I tentacoli della ’ndrangheta sulla montagna. La feroce criminalità crotonese ha da anni allargato i propri interessi lungo il massiccio silano.
La città più importante - San Giovanni in Fiore - è stata per un periodo il rifugio prediletto e sicuro di Guirino Iona, irriducibile e sanguinario boss di Belvedere Spinello. E nei boschi di faggi che da Aprigliano risalgono fino al luogo in cui visse l’abate Gioacchino, vennero arrestati, nella notte tra il 3 e il 4 novembre del 2008, i due più temuti esponenti del "locale" mafioso di Cirò: Cataldo Marincola e Silvio Farao.
Vivevano nascosti in una casa colonica e avevano scelto l’impenetrabile bosco per sfuggire ai carabinieri. Avevano trovato rifugio un casolare nascosto tra la vegetazione. Raggiungibile solo attraverso una stradina sterrata che si arrampica tra la fitta vegetazione.
L’altopiano silano negli ultimi anni è stato pure utilizzato dalle cosche crotonesi per nascondere i corpi delle vittime della lupara bianca e per dare alle fiamme le salme dei "picciotti" condannati a morte dai tribunali della ’ndrangheta di Petilia Policastro, Cotronei, Belvedere Spinello, Cutro, papnice, Mesoraca e Cirò. È quanto emerge ormai con chiarezza dalle indagini condotte dalla pm antimafia Salvatore Curcio della Dda di Catanzaro.
La Distrettuale del capoluogo di regione indaga, infatti, su tre casi di omicidio. Il primo ha visto soccombere un macellaio di San Giovanni in Fiore, Antonio Silletta, 36 anni, trovato carbonizzato tra gli abeti austeri nel gennaio 2007. La scoperta del cadavere fece morire di crepacuore, poche ore dopo, la madre della vittima. Il secondo riguarda un fotografo napoletano, residente a Petilia Policastro: si chiamava Paolo Conte, aveva 44 anni, e venne trovato incenerito, il 29 agosto del 2006, all’interno della sua auto, nella boscaglia che lambisce il lago Ampollino. Considerate le condizioni del cadavere fu persino difficile capire come fosse stato assassinato. Solo dopo accuratissimi esami necroscopici, si scoprì che era stato ucciso con un colpo di pistola sparato alla nuca. Esattamente come Silletta. Il terzo caso afferisce all’uccisione di Gaetano Covelli, pure lui di Petilia Policastro, trovato carbonizzato, all’interno della sua auto, nell’agosto del 2004, in territorio di San Giovanni in Fiore. Pure lui venne assassinato con un colpo di pistola calibro nove, sparato alla nuca. Ignoti gli autori dei tre crimini, oscuro il movente. È d’altronde difficile per chiunque districarsi nella selva d’interessi, faide, traffici, alleanze, che fanno da sfondo ai tanti omicidi compiuti a cavallo del massiccio silano negli ultimi anni. La lotta tra lo Stato e l’antistato, tra i boschi, si combatte facendo i conti con i volti imperscrutabili degli allevatori, i silenzi dei pastori, le continue transumanze del bestiame e i rumori di potenti fuoristrada assurti a simbolo d’una ostentata ricchezza.
A San Giovanni in Fiore, è anche svanito nel nulla il tre settembre del 2005 Giuseppe Loria, giovane operaio del luogo. Pure lui ucciso. Magistrati e investigatori non escludono, inoltre, che sotto i maestosi alberi secolari del massiccio montuoso siano stati nascosti anche i resti di Annibale Alterino e Damiano Mezzorotolo, due cognati di Cariati, di cui non si hanno notizie da quasi cinque anni. Sostenere, dunque - come si è esercitato a fare qualche politico "buonista" in vena d’improbabili sortite - che la mafia calabrese non eserciti la propria influenza nella zona sangiovannese è davvero fuoriluogo.
Chi può dimenticare, per esempio, la fine che venne fatta fare all’allevatore Francesco Talarico e al nipote sedicenne Gianfranco Madia, trucidati nel 2000, a colpi di lupara, a due passi da San Giovanni? Oppure l’agguato teso, nel 2001 tra Camigliatello e San Giovanni, all’imprenditore Tommaso Greco? Le "lupare" in montagna non sparano da sole...
Arcangelo Badolati, La Gazzetta del Sud (11.1.2012), pag. 32
Il lato oscuro della ’ndrangheta
Il procuratore Pignatone all’Unical
Il procuratore Giuseppe Pignatone all’Università della Calabria, traccia il bilancio dei suoi 4 anni a Reggio Calabria.
Il magistrato «In Calabria lo Stato sta facendo uno sforzo notevole» *
17/01/2012 La ‘ndrangheta non è solo arresti, manovalanza ma nasconde un volto nascosto e insidioso detto zona grigia, cono d’ombra, borghesia mafiosa. Una zona sempre più ampia rispetto alla quale non sempre la nostra società civile ha i giusti anticorpi. Questo il tema al centro del dibattito all’aula Caldora dell’Unical nel corso del quale il direttore del Quotidiano, Matteo Cosenza (a destra), ha intervistato Giuseppe Pignatone (a sinistra), procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, forse ad una delle ultime apparizioni pubbliche in questa veste.
Per quanto riguarda la lotta alla ‘ndrangheta, Pignatone ha fornito ai partecipanti un’immagine significativa: «E’ come se fosse in corso una partita di calcio fra Stato e Antistato; - ha detto - ci sono quelli che fanno il tifo attivo. Imprenditori, intellettuali, cittadini e giornali che aiutano lo Stato. Poi ci sono anche imprenditori, intellettuali, cittadini e giornali che supportano l’antistato». Secondo il procuratore reggino, purtroppo la stragrande maggioranza della società civile sta sulle gradinate, a guardare in attesa del risultato finale.
E alla domanda se c’è la speranza di un risveglio di coscienze anche in Calabria, Pignatone risponde convinto di sì: «Quello che è successo a Palermo non è paragonabile a quanto accade in Calabria. In Sicilia - ha ricordato - siamo arrivati al punto attuale dopo uno sforzo durato 25 anni. Ci sono stati i maxiprocessi, ci sono state le stragi in cui sono morti moltissimi innocenti. Tutte queste circostanze hanno dato una nuova linfa a movimenti che già pre-esistevano, ma che sono sbocciati in seguito, per cui è potuto nascere un fenomeno come Ivan Lo Bello, ad esempio. In Calabria lo Stato sta facendo uno sforzo notevole. Certo anche a Reggio Calabria esistono dei problemi di organico nella magistratura, ma vorrei sottolineare la qualità dei professionisti inviati qui».
Ognuno dunque, è chiamato a fare la sua parte e Pignatone dopo aver lodato il lavoro di investigatori e magistratura giudicante, ha ribadito l’importanza dei collaboratori di giustizia, perché consentono agli inquirenti di cogliere il ragionamento mafioso e perché dimostrano, al di là delle rivelazioni, che cambiare si può. Ma il vero filo conduttore della discussione è quello della zona grigia. Pignatone cita due casi esemplificativi che rendono l’idea di quanto sia ampio il cono d’ombra. Il primo sono le elezioni che si svolsero a Marina di Gioiosa Jonica. In campo c’erano due liste che facevano praticamente capo alle due famiglie mafiose. Dalle intercettazioni è venuto fuori che le etichette politiche c’entravano poco o nulla. Dai discorsi intercettati, risultò evidente che il problema era che se vinceva X gli appalti, la gestione di risorse, i servizi sarebbero finiti ad una serie di ditte; se vinceva Y questo fiume di denaro sarebbe andato ad un’altra serie di ditte.
Ma il caso più clamoroso è forse la controversa figura di Giovanni Zumbo, commercialista reggino, proveniente da un’ottima famiglia della città, a cui lo Stato aveva anche affidato la gestione di beni sequestrati ai mafiosi e con agganci in apparati dello Stato. La classica persona al di sopra di ogni sospetto. Nel corso delle indagini, però, si è scoperto che Zumbo approfittava dei contatti con gli apparati dello Stato per passare al boss notizie su blitz e arresti e che soprattutto per dieci anni ha fatto da prestanome ad un noto boss reggino, per conto del quale deteneva quote della Multiservizi società mista del Comune di Reggio Calabria. «Controllare questa società - ha detto Pignatone - significava controllo sulle strade, accesso agli uffici comunali, a quelli della Procura, distribuire posti di lavoro».
Pignatone sa che toccare la zona grigia è pericoloso, e che spesso le inchieste sono accompagnate dalle polemiche, ma non se ne cura perché a lui interessano solo i processi. E’ sicuramente difficile sorprendere un colletto bianco che commette un reato perchè le loro condotte sono lecite finchè non diventano penali e finalizzate a favorire un’organizzazione criminale. Arrivare al secondo livello, quindi, come pure si è fatto a Reggio, significa avere in mano prove che possono reggere in dibattimento. Alla domanda sulla massoneria e il suo ruolo nella ‘ndrangheta, Pignatone dice che in diverse indagini sono emersi soggetti iscritti a logge, ma questo è un dato giuridicamente neutro. Quel che è certo è che le indagini «non si fanno per finire sui giornali, ma per arrivare a condanne nel processo».
* IL QUOTIDIANO DELLA CALABRIA, 17.01.2012
La mafia al nord, cronista calabrese sotto scorta a Modena
Suo padre fu ucciso a Bovalino nel 1989. Lui ha denunciato le infiltrazioni delle mafie al Nord ed ora è sotto protezione perchè la sua vita è a rischio *
12/01/2012 Gli è stata assegnata la scorta per aver raccontato le infiltrazioni e i traffici illegali della mafia al nord. Giovanni Tizian, 29 anni, è un cronista "precario" di origini calabresi, che dopo l’uccisione di suo padre, nel 1989, a colpi di lupara a Bovalino, nella Locride, dove viveva la sua famiglia ha deciso di emigrare in Emilia dopo l’archiviazione dell’indagine.
Per lui si è subito mobilitata la rete, la solidarietà ha invaso Facebook e Twitter sotto lo slogan ’Io mi chiamo Giovanni Tizian’. Il leader di Sel, Nichi Vendola l’ha definito «un esempio dell’Italia migliore», Leoluca Orlando (Idv) chiede che non sia lasciato solo, per il Pd «è una vicenda seria e delicata», l’ex sottosegretario Carlo Giovanardi (Popolari Liberali) sottolinea che «Modena negli ultimi anni non si è fatta mancare nulla».
La vita di Giovanni (che collabora con la ’Gazzetta di Modena’, ’Liberà’, il mensile ’Narcomafie’ e ha da poco pubblicato il libro-inchiesta ’Gotica’) è cambiata per la seconda volta due settimane fa: «Stavo per pranzare quando mi hanno chiamato per dirmi che ero a rischio, e per permettermi di proseguire nel mio lavoro avrei avuto una protezione delle forze dell’ordine».
Da quel momento due agenti armati e in borghese lo seguono ovunque: «Sul momento non ti rendi conto. Ma si creano situazioni strane. Se vado a fare la spesa mi accorgo di avere una fretta inspiegabile e non riesco a pensare alle cose che devo comprare».
Le minacce però non lo fermeranno: «Cerco di trovare il modo di continuare a fare questo mestiere e sono sicuro che lo troverò. Non penso che un giornalista possa cambiare il mondo, ma credo nell’utilità sociale di questo mestiere». Giovanni, secondo l’Osservatorio Ossigeno, è già il quinto cronista minacciato in Italia nel 2012. A sostenerlo c’è tutta la politica locale, a partire dal presidente della Regione Emilia, Vasco Errani; ma anche la società civile: l’associazione ’daSud’, ha promosso una campagna di solidarietà in tutta Italia.
Bisogna chiederlo a Badolati.
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