Il processo a Milano per l’assassinio di Lea Garofalo, testimone di giustizia calabrese, va verso la conclusione. Carlo Cosco, di Petilia Policastro (Crotone), è accusato di aver ucciso e sciolto nell’acido la donna, ex convivente, con la complicità di Giuseppe e Vito Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino.
Carlo Cosco è stato ammesso al gratuito patrocinio, in quanto è caduta l’aggravante mafiosa dell’omicidio. Nell’istanza, Cosco ha scritto che lavorava come buttafuori in varie discoteche, con un reddito esiguo. Eppure, secondo ’Il Fatto Quotidiano’, i fratelli Carlo e Giuseppe Cosco avrebbero preso in subappalto dei lavori della metropolitana di Milano. Negli atti, inoltre, si legge del ruolo che i Cosco avrebbero svolto a Milano nel traffico internazionale di stupefacenti, come ’ndranghetisti in ascesa.
Lea Garofalo riferì agli inquirenti di aver assistito all’omicidio, a Milano, del boss di ’ndrangheta Antonio Comberiati...
Omicidio Garofalo, Cassazione conferma 4 ergastoli
Confermate le cinque condanne, tra cui l’ex compagno
di Redazione ANSA ROMA *
Sono definitive le condanne per l’omicidio della testimone di giustizia Lea Garofalo: la Cassazione ha confermato i quattro ergastoli e la condanna a 25 anni emessi dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano il 25 maggio 2013 a carico dei cinque imputati, tra cui l’ex compagno Carlo Cosco.
La I Sezione Penale della Cassazione, presieduta da Maria Cristina Fiotto, ha confermato l’ergastolo inoltre per Vito Cosco, fratello di Carlo, Rosario Curcio e Massimo Sabatino. Per l’ex fidanzato della figlia di Lea, Carmine Venturino, la condanna definitiva è a 25 anni in ragione dello sconto di pena per le sue dichiarazioni. Lea Garofalo fu uccisa a Milano il 24 novembre 2009, il suo corpo fu bruciato in un magazzino a Monza. Nel processo di I grado l’ipotesi era che la donna, della quale non fu rinvenuto il cadavere, fosse stata sciolta nell’acido, ma poi Venturino dopo la condanna in I grado ha raccontato che il corpo venne bruciato. I pochi resti della donna sono stati quindi rinvenuti in un tombino tre anni dopo la sua scomparsa. La Cassazione ha anche condannato gli imputati al pagamento delle spese processuali e al risarcimento alle parti civili, fra cui la figlia di Lea, Denise Cosco, e il Comune di Milano.
* ANSA, 18 dicembre 2014 (ripresa parziale, senza immagini).
’NDRANGHETA: PETILIA POLICASTRO (Crotone).
PER LEA GAROFALO, COLLABORATRICE DI GIUSTIZIA, SCOMPARSA, SI TEME IL PEGGIO.
domenica 7 febbraio 2010.
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/breve.php3?id_breve=564
Il simbolo dell’8 marzo
Tre donne coraggiose
di Matteo Cosenza *
Avevo chiesto al collega Giuseppe Baldessarro un promemoria sulla vicenda tragica di Giuseppina Pesce e di Maria Concetta Cacciola prima di scrivere questo articolo, ma credo che la sua scheda nella sua scheletricità racconti benissimo e in modo inoppugnabile quanto è accaduto. Per questo ve la ripropongo così come me l’ha trasmessa in forma di appunti chiedendogli scusa per l’uso improprio che ne faccio e omettendo soltanto i nomi di qualche altro giornale e giornalista, non già per reticenza quanto soprattutto perché non meritano neanche di essere citati. Eccola.
Qui finisce la scheda del collega Baldessarro che lascia poco spazio ai commenti. Una sola notazione: qui non è in gioco una partita di calcio (e la cosca Pesce controllava anche questo mondo) tra due squadre mentre sugli spalti - come ha spiegato il procuratore Giuseppe Pignatone nella sua “lezione” all’Unical - ci sono gli spettatori che eventualmente tifano per l’una o per l’altra.
La partita drammatica si stava svolgendo in quel mondo schifoso nel quale hanno avuto la sfortuna di nascere Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola e, ricordiamola, Lea Garofalo. Se bisognava stare dalla parte di qualcuno non bisognava avere dubbi: bisognava stare dalla parte dei più deboli. E i più deboli erano quelle donne che, a costo di un travaglio tremendo, alla fine avevano deciso di rompere con le loro famiglie e di scegliere la strada della legalità e della giustizia pagando per questo due volte: trovando la morte o minacciate la vita loro e dei loro figli, e infilate con cinica perfidia in un vortice più grande della loro fragilità.
Si è invocato il garantismo, ma qui bisognava garantire le persone meno garantite, quelle che con il loro coraggio avevano imboccato un cammino di redenzione anche a costo della fine più atroce.
In questi giorni si discute della ’ndrangheta e della sua penetrazione nella società e nelle istituzioni calabresi: esagera chi dice - e scrive - che la ’ndrangheta non esiste ed esagera chi la vede dappertutto rischiando così di non vederla dove c’è. Le inchieste - quelle che vanno a processo e a sentenze e che si spera possano esserci anche nel prossimo futuro - ci riconducono alla realtà, ed a questa bisogna attenersi.
Soprattutto occorre uno sforzo collettivo dei calabresi onesti (quanti sono? la maggioranza? una minoranza?) che devono capire che la loro azione quotidiana (in primo luogo il rispetto delle regole), insieme con l’azione dello Stato, può cambiare le cose. Devono farlo per sé ma soprattutto per i giovani che hanno diritto ad un futuro diverso in questa loro meravigliosa terra. Perché il destino di ragazzi e delle ragazze deve essere così tragicamente legato all’ambiente e al luogo di nascita?
Che futuro diverso dal diventare ’ndranghetista può avere uno che, nato in una famiglia di ’ndrangheta e in un ambiente tollerante o complice, succhia prepotenza e illegalità come un latte materno e non riesce neanche a vedere un mondo diverso fatto di convivenza civile, di tolleranza, di rispetto, di felicità? Nascono in ambienti tristi, vivono infelici anche perché la morte dispensata senza pietà è un boomerang sempre in movimento, ed hanno un futuro amarissimo. Ecco perché dobbiamo inchinarci davanti a Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Nonostante tutto sono riuscite a capire che vivevano nel male e hanno trovato il coraggio di dire: basta, non deve andare così, noi e i nostri figli dobbiamo vivere in pace e non in una guerra perenne. Hanno pagato un prezzo altissimo, ma lo pagheranno ancora di più se saranno dimenticate e il loro esempio non diventerà un patrimonio collettivo che rigenera in bene e felicità le azioni della gente di questa terra.
Calabresi, guai a voltarsi dall’altra parte e a digerire anche queste storie come un normale tran tran quotidiano. Facciamole diventare l’immagine di una Calabria combattiva e positiva, di quella bella Calabria che tutti vorremmo e che purtroppo non c’è se non nel panorama.
Intanto, tra un mese è l’8 marzo, una festa che rischia di essere tale solo per vendere un po’ di mimose e scambiarsi qualche regalo o cena, ma che poi di tanto in tanto recupera la sua carica vitale. Ebbene, quest’anno ogni mimosa sia accompagnata dai volti di Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Alla ’ndrangheta militare e a quella in doppiopetto (“che sta in mezzo a noi, purtroppo”), facciamo sapere da che parte stiamo. E questa sia solo una tappa di un cammino collettivo, fatto di piccoli e grandi gesti quotidiani, che guarisca la Calabria dal male che la devasta e la riscatti agli occhi dei suoi ragazzi e del mondo. Matteo Cosenza
* Il Quotidiano della Calabria, 13/02/2012.
http://www.ilquotidianoweb.it/it/calabria/il_simbolo_dell_otto_marzo_editoriale_di_matteo_cosenza.html
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Tre foto e una mimosa
Verso l’8 marzo dedicato a Pesce, Cacciola e Garofalo. Il coraggio di tre mamme
http://www.ilquotidianoweb.it/it/calabria/tre_foto_e_una_mimosa.html