LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA -- IL SERPENTE DI BRONZO: MICHELANGELO, WARBURG, E UN ANAGRAMMA:
CRUCIVERBA ed ENIGMISTICA.
"Dal metodo non nasce niente": un omaggio a Edipo, "Il mancino zoppo" (Michel Serres)
Pur sapendo a quali "pericoli" ("So benissimo...") andava incontro, il prof. Polito, ha aggiunto CORAGGIOSAMENTE al "mosaico sempre in fieri" (vale a dire, in cammino!) una "tessera" e, pur sapendo di ERMETE TRISMEGISTO, ha aperto - SENZA VOLERLO - non solo (come ha fatto alla fine dell’articolo) la porta della CATTEDRALE DI SIENA, ma anche la porta della CAPPELLA SISTINA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195)!!!
CON un semplice ANAGRAMMA ("Serpente? Presente!": http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) ha sollecitato a riconsiderare e a riguardare tutte le tessere del MOSAICO. A questo punto, però, non è più solo un "gioco di parole"! Ora, non si sono solo Apollo, Pitone, le Sibille, e le Muse, c’è anche MOSÈ e MICHELANGELO - e FREUD ("L’uomo Mosè e la religione monoteistica": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829).
C’è il richiamo a tutto l’immaginario biblico e, in particolare, alla interpretazione di Michelangelo della vicenda del SERPENTE DI BRONZO, racchiuso nel "pennacchio" della Volta della Cappella Sistina - https://it.wikipedia.org/wiki/Serpente_di_bronzo_(Michelangelo): il richiamo a un ALTRO serpente, "all’amico serpente" - "al sulfureo amico" -"all’amico ritrovato"!!!
ENIGMI: CRUCI-VERBA!!! A MEMORIA, e ad evitare EQUIVOCI, è BENE ricordare che i "verba volant"!!! Se, e solo se, le parole, i "VERBA" sono agganciati alla croce ("CRUCI"), al "palo", al "bastone" - alla "colonna vertebrale" della propria persona, diventano "scripta", parole scritte, parole degne di essere ricordate - scrittura, Scrittura!!! Altrimenti, sono solo parole al vento di serpenti impazziti - in un mare di sabbia!!!
Federico La Sala
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Aby Warburg
Il rituale del serpente
Una relazione di viaggio *
Aby Warburg è stato forse l’uomo che più ha influenzato, in questo secolo, la nostra visione della storia dell’arte. Attraverso i suoi studi egli ha indicato la via che consente di ritrovare nelle arti figurative la concrezione di una intera civiltà, con tutte le sue oscure tensioni psichiche. Ma lo stesso Warburg, mentre sviluppava la sua opera grandiosa, era periodicamente colpito da crisi nervose, che lo obbligavano a prolungati soggiorni in clinica.
Nel 1923, al termine di uno di questi soggiorni, per dimostrare la propria guarigione, egli tenne ai pazienti e ai medici della casa di cura di Kreuzlingen un «discorso d’addio» - la celebre conferenza sul Rituale del serpente, apparsa poi nel 1939 sul «Journal» del Warburg Institute con una pudibonda nota che la diceva pronunciata per la prima volta «davanti a un pubblico non specialistico». Di fatto, quel discorso era insieme una confessione e un testamento.
In poche pagine, prendendo spunto da una sua spedizione presso gli indiani Pueblo, Warburg risale alle origini del paganesimo e della magia. E illumina il potere stesso - innanzitutto psichico - delle immagini, il loro potere di ferire e di guarire, stabilendo così un circuito fulmineo fra il serpente dell’arcaico rito dei Pueblo e quello che Mosè invitava a innalzare nel deserto.
Per comprendere un testo fondamentale come Il rituale del serpente occorre considerarne in ogni dettaglio la genesi e le allusioni: compito che qui assolve il prezioso saggio di Ulrich Raulff.
* SCHEDA EDITORIALE: ADELPHI (Risvolto - copertina).
L’antropologo Warburg e la vendetta degli indiani Hopi
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, 16 luglio 2014)
Nel febbraio di quest’anno [16 luglio 2014, fls] era prevista a Boudler, nel Museo d’arte dell’Università del Colorado, una mostra di studio sul viaggio nel Sud-Ovest americano di Aby Warburg tra il 1895 e il 1896. Il titolo suonava così: «Incontrando culture: il viaggio di Aby Warburg nel Sud-Ovest americano».
Ma questa mostra non ha mai visto la luce, e la notizia rimbalza da noi grazie al mensile «Il giornale dell’arte» che nel numero in edicola spiega, con un lungo articolo di Davide Stimilli, docente in Colorado e cocuratore dell’esposizione, le ragioni per cui non si è fatta, sebbene già dall’ottobre scorso fossero arrivati dal Warburg Institute di Londra tutti i materiali della mostra.
Come vedremo, le ragioni si radicano in una oggi più che mai accesa disputa fra colonizzatori e colonizzati (spesso depredati o sterminati), così che i Paesi ex coloniali si vedono ogni tanto presentare il conto dalle vittime, nei modi più vari: dalla restituzione dei beni o le reliquie loro sottratti (vedi il caso dei Maori), alla richiesta di un risarcimento morale per la violazione delle loro tradizioni e delle loro credenze religiose.
Chi era Warburg? Morto nel 1929, rampollo di una famiglia di banchieri tedeschi di origine ebraica, fu uno dei grandi storici delle immagini a cavallo tra Otto e Novecento, che con le sue ricerche aprì la strada a quella che oggi molti conoscono col nome di «iconologia », una disciplina che lui non teorizzò mai (qualcuno, per questo, l’ha anche definita una «disciplina senza nome»), che ha trovato un assetto teorico grazie a un altro storico dell’arte tedesco, Erwin Panofsky, il quale peraltro ha forzato molto la mano a Warburg, attribuendo al suo metodo di studio una sistematicità che non ebbe mai. Warburg fu uno sciamano delle immagini, un rabdomante che si faceva guidare da fluidi mentali che, forse, presero anche una direzione visionaria a causa della instabilità psicologiche dello studioso (come si dice in questi casi: il sintomo del genio saturnino). A Panofsky Warburg avrebbe potuto rispondere: la méthode c’est moi, il metodo sono io, e lo dimostra il suo grande progetto incompiuto, l’atlante delle immagini Mnemosyne.
Che ci faceva Warburg nel Sud-Ovest americano? Quello che facevano molti altri intellettuali come lui dotati di una formazione da antropologi, che spaziavano dalla filosofia all’arte, dall’antropologia alla religione: guardavano le altre culture con una mentalità per così dire eurocentrica. Oggi l’incontro delle culture sembra quasi una trita ovvietà dopo decenni di martellante discussione sui diritti dell’altro.
Il martello batte dove il dente duole? L’Occidente, sia pure in posizione dominante, ha da tempo capito di essere uno dei mondi possibili fra i tanti che si affrontano nella globalizzazione: parlare dell’altro, difenderne le specificità, considerare il dialogo come un ragionare ponendosi dalla parte dell’interlocutore, fino a farsi paladini della sua diversità rispetto alla nostra (diversità), è una sapiente, quanto necessaria, forma retorica per tenere il punto.
E qual è il punto? Il punto è che dietro la filosofia dell’altro, nella propaganda geopolitica si celano spesso nuove forme di colonialismo. Nel momento in cui ci s’impanca difensori dei diritti dell’altro, in qualche modo si dice che noi glieli riconosciamo. È una sottile prevaricazione, che può riservare brutte sorprese.
La mostra dell’Università di Boulder (una ridente cittadina di circa centomila abitanti, posta a 1.700 metri sopra il livello del mare, all’incrocio tra le Montagne Rocciose e le Grandi pianure), è una di queste docce fredde che il mondo occidentale - democratico, pari opportunità, politicamente corretto, e chi ne più ne metta -, subisce quando tenta di spacciare come neutrale operazione di studio qualcosa che è ancora materia di «scuse» quasi mai ricevute dalle vittime di un colonialismo che ha derubato i popoli sottomessi anche della loro cultura e della loro storia.
Wole Soyinka, in un suo saggio breve, ma durissimo sulla questione della riconciliazione in Sudafrica, ricordava che la violenza maggiore sui popoli colonizzati non furono quelle fisiche e morali sui singoli (con orrori imperdonabili), ma quelle che depredarono la memoria di quei popoli e le loro testimonianze culturali. Restituiteci l’identità che ci avete rubato, diceva Soyinka. Intendeva: lasciate che siamo noi a chiedervi giustizia, non siete voi che ce la rendete, ma noi che la pretendiamo. Qualcosa del genere ascoltai qualche anno fa a Mantova anche dalla bocca del grande Edouard Glissant.
Warburg, che era arrivato alla fine del 1895 a New York per partecipare al matrimonio del fratello, disgustato da quella società opulenta aveva deciso di spingersi verso l’Ovest, in quella terra mitica abitata da tribù indiane come quella degli Hopi. Questa esperienza di Warburg si compie - scrive Stimilli - nel «groviglio straordinario di progresso e arcaicità che è la storia degli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento». E Warburg? Warburg era guidato dall’interesse per un rituale degli Hopi: quello del serpente, che era per lui l’occasione di comparare il paganesimo originario della Grecia arcaica verificandolo de visu su una «sopravvivenza» attuale (lasciamo stare, qui, l’errore sostanziale di questo comparatismo diacronico).
Come si comporta Warburg con gli Hopi? Come gli antropologi depositari di una mentalità coloniale: preleva, senza troppe remore, i loro oggetti, i loro simboli, persino la loro immagine attraverso la fotografia.
Stimili ricorda che gli Hopi, una tribù indiana dei Pueblos, erano spaventati dalla macchina fotografica, perché credevano che potesse rubare loro l’anima. Così non erano contenti di essere fotografati, mentre Warburg, nota Stimilli analizzando una foto celebre, dà prova di una certa violenza costringendo l’indiano a starsene fermo accanto a lui mentre lo tiene per un braccio perché, evidentemente, era restio a farsi fotografare.
Ed è proprio questa la ragione per cui la mostra è saltata: alcuni docenti all’Università del Colorado, appartenenti alle diverse tribù indiane, si sono opposti all’intenzione degli organizzatori di esporre materiali che ancora oggi creano problemi morali e spirituali agli eredi degli indigeni di un secolo fa.
Il Museo, intimorito dalle promesse di boicottaggio e dalle polemiche sui giornali, ha abbandonato il progetto. Se lo stesso caso si fosse verificato in Europa forse gli organizzatori avrebbero tenuto duro, giustificando tutta l’operazione come un modo per capire e rendere le scuse alle vittime di quella mentalità: è l’obiezione implicita nel discorso di Stimilli; ma, appunto, è in America che si svolge questa storia, dove la violazione delle nuove convenzioni linguistiche ed etiche nel rapporto fra le culture e i popoli, può anche costare a un docente la carriera universitaria.
Stimilli, mettendosi il cuore in pace, conclude: «Sono, a ragion veduta, sinceramente felice che la mostra non sia avvenuta». Possibile, mi chiedo, che tutto il buon senso che oggi apprezza, e che nasce da una consapevolezza etica, non lo avesse nemmeno sfiorato quando preparava quella mostra? Come si dice in questi casi: si deve far buon viso a cattiva sorte.
"PATHOS A ORAIBI: CIO’ CHE WARBURG NON VIDE" di David Freedberg (cfr.: Lo sguardo di Giano - Columbia University)
LA LEZIONE DI MANDELA - GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.