - nascostamente da Lui - Ombretta Colli, la moglie, e Sandro Luporini, uno dei suoi migliori Amici.

Enzo Jannacci - che era opposto a Lui ma uguale a Lui e ne conosceva meglio la follia coattiva - non fece una piega: "finalmente, ha deciso dunque, me lo sarei atteso molto prima".

Come tutte le idee, però, non era ancora un’idea in quel momento, era un’ipotesi di idea, era una prospettiva, era un Sogno.

In parecchi tentarono di dissuaderlo, di farlo recedere da questo insano proposito: "perderai un sacco di soldi!" gli disse il più sciagutrato tra i suoi (non richiesti) consiglieri.

Ecco, quello dei soldi era l’argomento più convincente per farlo convincere definitivamente del contrario, per farlo perseverare nel suo progetto, nel suo sogno. Sai quanto gli importava, a Giorgio Gaber, dei soldi!? Ne aveva già a sufficienza e non aveva neanche tutte queste grandi esigenze, gli bastavano, una chitarra, quattro amici fidati e un po’ di cose ordinarie, quelle quotidiane.

Gli serviva il teatro, e gli serviva il teatro non per il teatro in sè, gli serviva perchè era la scusa per incontrare, per parlare, per vedere, per ragionarci sopra, per pensare, per fare qualcosa, per pensare di poter fare qualcosa, per limitare la scomparsa del pensiero. Non gli serviva altro, non andava nemmeno tanto volentieri in vacanza, per esempio.

Le prove non furono solo le prove, furono anche i passaggi, i momenti, i tanti momenti necessari per convincere quelli che stavano con Lui, che aveva voluto con sè in questo progetto.

Già, bisognava anche convincerli che l’operazione era fattibile, che la prospettiva era buona, che il sogno era realizzabile.

Bisognava convincerli che non si stava andando a sbattare contro un muro.

Le prove servirono, in verità, anche per cambiare i momenti, gli spunti, le cose dello spettacolo, perchè di spettacolo si trattava e come tale doveva pur essere pensato per incontrare i gusti e le aspettative di un pubblico. Le prove cambiarono tutto ma - sostanzialmente - non cambiarono niente. Era rimasta l’idea iniziale, quella che non era ancora idea all’inizio. Era rimato il Suo approdo, l’approdo di Giorgio Gaber, e questo approdo aveva anche un nome preciso, era il Teatro Canzone.

Gli inizi, come tutti gli inizi, non furono granchè: praticamente - a parte pochissimi amici curiosi e qualche maestranza - non c’era nessuno.

In queste occasioni, la prima sera (ma anche quelle appena successive) si può tirare fuori la scusa che "ci serve per rodarci" o che "lo facciamo per noi".

Poi però, poi, se non c’è pubblico (e sevono i soldi per andare avanti) qualche domanda bisognerà pur farsela ma Lui, Giorgio Gaber, non era ben predisposto a farsi domande su quell’argomento, rifiutava di farsele, punto e basta. "Quanti spettatori stasera?" fu la domanda che la moglie Ombretta Colli fece a Sandro Luporini dopo qualche altra replica andata pressochè deserta.

"Sette, no aspetta, uno sta uscendo, sei!" la risposta. "Beh, bisognerà chiamare in Rai e dire che Giorgio vuole tornare, Gli devi dire che è arrivata l’ora di tirare le somme, di chiudere questa parentesi, sperando che in Rai ..." non chiuse nemmeno la frase Ombretta perchè chiuse il telefono. Allora si usavano quelli a cornetta e il "click" era ancor più netto, deciso, decisivo.

Sandro Lo raggiunse mentre era nella Sua classica posizione: seduto su uno sgabello con le spalle un po’ ricurve in avanti, i gomiti poggiati sulle ginocchia e la sigaretta tra le prime due dita.

Si girò leggermente verso Sandro Luporini appena lo vide mentre una nuvola di fumo uscì in maniera automatica dalla Sua bocca.

"Giorgio, le abbiamo provate tutte, abbiamo anche provato ad invitare alcuni giornalisti ma, niente, non c’è nessuno neanche stasera."

"Nessuno, eh?" e fuori un’altra nuvola di intenso fumo grigio.

"Nessuno, forse abbiamo sbagliato strada" "Sbagliato strada, eh?"

"Si, bisogna tornare indietro, domani mattina io e Ombretta chiameremo il Direttore e vediamo di fare un grande rientro in Rai. Quelli Ti prendono subito ad occhi chiusi, Raffaele Pisu è bravo ma Tu hai un altro effetto sul pubblico" "Sul pubblico televisivo!?" replicò al di là della solita nuvola di fumo e lo sguardo di chi sta dicendo una ovvietà. Sandro Luporini comprese che quella non era affatto un’ovvietà, era una cosa alla Gaber, era una cosa alla Gaber nel senso del Gaber che sarebbe esistito tra venti o trent’anni, del Gaber che, però, non avrebbe mai visto la luce perchè "il sogno si era rattrapito" e chi lo aveva rattrappito, chi ne aveva la colpa, era chi non era venuto ai suoi spettacoli, chi non aveva creduto a ciò che stava proponendo, chi era rimasto a casa a vedere la televisione. Ed ora, era proprio Lui, Sandro Luporini, che stava cercando di assestare il colpo definitivo, il colpo di grazia al Sogno già rattrappito.

Giorgio aspirò con forza una ennesima boccata di fumo, aspirò come se quella boccata di fumo Gli consentisse di fermare il tempo, di spaccare la storia in due parti, di guadagnare un tempo senza tempo nel cui spazio potesse trovare la serenità per pensare, per pensare senza le stronzate (tutte giuste) che Gli stava dicendo Sandro Luporini, le preoccupazioni devianti (tutte giuste) con cui lo aveva mitragliato negli ultimi giorni Ombretta Colli, la Moglie.

Non c’era alternativa, l’unica via possibile era quella di fare dietrofront e di tornare indietro, indietro tutta, di abbandonare il Sogno e di tornare verso la realtà, una realtà che, però, nel frattempo aveva anche perso per Lui ogni significato.

Lui, Giorgio Gaber, guardò allora dentro di sè, guardò con grande sincerità e trovò il Sogno da una parte e la realtà, la dura realtà, dall’altra, una realtà che aveva ceduto le armi alla ragione che aveva preso il sopravvento su tutto, anche sui Suoi compagni di viaggio.

Tutto remava nella direzione dell’abbandono, della ritorno sui propri passi, la ragione indicava, infatti, una sola possibile via, la ragione indicava la resa.

Lui, Giorgio gaber, però, guardò la realtà e - con gli stessi occhi - guardò il Sogno, guardò ancora la realtà e poi il Sogno, ancora la realtà e ancora il Sogno, la realtà ed il Sogno, come fossero le ideali estremità di un pendolo. Fu un attimo, un momento, fu un attimo lunghissimo, Gli passò davanti tutta la Sua Vita, tutto il Suo modo di essere, tutta la Sua forza, fu un attimo di quelli che capitano pochissime volte nella vita, un attimo composto da tanti attimi che si sovrappongono in quello stesso attimo, un attimo dove il sorriso di una donna si sovrappone alla sensazione, quella che senti alla fine dell’adolescenza, quella che ti fa credere di avere tutto il mondo per possibilità.

Fu un attimo, ma in quell’attimo, Lui, Giorgio Gaber, tra questi due spettri, tra queste due estremità, tra queste due antitesi, decise di dare ragione ad una ed una soltanto: decise di dare ragione al Sogno.

Decise che tra la rassicurante realtà e il fuoco del Sogno doveva, senza dubbio alcuno, avere ragione il Sogno. E diede ragione al Sogno, si, al Sogno!

Ed il Sogno nel tempo si realizzò: Giorgio Gaber riempì tutti i Teatri e riempì anche quel Teatro dove ognuno di Noi può continuarlo ad immaginare, può sentirlo ancora lì, chiatarra in mano e camicia bianca tutta sudata. Ed è abbastanza facile intuire che fu così che nacque il Teatro Canzone, fu così che fece quel che voleva fare, che cambiò la Sua Vita, fu così che cambiò la Storia del Teatro italiano, fu così che cambiò la vita di tanti attori, di tanti artisti teatrali e teatranti, fu così che cambiò anche la mia Vita.

Ed è abbastanza facile comprendere che tutto questo, forse, non è mai avvenuto veramente o, forse, è avvenuto effettivamente solo in qualche parte recondita e nascosta della Sua prodogiosa e feconda Mente, nella Mente di Giorgio Gaber.

Ed è abbastanza facile comprendere che in questa storia ci siamo tutti Noi, un po’ Gaber, un po’ qualcun altro, un qualcuno che ha bisogno di guardare alla Vita e di trovare e scrivere ciò che quelli come Gaber, magari per pudore, non hanno mai voluto dire o, ancor più diffusamente, di trovare e di scrivere tutto ciò che quelli - come tutti Noi Gente Comune - non abbiamo mai voluto o, meglio, mai saputo effettivamente pensare.

Ed è abbastanza facile comprendere che "la felicità è una farfalla che ti si posa un attimo sulla testa e ti rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza."

Domenico Monteleone


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