Grazie alla tecnica di fusione del bronzo è stato
possibile svelare l’origine della famosa opera
Roma, l’inganno della Lupa
è "nata" nel Medioevo
Scultura simbolo della città, si pensava che
risalisse al V secolo avanti Cristo.
Ora uno studio ne ha accertato l’età reale
di ADRIANO LA REGINA *
OPERA d’arte celeberrima, simbolo di Roma e rappresentazione emblematica delle sue origini leggendarie, la Lupa capitolina è da sempre considerata uno dei capolavori dell’antichità. Compare nei manuali di storia dell’arte come oggetto di produzione etrusca.
Già attribuita a Vulca, il grande scultore di Veio chiamato a Roma nel tardo VI secolo per decorare il tempio di Giove capitolino, la Lupa è stata più di recente giudicata opera di un artista veiente della generazione successiva, il quale l’avrebbe plasmata e fusa tra gli anni 480-470 avanti Cristo. È invece noto da tempo che i gemelli sono stati aggiunti nel 1471 o poco dopo quando il bronzo, donato da Sisto IV alla città di Roma, fu trasferito dal Laterano sul Campidoglio.
Ora ci viene dimostrato, con argomenti inoppugnabili, che neanche la Lupa è antica. Per caratteristiche tecniche essa si inserisce infatti coerentemente nella classe della grande scultura bronzea d’epoca medievale, mentre per qualità formali può essere attribuita ad un periodo compreso tra l’età carolingia e quella propria dell’arte romanica.
Nel 1997 il restauro della scultura fu affidato ad Anna Maria Carruba, una storica dell’arte restauratrice che da anni si dedica alla conservazione di bronzi antichi, la quale ha svolto accurate indagini intese anche a determinare la tecnica di fusione. Ne risultò che la scultura era stata fusa a cera persa col metodo diretto effettuato in un solo getto. Questa tecnica si evolve e si raffina in età medievale al punto di consentire la fusione di grandi bronzi, anche per l’esigenza di fondere le campane senza saldature e difetti, onde ottenerne purezza di suoni.
I bronzi d’epoca antica, greci, etruschi e romani, si distinguono da quelli medievali per la fusione in parti separate, poi saldate tra loro. Secondo la tradizione Rhoikos e Theodoros, due scultori greci del VI secolo a. C., "i primi a liquefare il bronzo ed a fondere statue" nelle parole di Pausania, avrebbero trovato il modo di ottenere le fusioni più accurate. La loro innovazione può essere riconosciuta, e questo è un altro importante contributo originale di Anna Maria Carruba, non nell’invenzione della fusione, già nota da tempo per la piccola plastica, ma piuttosto nella scoperta della tecnica della saldatura di parti fuse separatamente mediante l’impiego di altro bronzo come materiale saldante, definita "brasatura forte".
La tecnica adottata dal mondo greco, poi introdotta in Etruria ed a Roma, risulta estremamente più duttile nella costruzione dei volumi e dei sottosquadri, consentendo così di raggiungere risultati di grande ardimento compositivo e superando i limiti di stabilità imposti persino dal marmo, il più nobile dei materiali lapidei. Consente inoltre di ottenere livelli di qualità finissima nel plasmare le superfici, ed assicura infine un beneficio non secondario nel ridurre i rischi di fallimento durante i processi di fusione.
La tecnica medievale di fusione in un solo getto comporta invece l’adozione di forme ben più rigide, meno libere nello spazio, ma con indubbi vantaggi sotto il profilo funzionale, com’è nel caso delle campane; solamente nel Rinascimento si sarebbero raggiunti con l’impiego di questa tecnica, ed è celebre l’esempio del Perseo di Cellini, risultati per qualità paragonabili a quelli che in antico erano stati ottenuti con la fusione in parti separate.
La Lupa capitolina ha occupato una strana posizione nella storia dell’arte. Se si escludono alcuni studiosi dimenticati del XIX secolo, i quali ne avevano intuito l’origine medievale senza tuttavia dimostrarla, il contributo critico che oggi possiamo considerare il più importante tra quelli del Novecento è senz’altro dovuto ad Emanuel Ltwy, che basandosi solamente sull’analisi dei caratteri formali già nel 1934 escludeva la possibilità di attribuire la scultura alla produzione artistica etrusco-italica.
La critica si è però prevalentemente orientata, dapprima con qualche riluttanza e poi più decisamente, verso una sua collocazione nel mondo antico, individuandone la provenienza di volta in volta in ambienti della Magna Grecia, di Roma, dell’Etruria. Nella prima metà del Novecento con Giulio Quirino Giglioli, in un clima di entusiasmo per la scoperta dell’Apollo di Veio e di rampante nazionalismo, la Lupa "minacciosamente pronta a tutelare il popolo che la venerava" fu considerata opera di Vulca.
Maggior consenso è stato riscosso da Friedrich Matz (1951), il quale ha attribuito la scultura al decennio 480-470 avanti Cristo. Questa datazione perdura stranamente anche dopo l’acquisizione dei nuovi dati. Nel 2000, in occasione della sua presentazione dopo il restauro, la Lupa capitolina veniva ancora dichiarata senza alcuna esitazione, nella pubblicazione curata dai Musei Capitolini, il prodotto di una officina veiente degli anni 480-470. E quanto mai singolare che nel caso di un’opera di così ardua e sofferta classificazione siano rimaste inascoltate le indicazioni provenienti dalle indagini sulla tecnica di fusione eseguite durante il restauro.
Anna Maria Carruba ha sottratto un capolavoro all’arte etrusca, restituendolo a quella medievale. Se fosse necessaria una conferma di questo risultato del suo lavoro basterebbe osservare come la storia dell’arte etrusco-italica non risenta in alcun modo della perdita: la Lupa, in quel contesto, ha costituito sempre una presenza "extra ordinem", irrazionale, estranea a qualunque forma di storicizzazione. Non a caso, infatti, a differenza di altri grandi bronzi quali la Chimera e l’Arringatore, essa ha attratto assai poco l’attenzione di coloro che negli anni recenti più si sono dedicati allo studio dell’arte etrusca.
D’altra parte, la nuova datazione lascia intravedere ampie prospettive di studio. Sono ad esempio già più facilmente comprensibili alcuni rapporti di stile quali l’innesto di forme proprie della scultura sassanide del VII-VIII secolo nell’arte romanica.
* (L’autore, ex sovrintendente ai Beni archeologici di Roma, è professore di Etruscologia all’università "la Sapienza")
* la Repubblica, 17 novembre 2006
I Lupercalia all’origine della festa degli Innamorati
di Antonella Bazzoli ( *)
Nel giorno della Festa degli Innamorati del 14 febbraio, la chiesa ricorda il martirio di San Valentino. Ma alle origini di questa ricorrenza cattolica, trasformatasi in realtà in un evento dai connotati più commerciali che religiosi, vi è un’antica tradizione festiva che nel calendario religioso di Roma antica era conosciuta con il nome di Lupercalia.
Sappiamo che a Roma i Lupercalia si celebravano il 15 di febbraio, con cerimonie di purificazione e con rituali che potremmo definire di “fecondazione simbolica”. Sembra che tali consuetudini derivassero da un arcaico culto per Faunus Lupercus, dio oracolare dal carattere disordinato e selvaggio che veniva invocato per proteggere i campi, le selve e i pastori, e che finì per essere identificato con il greco Pan (non a caso rappresentato proprio come Fauno, con corna e zoccoli di capra).
Secondo altre fonti i Lupercalia si legherebbero invece al culto di una divinità femminile: Juno Februata, ovvero “Giunone purificata”, invocata dalle donne per curare le febbri e per essere protette dutante la gravidanza e il parto. Si tratta di credenze e rituali precristiani che il popolo di Roma fece fatica ad abbandonare, tanto è vero che i Lupercalia si tenevano ancora nel V secolo, nonostante le critiche e i divieti mossi contro di essi dai capi della chiesa, comprensibilmente preoccupati dal permanere di tali usanze pagane. Secondo alcune fonti, proprio allo scopo di estirpare definitivamente quegli antichi riti precristiani che si tenevano alle idi di febbraio, papa Gelasio I avrebbe pensato ad una sorta di damnatio memoriae, istituendo la ricorrenza di San Valentino martire tra il 492 e il 496.
Non fu solo la Chiesa cattolica a mostrarsi ostile ai Lupercalia. Lo stesso Cicerone giudicò “selvagge” queste “riunioni”. E Valerio Massimo scrisse in proposito che si trattava di feste “promosse dall’ilarità e dall’eccesso di vino”. Egli ne giustificava però la ricorrenza, ritenendo cha ad istituirle fossero stati gli stessi Romolo e Remo “esultanti di gioia poiché il nonno Numitore aveva loro concesso di fondare una città sul Palatino” (Val. Max 2, 2, 9). Ciò spiega, tra l’altro, perchè la festa del 15 febbraio fosse celebrata a Roma presso la grotta sacra alle pendici del Palatino: il cosiddetto Lupercale, la cavità che secondo la leggenda di fondazione avrebbe ospitato la mitica Lupa e i gemelli da lei allattati.
E’ Plutarco a descrivere nel dettaglio lo svolgimento dei Lupercalia, non esitando a definire queste celebrazioni “azioni rituali difficili da spiegare”.
Due giovani di famiglia patrizia detti Luperci, venivano condotti nella grotta consacrata al dio che si trovava ai piedi del Palatino. Dopo aver sacrificato una capra, i due venivano segnati sulla fronte con un coltello bagnato di sangue caprino, quindi venivano detersi con un panno di lana bianca intriso di latte. Concluso il rituale purificatorio del lavaggio, i due nobili adolescenti dovevano ridere. Poi, fatta a strisce la pelle di capra, dovevano correre nudi attorno al colle, schernendo gli spettatori e i passanti che incrociavano e usando come fruste le strisce di cuoio, per colpire chiunque avessero incontrato lungo la loro corsa sfrenata.
Le matrone di Roma e le giovani spose desiderose di avere figli, anziché evitare i colpi di frusta inferti dai Luperci, vi si facevano incontro, credendo che tali gesti simbolici fossero in grado di giovare alla fertilità e alla gravidanza. Ecco perchè lo stravagante rituale ha fatto supporre che i Lupercalia siano stati rituali di “fecondazione simbolica”, risalenti forse addirittura ad un’epoca antecedente la fondazione di Roma.
Parenti lontani di quello che sarebbe poi diventato il Carnevale, i Lupercalia erano anche considerate feste di fine anno (non va dimenticato che nel calendario di Romolo era marzo e non gennaio, il primo mese dell’ anno solare). Ciò spiegherebbe anche gli aspetti più insoliti della festa del 15 febbraio, in particolare il suo carattere gioioso e sfrenato e i suoi rituali di tipo espiatorio e propiziatorio, tipici del mese di febbraio che rappresentava un periodo di preparazione e di purificazione in vista della nuova stagione primaverile.
Antonella Bazzoli - 14 febbraio 2009 - aggiornato il 14 febbraio 2016
Da leggere:
Publio Ovidio Nasone “I Fasti” ed. BUR 2006
Dario Sabbatucci “La religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico” ed. Seam 1999
Andrea Carandini “La leggenda di Roma” Vol. I “Dalla nascita dei gemelli alla fondazione della città” Fondazione L. Valla - A. Mondadori 2006
Andrea Carandini “Remo e Romolo” Vol. I “Dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani” Einaudi 2006
*
Fonte: "Evus", 14 febbraio 2016 (senza foto)
Andrea Carandini svela il mistero che circondava le origini di Servio Tullio re bastardo dopo Tarquinio Prisco
Il servo liberato che divenne tiranno
di Stefano Miliani (l’Unità, 04.06.2010)
Manovre di potere, sangue, appelli al popolo. In una Roma aperta a genti latine, sabine, etrusche, con greci e orientali, tra il616a.C.eil534a.C.,unasequenza regale cambiò la cosa pubblica e gli ordinamenti: prima re Lucio Tarquinio Prisco, greco-etrusco, seguito da Servio Tullio, ex servo che sarebbe stato suo figlio e in quanto tale non poteva di salire al trono, perché la Roma di allora vietava la successione diretta e richiedeva l’interruzione almeno di un regno.
Andrea Carandini, archeologo, il maggior studioso delle origini di Roma, presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, ha scritto una saga avvincente di trame, tradimenti e manipolazione del «popolo»: Re Tarquinio e il divino bastardo (Rizzoli, 171 pagine, 18 euro). Fondata su documenti testuali e visivi (come le pitture della tomba etrusca a Vulci detta di François), la narrazione sbroglia, con incursioni nei pensieri e nei sentimenti dei protagonisti, intricate faccende che evocano temi dell’Italia di oggi: costituzioni violate, demagogia, privilegi di oligarchie in discussione. A chi legge, fa pensare anche a Berlusconi.
Professore, perché ha voluto raccontare questa storia con piglio narrativo?
«È la prima metà di una grande saga che riguarda la seconda età regia di Roma. Racconterò la seconda parte in un prossimo libro Rizzoli. Ho fatto ricerche su quel tempo e dopo tanti lavori eruditi ho voluto rivolgermi, per una volta, al grande pubblico. In Italia gli studiosi non hanno un rapporto con il popolo, la divulgazione pertanto è generalmente cattiva (salvo Piero Angela in tv): altera date e inventa misteri. Invece il dotto ha il dovere di raccontare quello che sa in modo semplice. Questo ho tentato».
A pagina 100 e oltre lei descrive un tiranno capace di parlare alla «pancia e alla fantasia» del popolo, che lo plasma ambendo a poteri più personali rispetto ai sovrani antichi o alle magistrature repubblicane. Ci ricorda la nostra Italia odierna.
«Questo è un libro sul potere. Generalmente il re trova la sua forza nel rapporto con il popolo favorendolo e manipolandolo perché l’aristocrazia ha beni, una sua autonomia, una libertà privilegiata, e fa la Fronda. È una trama che può esistere anche in forme democratiche: possono esserci gruppi elitari che vogliono conservare il potere e un popolo che si fa trascinare da un leader carismatico».
Come Servio Tullio, il figlio bastardo sostiene lei. Alla morte di Lucio Tarquinio, diventerà re reggente, grazie alle manovre della vedova del re Tanaquil, eliminerà il fratello legittimo Gneo facendolo uccidere e dal 578 sarà il primo tiranno di Roma. Il quale si rivolge direttamente ai romani scavalcando tutti.
«Sì, lui cerca un rapporto con il popolo non filtrato dai nobili. È stato un tiranno riformatore, modernizzatore, cui seguirà il superbissimo Tarquinio il Superbo: le tirannidi, anche quelle con le migliori intenzioni, finiscono per degenerare. Prima delle democrazie, solo una tirannide poteva mettere nell’angolo un’oligarchia. Ma anche nelle democrazie possono esserci tendenze più costituzionali e altre tendenti alla rottura delle regole».
Sembra di vedere un ritratto in nuce di Berlusconi, con tutte le differenze del caso. Il premier, almeno fino a poco fa, ha saputo comunicare direttamente ai cittadini, al «popolo» dice lui, e al «popolo» si appella quando travalica le regole.
«Rimango pur sempre uno storico e so bene come i paragoni possono indurre a interpretazioni partigiane. Servio Tullio poteva prendere il potere solo illegalmente, rompendo ogni regola, perché era figlio illegittimo e segreto di re: un servo liberato. Questo potentissimo liberto ha rifondato una Costituzione, superando quella di Romolo. Ha avuto aspetti liberatori, come la cittadinanza basata sulla residenza, e ha creato le basi della futura potenza di Roma. D’altronde ogni rottura delle regole può esser fatta a fin di bene (Servio) e a fin di male (Tarquinio il Superbo)».
Ma qualcosa richiama l’attuale premier.
«Un aspetto tipico di tutte personalità carismatiche nella storia è la loro illimitatezza. Starei però molto attento a vedere una metafora dell’oggi nel mio racconto. Se devo fare un paragone con i nostri giorni, vedo l’emergere nuovi ceti, che incontro alle mostre, che popolano gli outlet. È facile dire: ecco i barbari! È come se ci fosse stata una lotta di classe... La vecchia borghesia è stata sconfitta e questo nuovo ceto medio diffuso è antropologicamente diverso. Tutte le vecchie classi hanno visto male l’emergere di nuovi ceti: nei balli parigini sotto Napoleone gli ufficiali avevano mani coperte di diamanti! Ai nuovi ceti bisogna offrire scelte diverse. Loro votano e la storia torna a macinare...».
La violenza rituale del «melting pot» romano
Un nuovo volume della Fondazione Valla presenta i testi che celebrano la nascita di Roma e le sue mitologie, a cominciare dal ratto delle Sabine
DI ROSITA COPIOLI (Avvenire, 08.05.2010)
Violenza e rapimento, trasgressione e violazione, sono i primi atti compiuti per mutare un ordine e stabilirne uno nuovo.
Dopo la fondazione di Roma, Romolo, ispirato dal padre Marte, decide di prendere con la forza le donne che i popoli del Lazio gli negano, perché disprezzano il suo popolo di pastori.
Organizza giochi in onore di Posidone, ai quali invita gli abitanti delle città vicine. Il ratto delle donne sabine avviene con l’inganno durante il rito.
La violenza ha uno scopo matrimoniale. I Romani vogliono che sia sancito il loro diritto al connubio e alla fusione dei popoli. Alla guerra che segue, al tradimento di Tarpeia in favore dei Sabini, punito con la morte, subentra la riconciliazione tra i popoli: la vogliono le stesse donne rapite.
Dietro lo schema del ratto rituale (affine ai riti di passaggio), diffuso in tutto il mondo, benché più raro in forma collettiva, si celano concezioni del mondo estremamente complesse.
I Romani assimilano Greci, Etruschi, Italici, Orientali, sacralizzano ogni atto e concetto con la stessa concreta mania distintiva degli antichi Vedici.
Nei luoghi consacrati della fondazione della «Roma quadrata» a partire dalla metà del IX secolo a.C. e della sua estensione territoriale, ogni costruzione, distruzione, ricostruzione, prevedeva sacrifici, uccisioni rituali, la città dei vivi si sosteneva sui morti, passati violentemente nell’aldilà.
Questo rapporto ctonio, e celeste, per l’osservazione degli astri e del Tempo nel calendario (lunare e di dieci mesi fino ad età regia), indica la struttura che regola uomini e donne sulla terra.
Quando Augusto si instaurò come nuovo Romolo, nella sua domus inglobò la «Roma quadrata» del fondatore, vi restaurò il Lupercale, il «presepe» di Romolo e Remo nel proprio santuario, definì il calendario solare riformato da Cesare.
Singolarmente, la cappella palatina di Santa Anastasia di età costantiniana, che si affiancò alla domus , iniziò a celebrare lì il Natale cristiano, il presepe nuovo rispetto all’antico.
E le donne? Le donne sono la terra. Che viene presa e posseduta. Le donne diedero allora i nomi alle curie. Una consolazione, rispetto al principio del ratto? No. L’interpretazione simbolica rispetta la violenza reale. Nemmeno sant’Agostino è immune dall’idea del possesso - legittimo, attraverso la violenza: «il vincitore avrebbe conquistato per diritto di guerra le donne che gli erano state negate ingiustamente; invece le rapì contro ogni diritto di pace e fece una guerra ingiusta contro i loro genitori giustamente sdegnati» ( La città di Dio, II, 17).
Si crede che Roma sia conosciuta. Eppure le infinite denominazioni di Giove, Giunone, Venere, di figure come Conso, Pico, Bona Dea, Acca Larentia, Tacita Muta, Anna Perenna, riti come i Matralia, sono ancora nascosti nelle viscere della città. Penso al ritrovamento straordinario (1999) del deposito di Anna Perenna, che presiedeva all’anno, al cibo, alla magia. Questo libro dimostra fino a che punto sia possibile rivedere la realtà antica di Roma, attraverso l’analisi comparata di fonti mitiche, etnografiche, letterarie, artistiche, epigrafiche, giuridiche, di tutti gli studi storici nel loro complesso, alla luce delle più recenti indagini archeologiche stratigrafiche: condotte fino a raggiungere la terra vergine.
*
A cura di Andrea Carandini
LA LEGGENDA DI ROMA
Dal ratto delle donne al regno di Romolo e Tito Tazio
Fondazione Valla/ Mondadori Pagine 452. Euro 30
PER LA CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA E FARAONICA. E PER L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI "PREISTORIA" E DI "LABIRINTO" ...
SIGMUND FREUD E LA LEGGE DEL "PADRE NOSTRO". IL ‘LUPO’ HOBBESIANO, L’ ‘AGNELLO’ CATTOLICO, E “L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTA”. Indicazioni per una rilettura
La lupa di Roma è medievale la prova è nel test al carbonio
di Adriano La Regina la Repubblica - 09 luglio 2008, pp. 1/21
ROMA. Nuove analisi al radiocarbonio eseguite sulla Lupa Capitolina confermano l’ attribuzione della scultura all’ epoca medievale. Le indagini sono state svolte in uno dei più attrezzati laboratori scientifici italiani per questo genere di attività, il Centro per la datazione e la diagnostica dell’ Università del Salento. Accertamenti sulla datazione del celebre bronzo erano stati preannunciati dai responsabili dei Musei Capitolini il 28 febbraio 2007 a Roma, alla Sapienza.
Ma poi non se ne era saputo più nulla. Solamente nell’ agosto del 2007 trapelarono le prime notizie sull’ effettivo svolgimento delle analisi. Il 31 ottobre, infine, una nota di agenzia fece sapere che le indagini erano state eseguite, ma i risultati non furono divulgati: il Comune di Roma si era riservato il diritto di pubblicarli, ma non lo ha fatto. Le nuove informazioni sull’ epoca del bronzo capitolino sono state così sottratte per circa un anno alla conoscenza del pubblico e degli studiosi. La scultura era stata variamente attribuita all’ arte antica: etrusco-italica, magno-greca, romana; secondo l’ opinione più diffusa era considerata un oggetto di produzione etrusca dei primi decenni del V secolo avanti Cristo.
A riconoscerne la fattura medievale è stata Anna Maria Carruba, la quale per prima aveva accertato che la Lupa era stata fusa a cera persa col metodo diretto in un sol getto, tecnica adottata per i grandi bronzi nel Medio Evo e non in epoca precedente; aveva anche constatato che le superfici della scultura non presentavano i segni caratteristici delle lavorazioni antiche, bensì quelli riscontrabili su tutti i bronzi di epoca medievale. I risultati, insospettati e strabilianti, furono pubblicati dalla Carruba nel dicembre 2006 suscitando attenzione internazionale, specialmente in Germania ove le ricerche sulle antiche tecnologie sono molto avanzate. In Italia, nel mondo degli studi di storia dell’ arte antica, si ebbero reazioni non unanimi con segni di contrarietà tra quegli archeologi del Comune di Roma che avevano sottovalutato e respinto le ripetute segnalazioni di Anna Maria Carruba, impegnata nel restauro della Lupa tra il 1997 e il 2000. Anche contrari sono stati taluni ambienti accademici insofferenti dei successi dovuti alle nuove tecniche di indagine; il lavoro della Carruba ha inoltre infranto definitivamente il vecchio pregiudizio di un rapporto gerarchico tra lo storico che interpreta i fenomeni artistici, e gli altri ricercatori che studiano la materia dell’ opera d’ arte e le sue trasformazioni.
La Lupa è un’ opera d’ arte possente, raffinata e complessa. Ha sempre esercitato un fascino particolare, ha evocato miti e leggende. Theodor Mommsen (1845) osservò che il bronzo, da lui considerato genericamente antico, benché horridum et incultum lo commuoveva più delle belle sculture presenti nel museo. L’ attribuzione all’ arte etrusca risaliva però già al Winckelmann (1764), il quale aveva tratto questa convinzione dalla rappresentazione appiattita dei riccioli e delle ciocche del pelame che in ogni successiva trattazione sarebbero rimasti l’ oggetto di raffronto stilistico con altre opere d’ arte. La successiva storia degli studi riguardanti la Lupa è stata offuscata da informazioni erronee, superficiali e fuorvianti su restauri mai eseguiti, come quelli relativi alla coda, oppure su danni subiti, che in realtà sono difetti di fusione.
Già nella sua Roma antica Famiano Nardini (1704) attribuiva a un fulmine le lesioni alle zampe, identificando così la scultura con la statua di bronzo dorato, raffigurante Romolo allattato dalla lupa, folgorata nel 65 avanti Cristo sul Campidoglio. Gli aspetti iconografici del bronzo capitolino hanno dimostrato solo generiche analogie con l’ arte antica. L’ analisi stilistica si è per lo più rivolta all’ interpretazione dei caratteri non classici, considerati «italici». Soprattutto nella scuola germanica la critica ha insistito anche per la Lupa nella ricerca strutturale (Strukturforschung), teorizzata negli anni Trenta da Guido Kaschnitz von Weinberg, un eminente storico dell’ arte antica. Sulla scia teorica di Kaschnitz sono gli studi sulla Lupa di Friedrich Matz (1951), che vi ha riconosciuto un prodotto dell’ arte etrusca.
Questa posizione interpretativa è stata ancora ribadita da Erika Simon (1966). Il primo a dubitare dell’ antichità della Lupa è stato Emil Braun (1854), segretario dell’ Istituto di corrispondenza archeologica di Roma, il quale riconobbe nei danni alle zampe dell’ animale un difetto di fusione e non i guasti prodotti da un fulmine. Successivamente Wilhelm Frohner (1878), conservatore del Louvre, ravvisò nella scultura caratteri stilistici attribuibili all’ epoca carolingia; infine Wilhelm Bode (1885), direttore del Museo di Berlino, fu parimenti dell’ avviso che si trattasse con tutta probabilità di un’ opera d’ arte medievale.
Queste rapide osservazioni nel corso del Novecento caddero in totale oblio. La Lupa capitolina resta un’ opera problematica, dovuta a una personalità artistica di cui occorrerà definire la posizione e il ruolo nel contesto della produzione scultorea, e in particolare bronzea, del Medio Evo nell’ Italia centrale.
I dati finora acquisiti consistono nell’ accertamento del luogo di produzione, circoscrivibile in base alle terre di fusione nella vallata del Tevere da Roma a Orvieto (G. Lombardi, 2002); nel riconoscimento di una tecnica di fusione adottata in età medievale, documentata a partire dal XII secolo (Carruba, 2006); in una serie di analisi (radiocarbonio, termoluminescenza) più volte eseguite negli ultimi anni, che concorrono a indicare un’ epoca di produzione compresa tra il secolo VIII dopo Cristo e il secolo XIV; le ultime, ripetute una ventina di volte l’ anno scorso, offrono un’ indicazione molto puntuale nell’ ambito del XIII secolo. L’ autore è stato soprintendente ai beni culturali di Roma -
Individuato il Lupercale, dove nel mito la lupa ha allattato i gemelli
E’ vicino alla casa di Augusto sotto le pendici del Palatino
Roma, la leggenda diventa realtà
trovata la grotta di Romolo e Remo
Le prime immagini mostrano una volta con marmi colorati e una grande aquila bianca
Rutelli: "Strabiliante. Per secoli era stato cercato ed ora finalmente è sotto gli occhi di tutti"
ROMA - La leggenda si fa storia. Il luogo più celebre del mito della storia di Roma, cercato per secoli, è apparso. Il Lupercale, ovvero il luogo dove la lupa avrebbe allattato i gemelli Romolo e Remo, è stato trovato: è vicino alle mura della dimora di Augusto, in un avvallamento sotto le pendici del Palatino e in un’area mai esplorata finora tra il Tempio di Apollo e la Chiesa di Sant’Anastasia, a 16 metri di profondità. A dare oggi l’annuncio dell’incredibile scoperta, il ministro per i Beni e le attività culturali Francesco Rutelli.
"Nel corso dell’esplorazione di questi giorni del Palatino, nella parte che dà verso il Circo Massimo, una sonda a 16 metri di profondità ha trovato qualcosa di veramente strabiliante", ha detto il ministro illustrando i dettagli della scoperta. La struttura a forma di ninfeo sembra essere una grotta in parte naturale e in parte artificiale, alta circa 9 metri e con un diametro di 7,5.
La microtelecamera della sonda ha mostrato una volta decorata a cassettoni, che riquadrano motivi geometrici non figurativi realizzati a mosaico con tessere di marmo policromo, ed è impreziosita ulteriormente da filari di conchiglie bianche e dall’aquila bianca di Augusto al centro della volta stessa. A quanto pare, edificando la sua dimora proprio in quel luogo, l’imperatore volle annettere alle sua villa quel luogo altamente simbolico della storia di Roma.
Una visione mozzafiato che è stata ottenuta dalla soprintendenza, che ancora non ha messo piede nella grotta, solo alla fine di luglio scorso. "Una vivacità policroma impressionante che sembra a prima vista un unicum nel complesso della Casa di Augusto", commenta l’archeologa Irene Iacopi che ha diretto lo scavo. Con lei, il soprintendente archeologico Angelo Bottini, il professor Giorgio Croci curatore del supporto scientifico ai lavori di scavo sul Palatino e il noto archeologo Andrea Carandini.
"La grotta è ancora quasi interamente riempita di terra di riporto - dice Bottini - ma con la sonda siamo arrivati fino al pavimento che è di cocciopesto per approssimare le dimensioni di 7,5 metri d’altezza e 6 di diametro. La struttura ipogea, che ha le sembianze di un ninfeo, dove alle pareti abbiamo riconosciuto una nicchia, è alla base della collina, allo stesso livello del Circo Massimo, ed è stata inglobata in un complesso di strutture che l’hanno rispettata e decorata secondo la moda del tempo. Lo scavo sarà, quindi, complesso. Partiremo dall’alto per scendere verso il basso". "Dallo scavo, che coinvolgerà una struttura iniziale di circa 700 metri quadrati, ci aspettiamo di conoscere le connessioni tra il Lupercale e il Tempio della Casa di Augusto che aveva l’ingresso monumentale su questo versante del colle".
Il culto del Lupercale, ha spiegato Andrea Carandini, era ancora vivo nel quinto secolo dopo Cristo. Cosa che suscitò le ire del papa Gelasio I: il Pontefice proibì ai romani di praticare il rituale legato alla grotta, ovvero correre intorno al Palatino, il sacro colle, appunto, frustando le donne per renderle fertili.
Ora si dovrà cercare un varco per entrare nella grotta, costruire un cantiere in sicurezza, e svuotare del terriccio. "Gli studiosi - ha spiegato Rutelli - lavoreranno per anni sui dettagli di questa struttura. Si tratta di un luogo di culto, un santuario che Augusto trasformò in uno dei punti centrali della sua casa. Per secoli era stato cercato ed ora finalmente è sotto gli occhi di tutti".
* la Repubblica, 20 novembre 2007.
Roma, apre ai visitatori sul colle Palatino il palazzo del grande imperatore
Gli ambienti furono scoperti negli scavi degli anni ’70
Affreschi, stucchi e tanta storia
Signori, è la casa di Augusto
Molto tempo per la sistemazione. Un percorso straordinario
di GOFFREDO SILVESTRI *
ROMA - "Casa di Augusto". Siamo sul Palatino, nella zona più sacra alla Roma delle origini e questa è una reggia del primo imperatore di Roma Ottaviano Augusto. Dell’uomo che con Cesare è per la gente la figura emblematica dell’impero romano, al quale è legato il "periodo d’oro" della civiltà romana.
All’inizio era la "Casa di Augusto" non ancora imperatore cioè prima del 16 gennaio del 27 avanti Cristo. Poi, alla fine, comprando e ristrutturando le abitazioni circostanti più o meno importanti compreso il tempio di Apollo Aziaco, la "casa" sarebbe diventata di 12 mila metri quadri, su più livelli. Dimora per le funzioni private e palazzo imperiale per le funzioni civili, politiche e religiose dato che Augusto era guida e autorità in tutti i settori, con tutti i poteri e le cariche a vita, compresa quella di Pontefice Massimo. Eppure anche il potere e la gloria di Augusto passeranno (morì nel 14 dopo Cristo, a 77 anni) e gli archeologi troveranno parte della casa demolita da Domiziano per costruire il suo palazzo.
La "Casa di Augusto", una concentrazione di storia e di interesse archeologico alla quale pochi monumenti del Palatino possono essere paragonati, ma per il pubblico ha un valore aggiunto incommensurabile. Una decorazione pittorica (e di stucchi) all’altezza del personaggio, cioè di qualità altissima. Affreschi considerati il "maggior complesso" della pittura di II stile pompeiano (il metro stilistico usato per valutare la pittura romana), della fine del I secolo avanti Cristo.
Non frammenti, piccole porzioni, ma pareti e volte intere, interi ambienti. Alcuni affreschi ritrovati miracolosamente sui muri sui quali erano stati dipinti, gli altri in pezzi consistenti o in migliaia di frammenti, a volte minuscoli, mescolati alla terra, che sono stati ricomposti, restaurati, rimessi su pannelli al loro antico posto.
Ora, dal 10 marzo, la "Casa di Augusto" viene finalmente aperta al pubblico, ai visitatori del Palatino. Regolarmente, anche se parzialmente e con cinque visitatori alla volta ammessi negli ambienti affrescati. Un limite che tiene sotto controllo le variazioni di temperature e umidità (per la conservazione dei dipinti), e per ragioni di sicurezza generale in ambienti di dimensioni ridotte.
Una apertura dopo tanto tempo. Gli ambienti visitabili sono stati scoperti con gli scavi di Gianfilippo Carettoni alla fine degli anni Settanta del Novecento. Alla scoperta sono seguiti anni di studi per essere certi che fosse la "Casa di Augusto", di altri scavi, irregolari per i finanziamenti a singhiozzo, di fondamentali lavori sul terreno, le strutture e i muri (quelli più importanti, che non si vedono), di ripristino delle coperture di alcuni degli ambienti per poter applicare gli affreschi ricomposti, di restauri. Una apertura che è un avvenimento di valore mondiale per l’archeologia.
Per tagliare questo traguardo, nei due ultimi anni la soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma diretta da Angelo Bottini, ha concentrato un milione 540 mila euro in particolare attorno al peristilio (il giardino porticato a colonne) della prima fase della "Casa" di Augusto non imperatore. Su due lati del peristilio si aprono i locali più rappresentativi dell’abitazione. Il nucleo è situato sul pendio del Palatino lato Velabro, nel tratto adiacente al tempio di Apollo Palatino eretto da Augusto, tra le "scale di Caco" e le biblioteche di Domiziano. Le "scale" salgono dalla base un tempo paludosa del colle, di lato alla mitica-non più tanto mitica grotta del fauno Luperco (il Lupercale) dove Romolo e Remo sarebbero stati assistiti e allevati con quello che ne è seguito. Caco era un gigante e bandito che fu ucciso da Ercole al quale aveva rubato le mandrie, premio alle fatiche. Augusto avrebbe insomma organizzato la propria abitazione quasi in collegamento verticale con il luogo che più di tutti evocava la nascita di Roma.
L’individuazione di quello che molti indicano come il Lupercale (per ora esplorato solo con sonde) è certamente rafforzata dalla stretta connessione fisica con la "Casa di Augusto" .
Con un percorso attraverso il peristilio si visita il settore che eccelle per l’"altissima qualità" degli affreschi. Il cosiddetto, raffinato "studiolo di Augusto" espressione del suo utilizzatore, dalla volta decorata di stucchi, un "cubicolo" in posizione superiore al quale si accede attraverso una terrazza; il "cubicolo inferiore"; il grande "oecus", l’ambiente di soggiorno e di ricevimento; i due locali denominati "della rampa" e "dell’antirampa". Gli ambienti sono collegati fra loro, ma senza finestre: la luce naturale veniva solo dalla porta con un affaccio su di un grande giardino.
Questa parte della casa fu trasformata da Augusto in una piattaforma-fondamenta cioè riempita di materiali di risulta quando decise di allargare la dimora. Un’operazione come quella che ci ha regalato la Domus Aurea di Nerone sul Colle Oppio, trasformata in fondamenta delle terme di Traiano, e ora gli ambienti affrescati di Augusto sul Palatino.
Con la pittura di II stile si passa da una parete raffigurata chiusa e piatta ad una raffigurazione di architetture dipinte prospetticamente su vari piani: zoccolo, podio "che sembra invadere la stanza" con colonnati, architravi e soffitti "che appaiono continuare oltre la parete" e questa conquista una profondità spaziale, con grandi squarci e finestre che mostrano santuari, paesaggi in lontananza. Anche personaggi in dimensioni quasi al naturale.
Nello "studiolo" rimanevano sulla parete frontale circa due terzi dell’affresco, sulla volta un’ampia porzione di pittura e stucchi. Tutto il resto della decorazione di pareti e volta era ridotto in frammenti e si era mescolato con i frammenti del "cubicolo inferiore" che per fortuna conservava la quasi totalità della decorazione sulle pareti. Nell’ambiente di soggiorno e ricevimento si sono ritrovati i frammenti degli affreschi della parte superiore delle pareti dell’antisala crollate per i lavori del Palazzo di Domiziano. Tutto il resto della decorazione molto deteriorato, è stato consolidato e reintegrato per poter essere presentato.
In occasione dell’apertura al pubblico è uscito un volume di Irene Iacopi della soprintendenza, responsabile delle ricerche in questa zona del Palatino, "La casa di Augusto. Le pitture" (Electa, 83 pagine) che illustra anche i dipinti di ambienti non ancora visitabili (come l’ambiente "delle prospettive", la "stanza delle maschere"). Ma quel che si vede è già straordinario, a volte ubriacante, nella girandola dei colori accesi, rosso, ocra giallo dei pannelli rettangolari, della fantasia delle fasce nere della decorazione architettonica, nelle meraviglie della tridimensionalità degli sfondi. Nello "studiolo" la volta a botte con stucchi in mattonelle esagonali e riquadrati dipinti con amorini e motivi floreali. Alle pareti su più piani di profondità, pannelli con paesaggi e scene di culto. Colonne che "scavalcano" cornici, terminano in vetta con candelieri a forma di fiore ed hanno la base che ugualmente "si sfoglia". Come un vaso decorato con foglie di carciofo. E su una cornice un uccellino sta becchettando. Mentre su altre cornici si inseguono figurine fantastiche, femminili alate, grifi. E all’improvviso spunta una testa di satiro.
Nel grande "oecus" predomina il rosso cupo. Su due pareti a fronte è ripetuta la facciata di un tempio a quattro colonne su di un podio giallo ocra. Fra due colonne una maschera. In una scena una gran dama con manto, diadema e collana. Nell’ambiente "della rampa" volta a cassettonato monocromo accanto a lacunari policromi, con losanghe in rettangoli e quadrati. Nella fascia superiore una veduta fra sfondi di colonne e trabeazioni. Nel "cubicolo inferiore" sono dipinti due palcoscenici su pannelli rossi fra alte colonne corinzie. Uno ha la scena centrale e immaginarie aperture laterali. L’altro è prolungato in una scena di vita in una città, con un fregio popolato da esseri marini. Basta. Fermate le onde.
Notizie utili - La "Casa di Augusto" è visitabile dal 10 marzo. A piccoli gruppi. All’interno degli ambienti possono stare solo 5 persone alla volta per motivi di conservazione e sicurezza. Una via diretta per raggiungerla parte dalla via Sacra, all’altezza del tempio di Antonino e Faustina. Si passa accanto alla Regia, al tempio di Vesta e si prende una scala che porta in salita alla grandiosa Domus Tiberiana. Quindi a sinistra e diritto nel lungo criptoportico che termina alla "Casa di Livia" dietro la quale è la "Casa di Augusto" con a fianco il tempio di Apollo Palatino. La zona domina a destra via San Teodoro col Velabro, e davanti il Circo Massimo. La Electa ha pubblicato un volume (83 pagine) di Irene Iacopi "La casa di Augusto. Le pitture".
Orari: dalle 8,30 a un’ora prima del tramonto. La biglietteria chiude un’ora prima. Il lunedì apertura dalle 11.
Biglietto: intero 11 euro; ridotto 6,50. Il biglietto consente l’ingresso al Colosseo e alla mostra "Trionfi romani", al Palatino e Foro Romano.
ho qualche dubbio sul fatto che la Lupa sia opera di ignoto artista dell’alto medioevo.Non tutti i critici sono d’accordo con le conclusioni della Carruba anche se appoggiate dall’autorevolissimo La Regina.Quali sono le altre opere in bronzo medioevali più o meno coeve similari a questa in modo da poter fare un utile raffronto? da quali officine sarebbe uscita questa lupa medioevale? da officine romane?e per quale scopo sarebbe stata fatta un’opera di questo genere?chi sarebbe il committente dell’opera?Insomma tanti interrogativi. federico
14.02.07