Ieri ho visto almeno quattro anime alla manifestazione di Roma per la giustizia. C’era la società civile, composta, consapevole, solidale, reattiva. C’era Beppe Grillo, col suo copione di scena, riciclato e ripetitivo. C’era Antonio Di Pietro, politico, che ha definito mafioso il silenzio, quando occorre parlare. C’era la stampa, infine, pronta a selezionare, con successiva lavorazione, del materiale buono a squalificare l’evento.
Nella società civile c’erano Salvatore Borsellino, che ha esortato a resistere e lottare. C’era Sonia Alfano, a testimoniare la necessità d’un impegno civile costante. C’era Serenetta Monti, operativa, interattiva, rigorosa nell’enunciazione. C’erano i familiari di vittime della mafia, con le loro storie drammatiche e la voglia di rappresentarsi come Stato; da non confondere con certo potere immobile sulle emergenze e arrogante innanzi alla legge. C’era Pancho Pardi, a ribadire il significato autentico della parola "libertà". C’erano Carlo Vulpio e Marco Travaglio, a riferire fatti, il che è precisamente il primo obbligo dei giornalisti. C’eravamo Saverio Alessio e io, a denunciare l’abbandono della Calabria e il dominio delle coscienze attraverso i sistemi affaristici emersi nell’inchiesta Why not. C’era la piazza, fatta di persone comuni, di associazioni, movimenti, pensionati, giovani, lavoratori. Teste informate e pensanti.
C’era un problema serio, a motivo della convocazione in piazza, e cioè l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. "Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge" (articolo 25 della Costituzione repubblicana) e nessuno può sottrarsi all’iter della giustizia, approfittando di posizioni di potere. Nessuno.
Rientrava, nella civile protesta civile di Piazza Farnese, la sospensione del procuratore capo di Salerno, Luigi Apicella. Ancora, vi rientravano i provvedimenti disciplinari in capo ai magistrati che, per dovere costituzionale, hanno cercato la verità sui fondi concessi per lo sviluppo della Calabria, scomparsi, e su presunti ostacoli agli accertamenti. Ostacoli che Luigi De Magistris, già titolare di Why not, denunciò come interni alla Procura di Catanzaro, cui apparteneva.
L’effettiva destinazione dei fondi europei è l’oggetto di Why not, la scottante inchiesta giudiziaria sottratta a De Magistris con l’iscrizione, tra gli indagati, dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella.
Il resto è cosa nota a chi si documenta: l’invenzione dei media d’una guerra fra le procure di Salerno e Catanzaro, la disinformazione della stampa grossa e la conferma, da parte del Tribunale del Riesame di Salerno, della legittimità del "decretone" firmato da Apicella; in cui, per magistrati e politici di Catanzaro, sono ipotizzati reati gravissimi.
Questa realtà e la questione centrale - che riguarda, come ricordato, la sottrazione di fondi europei per lo sviluppo della Calabria, regione senza servizi dominata dalla ’ndrangheta e dal clientelismo politico -, sono state sapientemente adombrate. Grazie a un confronto politico in tv caratterizzato da atteggiamenti da spettacolo, slogan e chiacchiere di palazzo. Grazie alla mancanza di senso critico di buona parte della stampa, che ha tradito la propria missione, assoggettandosi all’imperio della lobby dei più forti. Grazie, come sempre, all’oscuramento dei governati, che, non essendo in parlamento, non hanno diritto di parola, nell’italietta dei furbi e dei tronisti.
Per questo motivo, la società civile è scesa in piazza. Per raccontare la situazione, per respingere semplificazioni e mistificazioni della politica, dell’informazione. Per questa ragione, a Roma sono arrivate coscienze civili da Messina, da Pordenone, da Cagliari, dalla Calabria e da altre località italiane. Perfino dalla Svizzera e dalla Francia.
Ho visto il collega napoletano Gianluca, ho visto gli instancabili ragazzi di Energia Messinese, ho visto Emanuela, che continua a sperare; ho visto Teresa, che ha preso un giorno di permesso per partecipare. Ho visto redattori di Antimafia 2000, ho visto Susanna, che è venuta dal Nord, ho visto Francesco, che m’ha ricordato Andrea Parodi. Ho visto Emilio, giornalista che pubblicherà la sua tesi su Kierkegaard. Ho visto amici di Pino Masciari. Ho visto Nino, che denuncia quotidianamente il malaffare in Calabria, ho visto Orfeo, che crede nelle "piccole azioni positive". Ho visto Bartolo, che ironizza sui guai, Giuseppe, cugino di Francesco Fortugno, e l’onnipresente Raffaele. Ho visto gli inamovibili Chicco e Jessica e tantissimi altri, di cui sono amico pure su Facebook.
Di questo assieme di idealità e responsabilità civili, di saperi, giudizi critici e storie individuali, di questo popolo capace di esprimere pensiero e azione concreti, la stampa non ha tenuto conto. Ci ha censurati, ci ha degradati a cosa eversiva, il che è in primo luogo una contraddizione di termini.
Il giorno dopo Piazza Farnese non ho letto una sola riga sui giornali, circa i contenuti che la società civile, artefice della manifestazione, ha dato con le sue voci, rappresentative d’un movimento variegato, unito dalla necessità di giustizia certa e democrazia vera.
Quotidiani e tg hanno attribuito l’iniziativa all’Italia dei Valori, hanno enfatizzato una frase di Di Pietro, che ha detto: "Napolitano ci sembra poco arbitro". Da qui, hanno dedotto una grave offesa al presidente della Repubblica, ché nel Belpaese ancora non è lecito esprimere opinioni sul comportamento delle istituzioni. E la politica, a ruota, ha tacciato di eversività l’autore della proposizione e l’intera piazza. Da Grillo, che seguita ad argomentare il dramma nazionale con "Psiconano", "Topo Gigio", "i-Pod nano" e la prospettiva delle energie rinnovabili e d’una "descrescita serena", la stampa ha ricavato il qualunquismo dell’intera manifestazione. In cui la società civile ha chiarito, ancora una volta annullata e delegittimata dai giornalisti, che il popolo è sovrano, è portatore di diritti, come sancito dalla Costituzione.
Gli stessi motivi dell’assenza di "Ammazzateci tutti" e "Casa della Legalità" a Roma, articolati sui rispettivi siti, ribadiscono comunque le priorità del Paese: legalità e giustizia.
Beppe Grillo, poteva anche ascoltare gli argomenti esposti dalla base, riverberandone i messaggi essenziali. La stampa avrebbe dovuto tacere, e sarebbe stato inaccettabile, o riportare. Invece, Grillo ha ridotto il problema della legalità a vecchi e comici nomignoli affibbiati a potenti; ha ridotto la questione dell’ingegneria sociale a numero, lamentando, dietro il palco, che bisognava essere in 40.000; poi ripetendolo al quotidiano "il manifesto". Ha poi dichiarato alla stampa, bombardato di fotografie e pubblicità, che oggi bisogna parlare di economia, perché è questo ciò che interessa. Allora, gli ricordo che la rivoluzione deve essere morale e culturale, come diceva Paolo Borsellino. E gli rammento che questo è un processo lento, per cui si deve attendere, e intanto informare, ragionare, incontrare. Gli ricordo che una signora che ha cervello, Loretta Napoleoni, nel suo libro Economia canaglia ha spiegato perché ci troviamo nel disastro. Se non si capisce che dietro ci sono le mafie, e che le mafie non sono soltanto lo spettacolo dell’orrore mostrato nelle fiction, non si può estirpare il male dalla radice, non si può cambiare il mondo.
Le mafie italiane fatturano, secondo le stime accreditate, 130 miliardi di euro all’anno. E i loro beni sequestrati hanno un valore di 1000 miliardi di euro. Che poi non si vendano e lo Stato non riprenda ciò che gli appartiene è un discorso più scomodo e pesante, caro Grillo, della storia ignobile di "Topo gigio" e, per citare "Alan Ford", "AntenMan". Davvero vogliamo credere che le mafie sono altra roba dalle lobby della politica e dell’economia? Davvero facciamo passare questo messaggio? Davvero dobbiamo tacere sulle connessioni e le collusioni? E la storia di Catanzaro, sotto quale specie ricade? E la vicenda di "Europaradiso" a Crotone? Non s’è forse ricordata in Piazza Farnese, SuperBeppe? Lì c’era un certo Salvatore Aracri, secondo il pm Pierpaolo Bruni vicino all’armatissima cosca dei Russelli, di base a Papanice (Crotone), capace, per il magistrato, di condizionare il consiglio comunale di Crotone e alti vertici dei palazzi nazionali ed europei. Allo scopo di ottenere i permessi e i fondi pubblici necessari a edificare un immenso villaggio turistico proposto dal miliardario israeliano David Appel, già sotto accusa, in Grecia, per una grossa faccenda che riguardava pure Ariel Sharon.
Ti ricordo, Beppe, che nelle complesse vicende di Catanzaro ci sono in mezzo, secondo la magistratura, il vicepresidente dell’autorità garante della Privacy, Giuseppe Chiaravalloti, e un membro della commissione parlamentare Giustizia, l’onorevole Giancarlo Pittelli. Su di loro si pronuncerà la giustizia.
A me fa molta rabbia che la Calabria sia uscita di scena, a Piazza Farnese. Mi fa rabbia perché, con umiltà e senza guardare a numeri e riflettori, Saverio Alessio e io, che siamo nessuno e non abbiamo appartenenze partitiche, continuiamo a spiegare il perché dello spopolamento della nostra regione, della sparizione della società civile calabrese. E per questo passiamo per esaltati. Mi fa rabbia perché diciamo che il caso calabrese è il caso dell’Italia tutta, e non abbiamo sostegno, se non dalle voci dell’antimafia civile e da pochi coraggiosi parlamentari. Mi fa rabbia perché la nostra terra, povera e disgraziata, è in questo momento terra d’affari, lo ha dimostrato Why not, e indifferenza disumana. Mi fa rabbia perché il popolo di Piazza Farnese, come quello della manifestazione a Cosenza dopo l’avocazione delle indagini di Why not, ha compreso la situazione e, con la sua partecipazione alla causa della giustizia, ha ugualmente aderito alla causa calabrese. Dalla morte di Fortugno non è cambiato nulla in Calabria. La dipendenza delle masse dalla politica zittisce la società. La televisione del "Grande fratello" l’addormenta. E noi, da calabresi e italiani, possiamo assistere serafici allo sfacelo, alle semplificazioni e alle strumentalizzazioni di chi potrebbe aggregare o fare luce?
Nel 2007, con lo sfortunatissimo libro "La società sparente", lanciammo un allarme dalla Calabria, dove per Natale spariscono, e non se ne ha più notizia, giovani corrieri della droga. Sono i ragazzi che non hanno alternativa; che per guadagnare si affiliano alla ’ndrangheta, piuttosto che allo Stato. Così come spariscono, e per sempre, migliaia di giovani che hanno studiato e non tornano più in Calabria. Il 60,5% degli occupati fra i laureati calabresi tra il 2001 e il 2004, dato Svimez, lavora fuori. Questi non sono processi e fenomeni che, unitamente all’assistenzialismo devastante perpetuato da chi comanda, garantiscono alla ’ndrangheta la gestione del territorio e la realizzazione di enormi progetti d’affari coi poteri occulti? Quale reazione, in un contesto simile? Vogliamo, SuperBeppe, interrogarci? E perché, tu, noi, gli altri, i familiari di vittime della mafia e moltissimi ancora, siamo scesi in Piazza Farnese? Vogliamo ripetercelo che anche questo è Sud? Mi risponderai, stavolta? Possiamo cambiare linguaggio e organizzare una reazione civile su programmi e obiettivi, continuando assieme a informare come Dio comanda? Vogliamo costruire realmente dal basso? Abbiamo la capacità di comprendere la necessità di rimanere uniti, per evitare altre vittime e perdite? Possiamo imparare da Piazza Farnese e coordinarci, incontrarci tutti, mantenere alto il livello di vigilanza? Possiamo dare impulso, di là dai numeri - che comunque a Piazza Farnese erano notevoli, per una manifestazione organizzata in rete e in pochi giorni -, a un’alternativa civica e civile?
Domani chiuderà "la Voce di Fiore", il laboratorio culturale antimafia a cui abbiamo dedicato tempo degli amici calabresi emigrati, Saverio e io. Non abbiamo raggiunto l’obiettivo minimo di sopravvivenza, ma faremo ugualmente un’iniziativa per la nostra terra e proseguiremo altrimenti nell’impegno in cui crediamo. La risposta di chi ci ha sostenuto e Piazza Farnese sono argomenti più che validi. Per proseguire dal basso.
Emiliano Morrone
COSTITUZIONE (ART. 87): IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E’ IL CAPO DELLO STATO E RAPPRESENTA L’UNITA’ NAZIONALE..... L’ ITALIA!!!
ALL’ITALIA E PER L’ITALIA. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, SE NON "DORME" E NON SI E’ FATTO ESPROPRIARE DELLA SUA PAROLA, PROVI A GRIDARE DAL QUIRINALE: FORZA ITALIA!!!, COME E CON IL PRESIDENTE PERTINI. Un appello contro l’indecenza
’FATTORIA ITALIA’. LA SCRITTA SUL CANCELLO D’ENTRATA: ’POPOLO DELLA LIBERTà’. La forma della Repubblica è cambiata nell’aula del senato alle 20 in punto del 22 luglio, 171 sì 128 no e 6 astensioni al lodo Alfano.... e il Presidente della Repubblica continua ad esortare: "Forza Italia!!!
LE "BUGIE" DI MASSIMO GIANNINI E LA "VERITA’" DI BERLUSCONI: "FORZA ITALIA", "IL PRESIDENTE SONO IO"!!! Questo il problema, e non viceversa
L’allarmante caso Di Pietro
di FABRIZIO RONDOLINO (La Stampa, 30/1/2009)
L’uragano che si è scatenato su Di Pietro induce ad una riflessione sullo stato della libertà nel nostro Paese. Non c’è giornale, gruppo politico, sito Internet o commentatore che non si sia scagliato con furia contro l’ex Pm più famoso d’Italia: e non per controbattere l’opinione sul presunto «silenzio» del Quirinale, ma per negarne la legittimità, la possibilità stessa di esistere. Mezzo Pd ha chiesto di rompere ogni rapporto con l’Italia dei Valori, tutti i senatori della Repubblica sono scattati in piedi per applaudire la loro «convinta solidarietà» a Napolitano, il presidente emerito Scalfaro ha segnalato l’esistenza di un reato. E lo stesso Quirinale, con un comunicato che ha pochi precedenti, ha giudicato «pretestuose» e «offensive» le parole di Di Pietro.
Quelle parole sono probabilmente sbagliate, ma non sono né arbitrarie né insultanti: appartengono al dibattito politico. Ci sono molto buoni argomenti e una notevole documentazione per sostenere che il presidente Napolitano sulle questioni della giustizia non è venuto meno al suo ruolo costituzionale di arbitro, e che il suo presunto «silenzio» non è affatto assimilabile a un comportamento mafioso. Le opinioni sollecitano controargomentazioni: non comunicati di solidarietà, ritorsioni politiche o denunce alla magistratura.
Il caso Di Pietro è tanto più allarmante, in quanto non è isolato. Il capitano della Nazionale, Fabio Cannavaro, per aver detto che Gomorra (il film) «non gioverà all’immagine dell’Italia nel mondo, abbiamo già tante etichette negative», è stato accusato di colludere con la camorra, e più d’uno ha chiesto che gli sia tolta la fascia di capitano. Su Facebook, il network sociale più popolare di Internet, è in corso una campagna per cancellare quei gruppi di discussione che si proclamano fan dei mafiosi e, più recentemente, quelli che inneggiano allo stupro di gruppo.
Sono opinioni abominevoli, ma sono opinioni. Questo confine non va mai cancellato. Un conto è sostenere cha la Shoah non è mai esistita, e un conto è bruciare una sinagoga. Un conto è chiedere che i rom siano cacciati, e un conto è assaltare i loro campi. È evidente che c’è un nesso fra le parole e le azioni: altrimenti, perché mai dovremmo parlare o scrivere? Il concetto stesso di educazione si basa sulla convinzione che le parole producano risultati. Ma spetta singolarmente a ciascuno di noi compiere o meno un’azione, e assumersene la responsabilità. Alle parole si può rispondere soltanto con altre parole.
Se ci pensiamo, l’unica vera libertà che ci appartiene come diritto naturale, e che definisce il nostro orizzonte nel mondo, è la libertà di esprimerci: è cioè la libertà di pensiero, di stampa, di coscienza, di religione, di ricerca scientifica... Tutte le nostre attività, che sia scrivere una canzone o andare in chiesa, votare alle elezioni o comprare un giornale, trovare un rimedio all’Alzheimer o scegliere una compagnia telefonica, hanno a che fare in un modo o nell’altro con la libertà di espressione. Poter dire la nostra, senza costrizioni né vincoli, è dunque il bene più prezioso. Se introduciamo un qualsiasi criterio per giudicare quali opinioni si possono esprimere e quali no, in quello stesso momento deleghiamo ad altri, fosse pure una maggioranza democraticamente eletta, la nostra personale libertà di espressione, che è invece inalienabile perché è soltanto nostra, come la vita. Chi può decidere che cosa è lecito dire e che cosa non lo è? Mentre è evidente che ammazzare un uomo per strada è un reato, è molto meno evidente la linea che separa un fan club dei Soprano da un fan club di Riina: in realtà, se ci pensiamo bene, questa differenza non c’è. Sta alla responsabilità di ciascuno capire che una cosa è un telefilm, una cosa è scrivere corbellerie su un capomafia pluriomicida, e un’altra cosa ancora è sparare.
La libertà di espressione è indivisibile. Tutti dovrebbero poter esprimere liberamente le loro opinioni. Soprattutto le più ributtanti. Mentre infatti la censura nasconde il problema e in questo modo sceglie di non risolverlo, un dibattito libero e aperto non esclude la possibilità di convincere chi non la pensa come noi.