Io schiavo in Puglia
Sfruttati. Sottopagati. Alloggiati in luridi tuguri. Massacrati di botte se protestano. Diario di una settimana nell’inferno. Tra i braccianti stranieri nella provincia di Foggia
di Fabrizio Gatti *
Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe impolverate. È pugliese, ma parla pochissimo italiano. Per farsi capire chiede aiuto al suo guardaspalle, un maghrebino che gli garantisce l’ordine e la sicurezza nei campi. "Senti un po’ cosa vuole questo: se cerca lavoro, digli che oggi siamo a posto", lo avverte in dialetto e se ne va su un fuoristrada. Il maghrebino parla un ottimo italiano. Non ha gradi sulla maglietta sudata. Ma si sente subito che lui qui è il caporale: "Sei rumeno?". Un mezzo sorriso lo convince. "Ti posso prendere, ma domani", promette, "ce l’hai un’amica?". "Un’amica?". "Mi devi portare una tua amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare subito. Basta una ragazza qualunque". Il caporale indica una ventenne e il suo compagno, indaffarati alla cremagliera di un grosso trattore per la raccolta meccanizzata dei pomodori: "Quei due sono rumeni come te. Lei col padrone c’è stata". "Ma io sono solo". "Allora niente lavoro".
Non c’è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Il caporale vuole una ragazza da far violentare dal padrone. Questo è il prezzo della manodopera nel cuore della Puglia. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Nella regione progressista di Nichi Vendola. A mezz’ora dalle spiagge del Gargano. Nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e storico segretario della Cgil. Lungo la via che porta i pellegrini al megasantuario di San Giovanni Rotondo. Una settimana da infiltrato tra gli schiavi è un viaggio al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono alternative per guardare da vicino l’orrore che gli immigrati devono sopportare.
Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all’uomo raccontata da Alan Parker nel film ’Mississippi burning’. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l’hanno ucciso.
Adesso è la stagione dell’oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi, come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni da Bruxelles. ’L’espresso’ ha controllato decine di campi. Non ce n’è uno in regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale all’Unione europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti umani.
Una ragazza rumena al lavoro. Non ci vuole molto per entrare nel mercato più sporco dell’Europa agricola. Qualche nome inventato da usare di volta in volta. Una fotocopia del decreto di respingimento rilasciato un anno fa a Lampedusa dal centro di detenzione per immigrati. E la bicicletta, per scappare il più lontano possibile in caso di pericolo. Il caporale che pretende una ragazza in sacrificio controlla la raccolta dei perini a Stornara. Uno dei primi campi a sinistra appena fuori paese, lungo il rettilineo di afa che porta a Stornarella. Meglio lasciar perdere. Per arrivare fin qui bisogna pedalare sulla statale 16 e poi infilarsi per dieci chilometri negli uliveti. Il borgo è una piccola isola di case nell’agro. Alla stazione di Foggia, Mahmoud, 35 anni, della Costa d’Avorio, aveva detto che quaggiù la raccolta, forse, è già cominciata. Lui, che dorme in una buca dalle parti di Lucera, è senza lavoro: lì a Nord i pomodori devono ancora maturare. Così Mahmoud campa vendendo informazioni agli ultimi arrivati in treno. In cambio di qualche moneta.
Oggi dev’essere la giornata più torrida dell’estate. Quarantadue gradi, annunciavano i titoli all’edicola della stazione. Sperduta nei campi appare nell’aria bollente una stalla abbandonata. È abitata. Sono africani. Stanno riposando su un vecchio divano sotto un albero. Qualcuno parla tamashek, sono tuareg. Un saluto nella loro lingua aiuta con le presentazioni. La segregazione razziale è rigorosa in provincia di Foggia. I rumeni dormono con i rumeni. I bulgari con i bulgari. Gli africani con gli africani. È così anche nel reclutamento. I caporali non tollerano eccezioni. Un bianco non ha scelta se vuole vedere come sono trattati i neri. Bisogna prendere un nome in prestito. Donald Woods, sudafricano. Come il leggendario giornalista che ha denunciato al mondo gli orrori dell’apartheid. "Se sei sudafricano resta pure", dice Asserid, 28 anni. È partito da Tahoua in Niger nel settembre 2005. È sbarcato a Lampedusa nel giugno 2006. Racconta che è in Puglia da cinque giorni. Dopo essere stato rinchiuso quaranta giorni nel centro di detenzione di Caltanissetta e alla fine rilasciato con un decreto di respingimento. Asserid ha attraversato il Sahara a piedi e su vecchi fuoristrada. Fino ad Al Zuwara, la città libica dei trafficanti e delle barche che salpano verso l’Italia. "In Libia tutti gli immigrati sanno che gli italiani reclutano stranieri per la raccolta dei pomodori. Ecco perché sono qui. Questa è solo una tappa. Non avevo alternative", ammette Asserid: "Ma spero di risparmiare presto qualche soldo e di arrivare a Parigi". Adama, 40 anni, tuareg nigerino di Agadez, ha fatto il percorso inverso. A Parigi è atterrato in aereo, con un visto da turista. Poi gli è andata male. Dalla Francia l’hanno espulso come lavoratore clandestino. Ed è sceso in Puglia, richiamato dalla stagione dell’oro rosso. "Questo è l’accampamento tuareg più a Nord della storia", ride Adama. Ma c’è poco da ridere. L’acqua che tirano su dal pozzo con taniche riciclate non la possono bere. È inquinata da liquami e diserbanti. Il gabinetto è uno sciame di mosche sopra una buca. Per dormire in due su materassi luridi buttati a terra, devono pagare al caporale cinquanta euro al mese a testa. Ed è già una tariffa scontata. Perché in altri tuguri i caporali trattengono dalla paga fino a cinque euro a notte. Da aggiungere a cinquanta centesimi o un euro per ogni ora lavorata. Più i cinque euro al giorno per il trasporto nei campi. Lo si vede subito quanto è facile il guadagno per il caporale. Alle due e mezzo del pomeriggio arriva con la sua Golf. E la carica all’inverosimile. "Davvero questo è africano?", chiede agli altri davanti all’unico bianco. Nessuno sa dare risposte sicure. "Io pago tre euro l’ora. Ti vanno bene? Se è così, sali", offre l’uomo, calzoncini, canottiera e sul bicipite il tatuaggio di una donna in bikini ritratta di schiena.
Si parte. In nove sulla Golf. Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo trasporto di dieci minuti il caporale incasserà quaranta euro. I ragazzi lo chiamano Giovanni. Loro hanno già lavorato dalle 6 alle 12.30. La pausa di due ore non è una cortesia. Oggi faceva troppo caldo anche per i padroni perché rinunciassero a una siesta. Giovanni si presenta subito dopo, guardando attraverso lo specchietto retrovisore: "Io John e tu?". Poi avverte: "John è bravo se tu bravo. Ma se tu cattivo...". Non capisce l’inglese né il francese. E questo basta a far cadere il discorso. Ma il pugnale da sub che tiene bene in vista sul cruscotto parla per lui. Amadou, 29 anni, nigerino di Filingue, rivela lo stato d’animo dei ragazzi: "Giovanni, oggi è venerdì e non ci paghi da tre settimane. Ormai stiamo finendo le scorte di pasta. Da quindici giorni mangiamo solo pasta e pomodoro. I ragazzi sono sfiniti. Hanno bisogno di carne per lavorare". I tre euro l’ora promessi erano solo una bugia. Ma Giovanni promette ancora. Quando risponde dice sempre: "Noi turchi". Anche se la targa della macchina è bulgara. E per il suo accento potrebbe essere russo oppure ucraino. "Ti giuro su Dio", continua il caporale, "oggi arrivano i soldi e vi paghiamo. Tu mi devi credere. Io lavoro come te a Stornara. Non prendo in giro i miei colleghi". Giovanni abita alla periferia. Un villino di mattoni sulla destra, a metà del rettilineo per Stornarella. Quasi di fronte a un’altra stalla pericolante senz’acqua, riempita di materassi e schiavi.
La Golf stracarica corre e sbanda sulla stretta provinciale per Lavello. Il contachilometri segna 100 all’ora. Una follia. Alle prime aziende agricole del paese, Giovanni svolta a destra dentro una strada sterrata. Altri due chilometri e si è arrivati. Si prosegue a piedi, in fila indiana. Il campo è tra due vigneti. Questi pomodori vanno raccolti a mano. Quando il padrone vede arrivare il gruppo di africani, imita il verso delle scimmie. Poi dà gli ordini con gli insulti resi celebri dal vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli: "Forza bingo bongo". Nello stesso istante un furgone scarica nove rumeni. Tra loro tre ragazze, le uniche nella squadra. Si lavora a testa bassa. Guai ad alzare lo sguardo: "Che cazzo c’è da guardare? Giù e raccogli", urla il padrone avvicinandosi pericolosamente. Si chiama Leonardo, una trentina d’anni. È pugliese. Indossa bermuda, canottiera e occhiali da sole alla moda come se fosse appena rientrato dalla spiaggia. Da come parla è il proprietario dell’azienda agricola. O forse è il figlio del proprietario. Si occupa della manodopera. Una sorta di comandante dei caporali. La sua azienda è a una decina di chilometri, alle porte di Stornara. Proprio sulla strada che Giovanni percorre per portare gli schiavi al campo. Leonardo si fa aiutare da un altro italiano, il caporale dei rumeni. Uno con la maglietta bianca, i capelli lunghi e i baffetti curati. Il terzo italiano è probabilmente il compratore del raccolto. Magro. Capelli biondi corti. Telefonino appeso al petto in fondo a una catena d’oro. Parla con un forte accento napoletano. Parcheggia il suo Suv e si fa subito sentire. Qualcuno ha appoggiato per sbaglio le cassette piene sulle piante di pomodoro. E lui grida come un pazzo: "Il primo che rimette una cassetta sulle piante, com’è vero Gesù Cristo, gliela spacco sulla testa". I tre italiani sudano. Ma solo per il caldo. Oltre a sorvegliare i loro schiavi, non fanno assolutamente nulla.
Giovanni va a recapitare altri braccianti. Poi torna due volte con i rifornimenti d’acqua. Quattro bottiglie di plastica da un litro e mezzo da far bastare nelle gole di 17 persone assetate. Sono bottiglie riempite chissà dove. Una zampilla da un buco e arriva quasi vuota. L’acqua ha un cattivo odore. Ma almeno è fresca. Comunque non basta. Due sorsi d’acqua in oltre quattro ore di lavoro a quaranta gradi sotto il sole non dissetano. La maggior parte dei ragazzi africani non ha nemmeno pranzato né fatto colazione. Così ci si arrangia mangiando pomodori verdi di nascosto dai caporali. Anche se sono pieni di pesticidi e veleni. E forse è proprio per questo che sulla pelle, per giorni, non comparirà più nemmeno una puntura di zanzara.
Leonardo vuole sapere com’è che in Africa ci siano i bianchi. Gira tra le schiene curve come un professore tra i banchi. E dà il permesso a Mohamed, 28 anni, un ragazzo della Guinea. Per smettere di lavorare o parlare, qui bisogna sempre chiedere il permesso. Mohamed sa bene perché ci sono i bianchi in Sudafrica. È laureato in scienze politiche e relazioni internazionali all’Università di Algeri. Parla italiano, inglese, francese e arabo. E risponde rimanendo in ginocchio, davanti a quell’italiano che confessa senza pudore di non aver mai sentito parlare di Nelson Mandela. "Avete capito?", ripete dopo un po’ Leonardo agli altri due italiani: "In Italia quelli chiari stanno al Nord mentre noi al Sud siamo scuri. In Africa invece al Sud sono bianchi e questi qua del Nord sono neri".
L’incidente accade all’improvviso. Michele è il più anziano tra i rumeni. Ha una sessantina d’anni, i capelli grigi. Sta caricando cassette piene sul rimorchio del trattore. Il legno è troppo sottile, è secco. E una cassetta si sfonda rovesciando dodici chili di pomodori. Michele non fa in tempo ad abbassarsi a raccoglierli. Leonardo, con la mano chiusa a pugno, lo colpisce. Una sventola sulla testa. "Stai attento, coglione", urla, "credi che noi stiamo ad aspettare mentre tu butti le cassette?". Michele forse chiede scusa. È troppo stanco e offeso per parlare ad alta voce. "Scusa un cazzo", continua Leonardo, "devi stare più attento". Ci fermiamo tutti a guardare. Una ragazza si alza in piedi per protesta. Quello con l’accento napoletano accorre come una furia: "Giù, non è successo niente. Giù o stasera non si va a casa finché non si finisce". Come se questi ragazzi avessero una casa.
Michele ritorna a caricare il rimorchio aiutato da altri rumeni. Ma dopo mezz’ora è ancora seduto a terra. Si tiene la testa. Perde molto sangue dal naso. Un suo compagno di lavoro spreme un pomodoro maturo per bagnarli la fronte. Cosa ha fatto lo spiega a Leonardo l’uomo con i baffetti curati: "Ho dovuto spaccargli una pietra in mezzo agli occhi. Ho dovuto. Quello stronzo se l’è presa con me perché tu prima l’hai picchiato. E poi perché stasera non ci sono i soldi per pagarli. Ma che c’entro io? Lui ha raccolto una pietra e io gliel’ho tolta dalle mani. Tu pensa se un rumeno di merda mi deve minacciare". Leonardo sorride.
Si smette solo quando il sole va a nascondersi dietro i monti Dauni. Michele sta meglio. I rumeni si raccolgono intorno al loro caporale. Giovanni scatta una foto ai suoi ragazzi. Serve per i pagamenti e per scoprire se qualcuno scappa dal gruppo. Poi fa firmare il registro con le ore lavorate. Oggi si finisce prima del solito. Il perché lo racconta il caporale ad Amadou, in macchina durante il ritorno: "Ci sono in giro i carabinieri". Giovanni segnala un campo di pomodori lungo la strada: "Vedi qua? Questo pomeriggio i carabinieri sono venuti a prendere dei miei ragazzi. Io lavoro anche qui. Africani come te e rumeni. Li hanno portati via per il rimpatrio. Ma non avere paura, il campo dove lavorate voi", dice indicandosi le spalle come se avesse i gradi, "è controllato dalla mafia". Succede spesso quando è giorno di paga. A volte sono gli stessi padroni a chiamare vigili, polizia o carabinieri e a segnalare gli immigrati nelle campagne. Basta una telefonata anonima. Così i caporali si tengono i loro soldi. E la prefettura aggiorna le statistiche con le nuove espulsioni.
Amadou però fa notare che nemmeno oggi i ragazzi verranno pagati: "Tu sei musulmano?", chiede Giovanni: "Sì? Allora io ti giuro su Allah che la prossima settimana vi pago tutti. E se avete bisogno di carne, ti giuro che vi invito tutti a casa mia. Ovviamente la prossima settimana. Quando potrete pagare la carne".
Il 14 maggio 1904 qua vicino la polizia attaccò una manifestazione di braccianti. C’era anche il giovane Giuseppe Di Vittorio. Morirono in quattro quel giorno. Tra le vittime Antonio Morra, 14 anni, amico d’infanzia del futuro leader sindacale. Adesso le proteste vengono spente prima che possano dilagare. I caporali agiscono come una polizia parallela. Gli imprenditori si rivolgono a loro se ci sono problemi. A cominciare dall’imposizione delle regole: "Domani mattina vengo a prendervi alle cinque", annuncia Giovanni dopo aver scaricato i suoi passeggeri. Sono quasi le dieci di sera ormai. Calcolando una doccia improvvisata con l’acqua del pozzo e la misera cena, restano appena cinque ore di sonno. I ragazzi africani spiegano subito le sanzioni. Chi si presenta tardi, una volta al campo viene punito a pugni. Chi non va a lavorare deve versare al caporale la multa. Anche se si ammala. Sono venti euro, praticamente un giorno di lavoro gratis.
Una cinquantina di chilometri più a nord, stesse storie. La carta stradale indica Villaggio Amendola. Era un borgo agricolo. Ora è solo un paese fantasma riempito da immigrati rumeni e bulgari ridotti in schiavitù. Come l’ex zuccherificio di Rignano o il Ghetto che la sera, al suono della township music, sembra Soweto. Al Villaggio Amendola perfino la chiesa abbandonata è stata riempita di materassi. Qui il cento per cento degli abitanti non è italiano. Tutti raccoglitori. E tutti stranieri. Tranne una. Giuseppina Lombardo, 51 anni. Viene dalla Calabria. Per gli agricoltori del posto è una santa donna. Lei e il suo amico tunisino che si fa chiamare Asis sono capaci di mettere insieme una squadra di raccoglitori di pomodori in meno di mezz’ora. Giuseppina e Asis con gli schiavi ci campano. L’unico pozzo di Villaggio Amendola è loro. L’acqua è inquinata ma la vendono ugualmente: cinquanta centesimi una tanica da 20 litri. Anche l’unico negozio del borgo è loro. Hanno bottiglie di minerale, se uno proprio non vuole perdere la giornata per la dissenteria. E hanno carne e pollame: "A prezzi maggiorati del cento per cento e di dubbia qualità", dicono gli abitanti. Non è facile infiltrarsi come immigrato in questo ghetto e vincere la paura dei suoi prigionieri. Perché Asis, come tutti i caporali, non perdona chi parla. Lui e la sua compagna qui sono l’unica legge. Chi c’era si ricorda bene cosa è successo la settimana di Pasqua del 2005. Quel pomeriggio un ragazzo rumeno, 22 anni, arrivato da appena quattro giorni, torna al Villaggio Amendola con i sacchetti della spesa. È stato a Foggia e cammina davanti al negozio del caporale con quello che si è procurato. Una bottiglia d’olio, un po’ di pasta. Il testimone che parla con ’L’espresso’ è convinto che Asis abbia considerato quel gesto una ribellione al suo controllo. I rumeni raccontano di aver visto poco dopo due uomini affrontare il nuovo arrivato. Uno, secondo i testimoni, è parente di Asis. Con una spranga lo centrano in mezzo alla testa. Un colpo solo. Poi trascinano il corpo sanguinante e semisvenuto su un furgone. Nessuno al villaggio rivedrà più quel ragazzo.
Lo stesso accade il 20 luglio di quest’anno. Il giorno prima Pavel, 39 anni, ha una discussione con Giuseppina Lombardo. Gli sono caduti quindici euro nel negozio e lei crede che glieli abbia rubati dalla cassa. Pavel in Romania faceva il cuoco per 150 euro al mese. Dal 20 marzo 2004, quando è arrivato in Puglia, sopporta violenze e angherie. Lo fa per mandare quanto risparmia alla moglie e alla sua "fata", la figlia studentessa, che ha 15 anni. Pavel ha braccia veloci. L’anno scorso è riuscito a riempire fino a 15 cassoni al giorno: 45 quintali di pomodori, lavorando dall’alba a notte. Con il cottimo a 3 euro a cassone, era una buona paga secondo lui: tolti il trasporto al campo e la tangente per il caporale, Pavel riusciva a guadagnare anche 25 o 30 euro al giorno. Ma il 20 luglio Asis gli impedisce di ripetere il record. Qualcuno gli ha riferito che Pavel ha protestato per la faccenda dei soldi e per lo sfruttamento dei braccianti. Il tunisino lo colpisce nel sonno, in una giornata senza lavoro, alle due del pomeriggio. Pavel si protegge la testa con le braccia. La sbarra di ferro gli rompe le ossa e apre profonde ferite nella carne.
Lui è sicuro di non essere stato ucciso soltanto per l’intervento dei suoi compagni di stanza. Ma lo lasciano lì a sanguinare sul materasso fino all’una di notte. Gli altri stranieri hanno troppa paura di Asis. Anche di chiamare la polizia e correre il rischio di essere rimpatriati. Alle otto di sera qualcuno finalmente telefona di nascosto all’ospedale. L’ambulanza e una pattuglia dei carabinieri, al Villaggio Amendola, arrivano soltanto cinque ore dopo. Così è andata, secondo la denuncia.
Il 31 luglio Pavel viene dimesso dall’ospedale di Foggia. È stato operato da appena quattro giorni. Ha quasi due mesi di prognosi. Ferri e chiodi nelle ossa. Le braccia ingessate. Medici e infermieri lo consegnano alla polizia, violando il codice deontologico. E in questura lo trattano da clandestino. Anche se dal primo gennaio 2007 tutti i rumeni potrebbero essere cittadini dell’Unione europea. Con le braccia immobilizzate, Pavel non riesce a impugnare la penna. Il ’Primo dirigente dottoressa Piera Romagnosi’, siglando la notifica del decreto di espulsione, scrive che lui ’si rifiuta di firmare’. Anche la prefettura di Foggia va per le spicce: nel decreto di espulsione annota che Pavel è ’sprovvisto di passaporto’. Un’aggravante. Eppure Pavel il passaporto ce l’ha. Alla fine, non trovando alternative, un ispettore gli dona dieci euro. E una macchina della questura lo riporta al Villaggio Amendola. Lo scaricano davanti al negozio di Giuseppina e Asis. Il tunisino se ne occupa subito. Vuole dimostrare a tutti chi comanda. Minaccia Pavel e lui va a rifugiarsi in un casolare a un chilometro dal villaggio. Qualche connazionale gli porta in segreto un po’ di pane e da bere. Dopo nove giorni di dolori e sofferenze un amico rumeno riesce a contattare un avvocato di Foggia, Nicola D’Altilia, ex poliziotto al Nord. L’avvocato trova il casolare. Incontra Pavel e lo riporta immediatamente in ospedale. Le ferite sono infette. Il bracciante rumeno è grave. Denutrito. Viene ricoverato per setticemia. Il resto è cronaca degli ultimi giorni. Il 21 agosto Pavel è di nuovo dimesso dall’ospedale. Va in questura a completare la denuncia contro il caporale tunisino e la sua complice italiana, che era riuscito a presentare al posto di polizia del pronto soccorso soltanto il 14 agosto. Lo accompagna l’avvocato che l’ha salvato. Ma dopo una giornata in questura, la Procura fa arrestare Pavel come immigrato clandestino: non ha rispettato il decreto di espulsione che, così è scritto, lo obbligava a lasciare l’Italia dall’aeroporto di Roma Fiumicino. Non importa se in quelle condizioni comunque non avrebbe potuto viaggiare. Lo costringono a dormire su una panca di legno nelle camere di sicurezza. Nonostante le operazioni, le ossa rotte e le ferite ancora fresche.
Il giorno dopo si apre il processo, immediatamente rinviato a ottobre. Oltre ad aver perso il lavoro, grazie alla legge Bossi-Fini Pavel rischia da uno a quattro anni di prigione. Più di quanto potrebbe prendersi il suo caporale che intanto resta libero. "Quell’uomo", racconta Pavel terrorizzato, "mirava alla testa. Voleva uccidermi".
Qualche bracciante morto da queste parti l’hanno già trovato. Slavomit R., polacco, aveva 44 anni quando è stato bruciato il 2 luglio 2005 in un campo a Stornara. Un caso irrisolto. Come quello di due cadaveri mai identificati abbandonati a Foggia. Le scomparse sono un altro capitolo dell’orrore. Nessuno sa quanti siano i lavoratori rumeni, bulgari o africani spariti. I caporali, quando li ingaggiano o li massacrano di botte, non sanno nemmeno come si chiamano. Gli unici casi sono stati scoperti grazie alle denunce dell’ambasciata di Polonia. Hanno dovuto insistere i diplomatici di Varsavia. È dal 2005 che cercano notizie di tredici connazionali. Erano venuti a lavorare come stagionali nel triangolo degli schiavi. E non sono più tornati a casa. L’elenco compilato in agosto dal consolato sulle ricerche delle persone scomparse non rende onore all’Italia. Su dodici "richieste indirizzate alla questura di Foggia", l’ambasciata ha dovuto prendere atto che per nove casi non c’è stata "nessuna risposta da parte della questura". Dopo mesi di inutile attesa l’appello è stato girato al Comando generale dei carabinieri. E, attraverso gli investigatori del Ros, la Procura antimafia di Bari ha finalmente aperto un’inchiesta.
Nessuno sta invece indagando sulla morte di un bambino. Perché quello che è successo apparentemente non è reato. Il piccolo sarebbe nato a fine settembre. Liliana D., 20 anni, quasi all’ottavo mese di gravidanza, la settimana di Ferragosto arranca con il suo pancione tra piante di pomodoro. La fanno lavorare in un campo vicino a San Severo. Né il marito, né il caporale, né il padrone italiano pensano a proteggerla dal sole e dalla fatica. Quando Liliana sta male, è troppo tardi. Ha un’emorragia. Resta due giorni senza cure nel rudere in cui abita. Gli schiavi della provincia di Foggia non hanno il medico di famiglia. Sabato 18 agosto, di pomeriggio, il marito la porta all’ospedale a San Severo. La ragazza rischia di morire. Viene ricoverata in rianimazione. Il bimbo lo fanno nascere con il taglio cesareo. Ma i medici già hanno sentito che il suo cuore non batte più. Anche lui vittima collaterale. Di questa corsa disumana che premia chi più taglia i costi di produzione.
L’industria alimentare campana paga i pomodori pugliesi da 4 a 5 centesimi al chilo. Sulle bancarelle lungo le strade di Foggia i perini salgono già a 60 centesimi al chilo. A Milano 1,20 euro quelli maturi da salsa e 2,80 euro al chilo quelli ancora dorati. Al supermercato la passata prodotta in Campania costa da 86 centesimi a 1,91 euro al chilo. I pelati da 1,04 a 3 euro al chilo. Eppure, nel ghetto di Stornara, nemmeno stasera che il mese è quasi finito ci sono i soldi per comprare un pezzo di carne. "Donald, non te ne andare", si fa avanti Amadou, "Giovanni è molto arrabbiato con te perché hai lasciato il gruppo. Ti sta cercando, vado a dirgli che sei qui". Nel fondo di questa miseria, Amadou sa già con chi stare. Tra tanti uomini costretti a inginocchiarsi, lui ha scelto i caporali. È il momento di prendere la bici e scappare. Nel buio. Prima che Giovanni decida di chiamare i suoi sgherri. E di dare il via alla caccia nei campi. n
SCHEDA
I medici accusano: arrivano sani e si ammalano qui
Vivono in condizioni disumane. Proprio in questi giorni decine di abitanti del Ghetto, tra Foggia e Rignano, si sono ammalati di gastroenterite per le pessime condizioni dell’acqua. Ma anche quest’anno, l’Asl Foggia 3 ha rifiutato di mettere a disposizione strutture e ricettari per assistere gli stranieri sfruttati come schiavi nei campi. La denuncia è dell’associazione francese Medici senza frontiere che invece ha ottenuto la collaborazione dell’Asl Foggia 2 per l’assistenza sanitaria e umanitaria nel Sud della provincia. Da tre anni un ambulatorio mobile di Msf visita le campagne tra Cerignola e San Severo. Come se la provincia di Foggia fosse un fronte di guerra. Ci sono un medico, un’assistente sociale e un coordinatore: quest’anno Viviana Prussiani, Carla Manduca e Teo Di Piazza. "Per il terzo anno consecutivo siamo stati costretti a continuare questo progetto", spiega Andrea Accardi, responsabile delle missioni italiane di Msf: "E ancora una volta nell’estate 2006 ci troviamo di fronte alla stessa situazione: gli stranieri arrivano sani e si ammalano a causa delle indecenti condizioni che trovano nelle campagne. Manca qualsiasi forma di accoglienza. Il sistema economico è totalmente ipocrita e vede la connivenza e il coinvolgimento di tutti gli attori. A partire dal governo e dalle istituzioni locali, ovvero Comuni e prefetture, fino ad arrivare alle Asl, alle organizzazioni di produttori e ai sindacati".
Nel 2005 Msf ha pubblicato il rapporto ’I frutti dell’ipocrisia’ sulle drammatiche condizioni degli immigrati sfruttati come schiavi non solo in Puglia. Perché, secondo il tipo di raccolto, situazioni simili si ripetono in Calabria, Campania, Basilicata e Sicilia. Le malattie più gravi sono state diagnosticate negli stranieri che vivono in Italia da più tempo, tra 18 e 24 mesi. Il 40 per cento dei lavoratori nell’agricoltura vive in edifici abbandonati. Oltre il 50 non dispone di acqua corrente. Il 30 non ha elettricità. Il 43,2 per cento non ha servizi igienici. Il 30 ha subito qualche forma di abuso, violenza o maltrattamento negli ultimi sei mesi. E nell’82,5 per cento dei casi l’aggressore era un italiano.
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SCHEDA
Padroni senza legge
Dietro il triangolo degli schiavi ci sono gli imprenditori dell’agricoltura foggiana e molte industrie alimentari. Piccole o grandi aziende non fanno differenza. Quando devono assumere personale stagionale per la raccolta nei campi, quasi tutte scelgono la scorciatoia del caporalato. Il compenso per gli stranieri varia da 2,50 a 3 euro l’ora (ai quali però vanno tolti tutti i ’servizi’ per il caporale). Anche per questo gli italiani sono scomparsi da questo tipo di lavoro. Solo una piccola minoranza degli agricoltori interpellati da ’L’espresso’ dice di pagare i braccianti da 4 a 4,50 euro l’ora. Ma sempre in nero e rivolgendosi a caporali. In Veneto e in Friuli un raccoglitore guadagna in media 5,80 euro l’ora più i contributi, se in regola. Oppure da 6,20 a 7 euro l’ora se ingaggiato in nero.
La legge prevede una retribuzione ordinaria di 35 euro al giorno. Per favorire le assunzioni regolari, il governo ha abbassato i contributi che gli imprenditori devono versare di circa il 75 per cento. Mentre il contributo dell’8,54% che il bracciante deve dare all’Inps è rimasto inalterato. I controlli sono inefficaci o inesistenti. Nell’ultimo anno in provincia di Foggia soltanto un imprenditore, a Orta Nova, è stato arrestato per sfruttamento dell’immigrazione clandestina.
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http://espresso.repubblica.it/archivio, 01.09.2006
Così il nuovo capitalismo crea (e sfrutta) i nuovi schiavi
di Luciano Canfora (Corriere della Sera/La Lettura, 06.04.2014)
Una delle grandi novità del XXI secolo è il riapparire su larga scala delle forme di dipendenza schiavile e semischiavile. Un segnale in tal senso, sia pure espresso con disarmante ingenuità, si è avuto, in sede ufficiale, quando «da Oslo è partita una delegazione guidata da Ole Henning, allarmata dalle notizie sulla diffusione del caporalato nella raccolta del pomodoro nel Sud Italia» («Corriere della Sera», 23 ottobre 2013). Il riferimento è alla condizione semischiavile dei neri impiegati nelle campagne della Capitanata, di Villa Literno o di Nardò.
Beninteso, il pomodoro poco «etico» è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno mondiale, nel quale rientrano le maestranze schiave del Sud-Est asiatico o del Bangladesh, per non parlare dei minatori neri del Sud Africa, sui quali spara ad altezza d’uomo una polizia, anch’essa fatta di neri, per i quali la meteora Mandela è passata invano. È chiaro che il profitto si centuplica se il lavoratore è schiavo (schiavo di fatto, se non proprio formalmente). E il profitto è più sacro del Santo Graal nell’etica del «mondo libero».
La mondializzazione dell’economia e il venir meno di qualunque movimento - o meglio collegamento - internazionale dei lavoratori ha creato le condizioni per questo ritorno in grande stile di forme di dipendenza che in verità non erano mai scomparse del tutto. Basti ricordare che soltanto «nel febbraio del 1995 il Senato del Mississippi, uno dei baluardi storici del razzismo Usa, ha approvato il XIII emendamento della Costituzione americana, siglato nel 1865, secondo cui la schiavitù volontaria o involontaria non potrà esistere entro i confini degli Stati Uniti» («Corriere della Sera», 19 febbraio 1995).
E, quanto all’Europa, non sarà male ricordare che l’abrogazione della schiavitù coloniale, varata dalla Convenzione nazionale a Parigi nel febbraio 1794, rimase di fatto lettera morta, poiché nel frattempo buona parte delle colonie francesi nelle Antille era passata, nel turbine della rivoluzione in Francia, sotto controllo inglese e la liberale Inghilterra aveva vanificato gli effetti dell’abrogazione. Di qui la necessità di una nuova solenne abrogazione, nel 1848, sotto l’impulso di Henri Wallon e di Victor Schoelcher. Intanto incubava, negli Usa, la feroce guerra civile causata dalla secessione del Sud, baluardo della schiavitù.
Il nesso tra capitale e schiavitù non si è dunque mai del tutto spezzato. Ora un bel libro di Herbert S. Klein (Il commercio atlantico degli schiavi, Carocci, pp. 288, e 20) ricostruisce, con fredda e tanto più efficace documentazione, questa vicenda sulla scala dei secoli (soprattutto XV-XIX), non senza un breve ed efficace preambolo sulle origini antiche dell’ininterrotto fenomeno.
Nel rapido sguardo che Klein rivolge alla schiavitù antica si apprezza lo sforzo volto a distinguere l’entità del fenomeno in Grecia da un lato e dall’altro nel mondo mediterraneo e continentale unificato da Roma, dove la massa di schiavi, soprattutto nei secoli II a.C. - fine II d.C., fu di gran lunga più grande che nella Grecia delle poleis.
Forse Klein non conosce il sesto libro dei Sofisti a banchetto di Ateneo di Naucrati (fine II d.C.) - cioè la più grande enciclopedia a noi giunta di epoca ellenistico-romana -, ma certo lì la questione viene ampiamente sviscerata, cifre alla mano: e non è del tutto vero, a stare a quell’importante repertorio antiquario, che nella Grecia del tardo V e IV secolo a.C. non si riscontrassero realtà schiavistiche imponenti.
La schiavitù in Grecia ha creato qualche imbarazzo a una parte degli studiosi moderni (quelli in particolare cui è parso che il fenomeno offuscasse la purezza del miracolo greco), i quali perciò si sono affannati a screditare le poche cifre tramandate intorno all’entità del fenomeno. Altri interpreti hanno ritenuto preferibile una linea più provocante, e cioè: la schiavitù fu un bene perché rese possibile il miracolo greco.
Altri ancora, come il dilettante onnivoro, ciclicamente «riscoperto» per amor di paradosso, Giuseppe Rensi (1871-1941), propugnarono in pieno XX secolo il ripristino della schiavitù come unica garanzia di difesa del capitale: «Il lavoratore - scriveva Rensi nei Principi di politica impopolare (1920) - in quanto lavora non può non essere dipendente, sottoposto, servo di colui che gli richiede le sue funzioni (...). Aveva perfettamente ragione Aristotele quando sosteneva la necessità e l’eternità della schiavitù».
Questo modo di ragionare può avere vaste ramificazioni. Per esempio negli anni Settanta ebbe un quarto d’ora di celebrità Eugene D. Genovese: non già per i suoi studi molto utili sull’Economia politica della schiavitù (Einaudi, 1972), ma per i suoi paradossi sul carattere «progressivo» della schiavitù negli Usa del XIX secolo (Neri d’America , Editori Riuniti, 1977).
E invece gli studi di Genovese meritano di essere ricordati per altre ragioni: per aver messo in luce l’intreccio nell’epoca nostra, o molto vicina a noi, tra capitalismo e schiavitù. «Il capitalismo - scrisse - ha assorbito e anzi addirittura incoraggiato molti tipi di sistemi sociali precapitalistici: servitù della gleba, schiavitù etc.» (L’economia politica della schiavitù). Quelle sue osservazioni risalenti all’inizio degli anni Sessanta, e focalizzate - tra l’altro - sul caso emblematico dell’integrazione perfetta dell’Arabia Saudita nel sistema capitalistico mondiale, tornano attualissime oggi, visti il ritorno in grande stile del fenomeno schiavitù come anello indispensabile del cosiddetto «capitalismo del Terzo millennio», nonché il ruolo cruciale della feudale monarchia saudita nella difesa del cosiddetto «mondo libero» e nella strategia planetaria degli Stati Uniti.
Per gli Usa infatti il criterio realpolitico ha quasi sempre avuto la meglio sulle scelte di principio, in questo come in altri campi: la forza e il tornaconto come potenza erano il fondamento, mentre la «dottrina» volta a volta esibita era, ed è, il paravento. La tratta degli schiavi è stata praticata senza problemi (anche il virtuoso Jefferson aveva i suoi schiavi, con tutte le implicazioni economiche ed etiche che ciò comportava).
Klein dimostra molto bene nel suo saggio, dal quale abbiamo preso le mosse, che fu la penuria di mano d’opera interna a incrementare l’opzione in favore della tratta; e che il meccanismo incominciò a declinare nella seconda metà dell’Ottocento, non tanto in conseguenza della guerra civile americana, quanto piuttosto per l’irrompere sulla scena della massiccia emigrazione dall’Europa.
Il fenomeno accomunò le due Americhe: «La colonizzazione dell’Ovest statunitense e la conquista argentina del deserto furono movimenti del primo e del tardo Ottocento che provocarono il massacro delle native popolazioni amerindie che vi si opposero e la loro sostituzione con coloni immigrati».
La «macchia» rappresentata dalla schiavitù non passava inosservata in Europa: non bastava l’autoesaltazione retorica americana a celarla. Nel 1863 un politico inglese di rango, che era anche un fine studioso di storia antica, John Cornewall Lewis, pubblicò un dialogo, di tipo platonico-socratico, intitolato Qual è la miglior forma di governo? (riedito vent’anni fa da Sellerio), nel quale la pretesa dell’interlocutore denominato «Democraticus» di provare la possibilità di attuare il modello democratico e repubblicano con l’argomento «gli Stati Uniti lo sono» viene demolito dall’antagonista, il quale osserva che tale non può essere un Paese in cui esista la schiavitù.
È una considerazione, oltre che un monito, che vale anche per il nostro presente. Nel giugno 2013 si tenne a Kiev, mentre era al governo il presidente eletto Yanukovich, la conferenza dell’Osce sul traffico di esseri umani. Nel rapporto conclusivo si leggeva: «Dal 2003 il traffico di esseri umani ha continuato a evolversi fino a diventare una seria minaccia transnazionale, che implica gravi violazioni dei diritti umani. Sono stati sviluppati nuovi sofisticati metodi di reclutamento, sottile coercizione e abuso della vulnerabilità delle vittime, nonché di gruppi emarginati e discriminati». A questo si aggiungano le risultanze del rapporto Eurostat sul traffico di esseri umani in Europa dell’aprile 2013.
Negli stessi mesi «La Civiltà Cattolica» pubblicava un saggio del gesuita Francesco Occhetta, La tratta delle persone, la schiavitù nel XXI secolo , mentre sul versante giuridico appariva un volume denso non solo di dottrina ma anche di storia, La giustizia e i diritti degli esclusi di Giuseppe Tucci con una significativa introduzione di Pietro Rescigno. Si può ben dire, in conclusione, che l’intreccio tra ramificata, onnipresente e indisturbata malavita e finanza incontrollata e incontrollabile (riciclaggio del denaro «sporco») rappresenta ormai il contesto ideale per lo sfruttamento intensivo e lucroso delle nuove forme di schiavitù.
Altro che articolo 600 del nostro codice penale! Il culto feticistico del profitto, del denaro che produce sempre più denaro, è giunto al suo criminogeno apogeo. Ed è tragicomico vedere e ascoltare il personale politico che amministra i Paesi in cui tutto questo è consentito pontificare ipocritamente sulla tutela, in casa d’altri, dei «diritti umani».
Nessun fascicolo è stato aperto dopo la denuncia di Gatti e di Medici senza frontiere
Schiavi nel foggiano, il Prc chiede commissione d’inchiesta
di Laura Eduati (Liberazione, 13.10.2006)
Una commissione d’inchiesta sui migranti schiavi del Mezzogiorno. E’ questa la proposta di legge della senatrice Nardini (Prc) - prima firmataria - e di una ventina di senatori del centrosinistra, persuasi che i poteri giudiziari di una commissione parlamentare sono lo strumento più adatto per far luce sulle responsabilità di un fenomeno emerso grazie ai dossier di Medici senza Frontiere e al recente reportage di Fabrizio Gatti sull’ Espresso. Sono le campagne di Foggia la punta, visibile, dell’iceberg: migliaia di stranieri impiegati in nero nella raccolta di pomodori, patate, olive e uva, costretti a lavorare anche 10 ore al giorno per 20 euro, comandati e maltrattati da caporali al servizio degli imprenditori agricoli, caporali che volentieri chiedono al migrante una donna da violentare in cambio del posto di lavoro.
Le condizioni di vita di questi lavoratori irregolari, che non denunciano i padroni per timore dell’espulsione, sono pietose: secondo i dati di Msf, il 40% vive come in baracche prive di servizi igienici, oltre il 50% non dispone di acqua potabile, uno su tre ha subito violenza e in otto casi su dieci l’aggressore era italiano. A ciò si aggiungono pasti inadeguati allo sforzo fisico e poca acqua. Così, anche se all’arrivo in Italia stavano in salute (si tratta principalmente di subsahariani e uomini dell’Est Europa), si ammalano: artrosi, ernie, gastroenteriti, infezioni. L’80% degli schiavi non ha accesso a cure sanitarie.
L’orrore scoperto nella provincia di Foggia è solo uno dei tanti inferni agricoli del meridione. Basta pensare agli accampamenti di lavoratori migranti a Cassibile (Siracusa). «E’ la struttura del nostro mondo agricolo a incentivare il caporalato», osserva Nardini, che propone l’istituzione di un servizio di collocamento per i lavoratori delle campagne, ma soprattutto lo «scardinamento» della Bossi-Fini che finora ha riservato quote infime alle campagne del Sud, inducendo lo sfruttamento di migranti senza il permesso di soggiorno.
E’ utile un’inchiesta istituzionale, dopo le denunce giornalistiche e delle associazioni? «Certo», risponde Nardini, «perché finora non è scattata alcuna inchiesta giudiziaria, i migranti non hanno il coraggio di denunciare i padroni, e soprattutto vogliamo scoprire le complicità». La proposta del ministro Ferrero - concedere il permesso di soggiorno al lavoratore clandestino che denuncia il datore di lavoro - è stato sonoramente bocciato da Giuliano Amato, più propenso a ricorrere alla misura solo in casi eccezionali come i maltrattamenti e la riduzione in schiavitù altrimenti, ha spiegato, si farebbe un favore ai trafficanti di clandestini. «Su questo punto chiederemo spiegazioni al Viminale», osserva contrariata Nardini.
L’obiettivo rimane comunque un’inchiesta breve che impedisca un’estate 2007 vergognosa come quella appena conclusa.
Si calcola che nel foggiano siano 6-7mila gli stranieri impiegati nel raccolto estivo. Ma i lavoratori in nero in Italia sono molti, molti di più: 4 milioni è il dato impressionante fornito ieri dalla Cgil e che riguarda il settore edile e agroalimentare. Sei milioni, in totale, i lavoratori con posizione irregolare su 22 milioni di italiani con un impiego. Ciò corrisponde al 17% del Pil, completamente sommerso e a tutto vantaggio dei datori di lavoro senza scrupoli.
I numerosi firmatari della proposta ( tra i quali Martone, Russo Spena, Grassi, Menapace, Palermo, De Petris, Silvestri e Sodano) chiedono che l’Italia ratifichi la convenzione dell’Onu sulla protezione dei diritti migranti.
Cominciamo a parlare del fatto che i MERCATI DEL LAVORO SONO TRE. Una nota di commento del reportage di Fabrizio Gatti
di Attilio Mangano (Milano, 01.09.2009)
"Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga"
Ogni volta che L’ISTAT presenta cifre e dati sul mercato del lavoro in Italia tutti sanno che sono falsi o incompleti. Ma nessuno sembra occuparsi seriamente di quella parte del mercato del lavoro che viene chiamata LAVORO IN NERO. Forse sarebbe ora di dire e di spiegare che in Italia, ma non solo, esistono TRE mercati del lavoro, tra loro compartimentati ( anche se certo esistono passaggi interni da uno all’altro). IL MERCATO DEL LAVORO GARANTITO, quello che spesso l’ISTAT denuncia come in crisi e in diminuzione, riguarda le grandi e medie aziende, spesso anche le piccole, più il pubblico impiego e i servizi, è quello che in qualche modo vede la presenza del sindacato e di una contrattazione ufficiale, centrale e articolata (contratto aziendale). In seconda linea esiste IL MERCATO DEL LAVORO PRECARIO, che comunque presenta molteplici sfaccettature e non consente un discorso unico, è evidente infatti che un conto è il lavoro precario di giovani venti-venticinquenni che spesso tra un lavoro e un altro studiano per esami universitari o si prendono una vacanza e un’altra cosa sono i trenta-quarantenni precari DA SEMPRE , che sono già passati attraverso venti o più esperienze lavorative e che nel loro futuro non vedono altro. Il movimento di SAN PRECARIO ha contribuito a far conoscere bisogni e lotte, culture e domande di questo tipo di precariato. Va detto che in ogni caso, per quante riserve e obiezioni si possano fare, questo secondo mercato del lavoro è un mercato in un certo senso di" transizione", in cui una parte spesso consistente vive una sua esperienza lavorativa di formazione e addestramento che spesso sfocia nell’assunzione più o meno definitiva. Per queste ragioni sono legittime le riserve sul fatto che si possa parlare di un vero e proprio secondo mercato con una sua fisionomia classica. Il mercato del LAVORO NERO , invece, quello che " sfugge" a controlli e indicatori, è a sua volta per definizione transitorio, si sa da sempre di scantinati dove vengono fatti i vestiti chepoi andranno a inondare i mercatini rionali, insieme ad altri prodotti, in primo luogo le famose " imitazioni" di prodotti famosi con firma d’autore. C’è infine tutta la leggendaria, invisibile e folkloristica trama di redditi multipli che costituisce l’economia familiare in cui magari la madre ha una pensione come bracciante, il padre anche, i figli risultano disoccupati e però tutti insieme i componenti, quattro-cinque.sei del nucleo familiare lavorano in nero, col risultato di cinque o sei redditi aggiuntivi. Tutte le volte che ISTAT o altri presentano un quadro generale dell’economia meridionale in cui il sessanta o il settanta per cento dei giovani risultano disoccupati ( eppure tutti dotati di auto o moto, pc, dvd, cellulare) viene da obiettare che se fosse davvero così sarebbero a lottare e a manifestare, mentre sono essi stessi parte integrante di quel FAMILISMO AMORALE già denunziato negli anni cinquanta. La cosa nuova di questi ultimi venti anni riguarda lo spostarsi del lavoro in nero agli emigrati clandestini, se prima in Lombardia nell’industria edile e nei cantieri primeggiavano i famosi operai bergamaschi, oggi muoiono a decine nei cantieri giovani emigrati di cui non si sa nemmeno se fossero assunti, si sa solo del tipico infortunio sul lavoro.
Quello che però non si sa e non si dice è il rapporto fra emigrante " clandestino" e capitalismo MAFIOSO col suo caporalato, il fatto che c’è un filo occulto che lega il mercante locale che organizza il viaggio clandestino dell’emigrato e il piccolo mafioso locale che poi lo farà lavorare come in queste storie del foggiano, c’è una rete di affari, di scambi, di connivenze, di protezione. Per un clandestino che fortunosamente riesce a superare controlli e addentrarsi nel paese andando a trovare il parente, l’amico,il conoscente di paese, che costituisce il primo riferimento di ospitalità e alloggio, ce ne sono altri due già impiantati in loco, come il magrebino del racconto, piccoli caporali di una rete clandestina di affari che comprende di tutto ( compresa la prostituzione), c’’è insomma una economia clandestina che funziona e coinvolge decine di migliia.forse anche centinaia di migliaia, di persone che ne dipendono giorno per giorno. Quanto contino i legami etnici, religiosi, parentali e quanto invece una comunità in cui lo sfruttamento e il crimine convivono con il mero lavoro di sopravvivenza, un groviglio inestricabile di legalità e illegalita, traffici e contrabbando, violenze e ricatti. Quando il ministro degli interni GIULIANO AMATO ha parlato per la prima volta di trafficanti di carne umana e di schiavi ha solo indicato la punta dell’iceberg. La storia sconvolgente e tristissima di tanti clandestini non merita solo pietà, spesso questa pietà nasconde altro, giustifica, assolve, compatisce, fingendo di non vedere il filo che lega le cose. Chi è meridionale e conosce minimamente le mafie e le camorre sa invece benissimo quanto sia forte l’infliuenza di questa rete, di questa economia, di questa ideologia. E sa anche che non serve proprio a niente chiudere gli occhi e non capire che si tratta di criminalità organizzata.
E’ possibile liberarsi dalla mala-economia
Ma si può praticare un’economia di qualità, finché le mafie drogheranno il mercato o incasseranno finanziamenti pubblici? La ricerca di giustizia e le risposte al convegno di «Sbilanciamoci» da parte dei protagonisti politici, sociali ed economici della lotta di questi anni contro i condizionamenti delle economie malavitose
di Antonio Massari (il manifesto, 02.09.2006)
Bari. «Un’idea, finché resta un’ idea, è soltanto un’astrazione. Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione». Cita a memoria Giorgio Gaber, don Tonio Dall’Olio, per spiegare che l’idea di combattere le mafie, e a volte di sconfiggerle, si può mangiare per davvero. Basta assaggiare il pane ricavato da un grano speciale: quello cresciuto nelle terre confiscate ai mafiosi. Ex presidente di Pax Crhristi, ora tra i responsabili di Libera - associazione contro le mafie, don Tonio Dall’Olio, interviene a Bari, durante la seconda giornata di «Sbilanciamoci!», nella sessione dedicata a «Imprese e legalità, per un’economia di qualità». Accanto a lui siedono Pietro Grasso, procuratore generale antimafia, Giuseppe Lumia, parlamentare Ds ed ex presidente della commissione antimafia, l’imprenditore Alessandro Laterza, il sindaco di Mesagne Mario Sconosciuto, e Patrizio Gonnella, dell’associazione Antigone. «C’è un pensiero non detto: le mafie, in fondo, muovono l’economia - continua Dall’Olio - E allora sembra che anche loro, in qualche modo, possano far del bene». Insomma il messaggio è semplice: non bisogna mollare. Anche perché, come spiega Grasso, la «forza delle moderne organizzazioni mafiose sta proprio nell’immensa ricchezza di cui possono disporre». E come gli raccontò un pentito, «per un mafioso qualche anno di galera è messo in preventivo: è quando gli si tocca la tasca, che non ragiona più». Così, bere un bicchiere di vino spillato alle vigne dei mafiosi, comporterebbe ben tre risultati. Una gustosa rivoluzione (come suggerisce Dall’Olio), conquistata toccando tasca e nervi del mammasantissima, (come dice Grasso) che ci spingerebbe verso un «consumo critico» (come spiega invece Lumia). Posato il calice, però, le mafie continuano a occupare una larga fetta del mercato. E sottraggono risorse immense: «7,5 miliardi di euro e 180mila posti di lavoro solo al Sud», continua Grasso. Smantellate le mafie, un’altra economia sarebbe davvero possibile, ma come sconfiggerle: questo è il punto. «Più innalzi il livello dei diritti più abbassi l’incidenza della mafia», continua Dall’Olio. Lumia suggerisce di non limitare l’analisi a un singolo aspetto, per esempio quello militare, ma di considerare sempre le mafie nel loro complesso: «Potenti sotto il profilo economico, grazie alla loro capacità di accumulare capitali, riescono - sotto il profilo sociale - a gestire bisogni e orientare comportamenti. Ma è il rapporto con politica e istituzioni, il vero filo elettrico: un rapporto che fa parte del sistema e che s’è evoluto. Oggi non sentono il bisogno dei mediatori. Ragionano in termini di rappresentanza diretta. A Palermo stavano candidando un consigliere comunale per le prossime elezioni».
Politica, legalità ed economia: Lumia attacca il governo Berlusconi. «L’asticella della legalità s’è abbassata di molto - dice - quando qualcuno ha pensato che sdoganare quote di economie illegali, prodotte all’interno del mercato, avrebbe liberato risorse per lo sviluppo. Ma il rientro dei capitali illegalmente esportati, la depenalizzazione del falso in bilancio e in condoni fiscali - conclude - non hanno prodotto alcuno sviluppo. Dal Mezzogiorno oggi si torna ad emigrare». Alessandro Laterza tiene a precisare che l’imprenditore-mafioso è una contraddizione in sé, «perché se l’imprenditore interviene nel mercato con la forza, allora non è un imprenditore, ma solo un mafioso». E ci riporta così al filo conduttore: il nesso tra imprese e legalità, per un’economia di qualità. Ma è possibile un’economia di qualità, finché le mafie drogheranno il mercato o incasseranno finanziamenti pubblici? E la mafia, in questo, s’è specializzata. «La mafia dello stragismo sembra finita», dice Gonnella, dell’associazione Antigone, lanciando una provocazione: «Forse bisognerebbe aggiornare la legislazione speciale». Lumia replica che le armi non sono state «messe in cantina». E Grasso racconta come Bernardo Provenzano, il super latitante arrestato pochi mesi fa, sia riuscito a «traghettare l’organizzazione, dalla crisi del periodo stragista, al periodo della mafia degli affari e dei prestanome. La mafia ’legale’. Coinvolgendo anche la sinistra e le cooperative rosse. Che Totò Riina, invece, aveva scartato».
Discutiamo anche delle soluzioni, però ! Perchè con il comunismo starebbero meglio ? Oppure aspettate che Mammasantissima compia il miracolo ?
Saluti cordiali. Biasi
Dopo 30 anni di neoliberismo, adesso una "sterzata" a sinistra
Socialismo? Parliamo invece di capitalismo
di ALAIN TOURAINE*
Socialismo è una parola confusa, usata dalle persone più diverse per esprimere le opinioni più varie. Lasciamolo dunque da parte. In compenso, parlare contro il capitalismo non soltanto è più che sensato, ma è anche molto più di attualità di quanto la maggior parte delle persone non creda.
Ciò che definisce il capitalismo è l’eliminazione dei controlli sociali, politici o di altro genere che limitano gli attori economici. Quando sono liberi, vale a dire non controllati, questi attori esercitano un autentico potere sulle altre istituzioni, che devono sempre, per parte loro, tener conto degli interessi dei dirigenti dell’economia. Il riferimento a questo potere fa parte del concetto stesso di capitalismo. Questa libertà, questa stessa onnipotenza dei dirigenti dell’economia è una componente necessaria della modernizzazione.
Non ci sono mai stati grandi sviluppi economici senza una fase di capitalismo che possiamo addirittura definire "selvaggio". La Gran Bretagna e poi gli Stati Uniti ne sono stati i grandi esempi. Oggi è la Cina a essere il Paese più capitalistico del mondo. Ma la modernizzazione esige anche che dopo una fase di libertà estrema delle forze economiche dominanti arrivi una fase opposta dove compaiono nuovi interventi pubblici promossi da sindacati e partiti che vogliono soprattutto una redistribuzione del reddito. Questa alternanza rappresenta la formula di base dello sviluppo economico.
Non c’è sviluppo senza capitalismo e senza anticapitalismo. Ma molti preferiscono, alla successione di queste due fasi, un sistema misto permanente che combini accumulazione e redistribuzione. È questo sovente il caso degli europei e, in particolare, dei tedeschi, che hanno appena votato per un’economia aperta e competitiva, ma anche per il mantenimento della Sozialmarktwirtschaft (economia sociale di mercato), che è una delle forme principali di quello che Delors ha definito "il modello sociale europeo.
Il problema reale di fronte a cui ci troviamo è di scegliere, non tra capitalismo e socialismo, ma tra il sistema dell’alternanza e quello della combinazione permanente di un’economia aperta e di una forte azione di redistribuzione. Gli avversari dell’alternanza temono che questo sistema rafforzi le tensioni e i conflitti sociali. I nemici dei sistemi misti temono che la redistribuzione non vada a beneficio dei poveri ma di determinati settori delle classi medie, in particolare nel settore pubblico. I sostenitori del capitalismo, da parte loro, accusano i loro avversari di entrambi i campi di spingere talmente in là il Welfare State da strozzare la crescita e creare un deficit di bilancio che può essere colmato solo facendo crescere il debito pubblico, quindi attraverso un prelievo anticipato sul reddito della generazione successiva.
Quale posizione bisogna adottare oggi? La risposta deve tener conto della nostra situazione storica. Noi viviamo, dall’inizio degli anni 70, in una fase che viene definita neoliberista, e che ha preso il posto dell’economia "amministrata" che dominava la maggior parte del mondo all’indomani della Seconda guerra mondiale. Questo successo del capitalismo è stato amplificato dalla globalizzazione che ha accresciuto la libertà delle imprese, soprattutto di quelle finanziarie, rispetto agli Stati e soprattutto ai sindacati, che in molti Paesi stanno perdendo di importanza.
Oggi, l’opinione pubblica tende a chiedere un riequilibrio in favore dei salariati e delle spese sociali. È sbigottita dalle notizie degli scandali che sono avvenuti nelle grandi imprese, e dalla pioggia d’oro che ricevono molti manager. I lavoratori si indignano per il fatto che le loro imprese vengano delocalizzate anche quando sono in attivo e realizzano profitti. I movimenti no global, meglio definibili come altermondialisti, organizzano forum e grandi raduni in tutte le parti del mondo. Ad attenuare questa pressione gioca il fatto che gli eventi che dominano l’attualità non sono di natura economica, ma religiosa e militare.
Malgrado questi ostacoli esiste, in particolare in Europa, un’evoluzione dell’opinione pubblica a favore di nuovi interventi dello Stato, e soprattutto contro la creazione di un’Europa alla Thatcher. L’opinione pubblica non vuole che la riforma necessaria del servizio sanitario e delle pensioni si traduca in una limitazione delle prestazioni.
Formulata in questi termini, la risposta alla domanda che abbiamo posto appare evidente: l’opinione pubblica si aspetta dai dirigenti che mettano dei limiti all’onnipotenza dei mercati e delle imprese. Chiede una "sterzata" a sinistra. Ma una simile risposta non può bastare, perché non dice come, sotto la pressione di quali forze, si possa ottenere un cambiamento di direzione. I sistemi di previdenza sociale, creati all’indomani dell’ultima guerra, sono stati introdotti su iniziativa dei sindacati, e per proteggere soprattutto i lavoratori contro i rischi che li minacciano: incidenti, disoccupazione, malattia, vecchiaia.
Chi può interpretare oggi quel ruolo motore che svolsero i sindacati mezzo secolo fa? Chi può dirigere una lotta per un nuovo sistema di protezione sociale che non riguardi soltanto i lavoratori, che protegga tutti contro nuovi rischi e nuove disuguaglianze: dipendenza senile, malattie mentali, conflitti tra minoranze, conseguenze della delocalizzazione, disuguaglianza di possibilità alla scuola, ecc.
Una simile pressione, che i partiti e i sindacati sono incapaci di esercitare, può essere esercitata da movimenti di base, associazioni, ong, in parole povere da quella che viene definita la società civile. Ma oggi non assistiamo a un rafforzamento di questo tipo di azioni di base. Stanno anzi perdendo forza in certi settori. Quantomeno nel caso italiano, è al governo che bisogna guardare. Malgrado la sua risicata vittoria elettorale, gode già di una forte riserva di sostegno nell’opinione pubblica, e questo sostegno aumenta. È probabilmente una tendenza generale nel mondo attuale, questa di limitare il sistema neoliberista e di incaricare il potere politico di difendere meglio la popolazione non privilegiata.
Dopo trent’anni di supremazia nel dopoguerra, l’economia amministrata è stata sostituita dal neoliberismo. Trent’anni sono passati. Ma non è il momento di far pendere la bilancia nell’altra direzione?
(Traduzione di Fabio Galimberti)
*www.repubblica.it, 31 agosto 2006.